Se la sinodalità è un processo, come sembrerebbe intendere papa Francesco, questo vuol dire che essa si configura solo esercitandosi concretamente. Ossia, sapremo quali sono le sue caratteristiche portanti e i modi in cui riconfigurerà la Chiesa cattolica solo quando quei processi che essa ha innescato saranno giunti a una prima maturazione.
Attualmente, quindi, siamo tutti degli apprendisti stregoni in materia. Certo, essa non nasce dal nulla – ha i suoi prodromi storici anche nella tradizione cattolica, ed è esercitata da altre Chiese cristiane. Ma, per quanto possano essere significative queste pratiche del passato o del presente del cristianesimo, esse rappresentano solo degli spunti per qualcosa che nella Chiesa cattolica uscita dalla modernità ancora non c’è.
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Una delle grandi difficoltà per dare slancio ai processi sinodali nelle nostre Chiese locali è rappresentato dalla incongruenza tra l’attuale ordinamento giuridico cattolico e la pratica stessa della sinodalità – se quest’ultima non vuole essere ridotta a un retorico atto di ascolto, sopportato magari non senza qualche fastidio, che lascia tutto come è sempre stato. Esito, questo, non auspicato nemmeno dai documenti vaticani che stanno accompagnando i percorsi di preparazione della celebrazione del Sinodo sulla sinodalità.
Parlare di rifondazione e riconfigurazione vuol dire, senza ombra di dubbio, fare qualcosa: accettare di ritrovarsi a non essere più quello che si è stati fino a ora. Quello che, in questo momento, troppo spesso si dimentica, o si cela, è che questa è esattamente la dinamica che costituisce il senso della tradizione cattolica. Essa è fatta di punti di rottura perché accompagna la medesima rivelazione del Dio di Gesù nella storia umana: costruendo, in ogni stagione dell’umano vivere, il nesso fra il vissuto di Gesù, la testimonianza della fede e la vicenda degli uomini e delle donne nel tempo comune del vivere.
Pratica a cui oggi, in maniera inedita, chiediamo di essere al tempo stesso la forza del legame e quella della rifondazione, la sinodalità, appena uscita dalla sua culla cattolica, entra in sofferenza e si presta a forzature che possono stremarla prima ancora che essa possa esercitarsi con quella liberalità tipica di ogni figura evangelica.
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Ben prima di chiedere qualcosa alla sinodalità, come comunità cristiane, dobbiamo prenderci cura di essa – anche quando il suo uso può sembrare immediatamente funzionale a disincagliare la barca di Pietro dalle secche in cui sembra essersi arenata. Per uscire dalla culla in cui essa si trova, la sinodalità ha bisogno di tutta la pazienza del contadino di evangelica memoria.
E ben prima che come potere, nelle mani degli uni o degli altri, la sinodalità va intesa come una forza in cerca di forma: ed è proprio questo il lavoro che non abbiamo ancora fatto. Il passo da compiere, ora che la forza della sinodalità è stata resa possibile nell’ambito della fede cattolica, è quello di entrare in una fase costituente che le corrisponda.
Si tratta, dunque, di trovarle la forma normativa che le consenta di rimanere se stessa: forza e processo. In questo compito, tanto urgente quanto improbo, possiamo trovare una qualche ispirazione nella trasformazione che il costituzionalismo occidentale ha conosciuto col XX secolo – quando si riproponeva, in maniera inedita, la questione di una riconfigurazione radicale del potere costituente nell’organizzazione fondativa della socialità umana.
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Rappresentanze e popoli politici diversi, quasi diametralmente opposti tra loro, si trovarono accomunati davanti al dovere epocale di questo comune esercizio di una responsabilità costituente. E misero mano a questo compito leggendo la realtà sociale che avevano davanti ai loro occhi, consapevoli che il vincolo di rappresentanza li subordinava al cittadino e alla cittadina in tutta la concretezza della loro vita e delle loro esperienze. I testi costituzionali che uscirono da questa fase del XX secolo non furono scritti in funzione dell’istituzione (lo stato), ma a favore della socialità e della cittadinanza – senza le quali l’istituzione non rimane che un contenitore vuoto di esercizio del potere.
Oggi, nella Chiesa cattolica, scorre una forza costituente, la sinodalità appunto, in cerca della sua forma: affinché questa forza non si disperda, e non venga piegata a funzione esclusiva dei vari popoli cattolici che compongono la Chiesa, si pone urgentemente la necessità di una vera e propria fase costituente della Chiesa tutta. Dove la responsabilità epocale di darle un quadro normativo fondativo e comune chiede a tutti di andare oltre l’orizzonte ideologico dei propri immediati interessi, per mettere mano a una vera e propria Costituzione della Chiesa cattolica.
Una Costituzione che non abbia solo un compito di garanzia, ossia di limitazione dell’esercizio del potere istituzionale, ma anche un carattere attuativo: rimandano cioè tutta la comunità ecclesiale al dovere di realizzazione della forma costituzionale che incanala la sinodalità come forza e processo verso quella rifondazione della Chiesa cattolica a cui essa dovrebbe condurre.
Trovo questa sorta di appunti per una riflessione più organica, più sistematica interessanti. Condivido pienamente (c l’idea di una (cito) “incongruenza tra l’attuale ordinamento giuridico cattolico e la pratica stessa della sinodalità”. Mi pare di poter dire che la pratica sinodale, non disciplinata e, pertanto, lasciata alla buona volontà di taluni sia fuori luogo rispetto all’ordinamento canonico che non l’ha codificata come, invece, oggi, data l’urgenza, meriterebbe. Dispiace sentire poche voci a riguardo… è come se non si avvertisse una mancanza. Il nodo della “querelle” Germania-Santa Sede sta tutto qui. Se venisse sciolto, si potrebbero evitare strappi inopportuni di un tessuto ecclesiale, ormai logoro dovunque in Occidente a motivo degli abusi.