Nella sintesi della 16ª Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei vescovi, presentata sabato 28 ottobre 2023, colpisce il richiamo alla revisione del Codice di diritto canonico.
Nella prima parte della sintesi (“Il volto della Chiesa sinodale”), al primo punto, dopo le convergenze e le questioni da affrontare, all’ultimo passaggio delle proposte (lettera r) è scritto: «Pare giunto il momento per una revisione del Codice di diritto canonico e del Codice dei canoni delle Chiesa orientali. Si avvii quindi uno studio preliminare».
La proposta è interessante, anche se la revisione appare faticosa e (sicuramente) problematica. Essa dovrà affrontare una serie di problemi generali e particolari di non facile orientamento. Non a caso, la nota parla di “studio preliminare”.
Intanto, si dovrà attendere la seconda sessione finale del Sinodo nell’ottobre 2024 per conoscerne gli orientamenti.
Inoltre, le impostazioni sinodali, in stretta connessione con la teologia, la liturgia, la morale, dovranno fare da guida per la visione complessiva del diritto: quale posto occupa la norma nella vita della Chiesa, con quale linguaggio e stile, con quali fonti e riferimenti?
Sono apparsi i primi commenti dello svolgimento di questa prima fase in stile narrativo:[1] tradurre i contenuti in norme è altra storia, anche perché alcuni riferimenti sono assolutamente nuovi per un’impostazione giuridica.
Il senso della legge ecclesiastica
La discussione sul senso della legge ecclesiastica fu intensa alla fine degli anni ’60 e all’inizio anni ’70. Papa Giovanni XXIII, il 25 febbraio 1959, aveva annunciato, in occasione della Settimana dell’unità dei cristiani, l’esigenza del Sinodo romano e del Concilio ecumenico, con l’opportunità della revisione del Codice di diritto.
Soltanto dopo quattro anni, il 23 marzo 1963, sarà nominata la Commissione per la revisione del Codice, composta da 40 cardinali, presieduta dal card. Pietro Ciriaci.
Nell’anno successivo, il 17 aprile 1964, Paolo VI nominerà 70 consultori per la Commissione. Nella prima riunione, la Commissione decise che era meglio attendere la fine del Concilio, prima di iniziare il lavoro. Propose però tre questioni fondamentali: l’esistenza di uno o due codici (il secondo per le Chiese orientali), la redazione di un “ordinamento” per il lavoro delle commissioni, la divisione del lavoro da affidare alle varie commissioni.
Nella sessione dell’aprile 1967 furono indicati tre obiettivi: i principi direttivi per la revisione del Codice, lo schema provvisorio dell’ordine del nuovo Codice, lo schema della Lex fundamentalis seu costitutionalis Ecclesiae.
Per quanto attiene i principi direttivi, furono indicati: indole giuridica del Codice, ridurre la conflittualità tra foro interno e foro esterno, attenzione alla cura pastorale con l’attenzione a non esagerare con obblighi e prescrizioni, meglio determinare le facoltà concesse ai Pastori delle Chiese locali, tutela del diritto delle persone, procedura di tutela dei diritti, conferma della struttura territoriale della Chiesa, revisione del diritto penale, nuova disposizione sistematica del Codice.[2]
Il primo Sinodo dei vescovi del settembre/ottobre 1967 fece propri questi principi. Il nuovo Codice è stato pubblicato con la costituzione apostolica del 25 gennaio 1983. Le caratteristiche sono state così sintetizzate.
Principio di corresponsabilità
Traduce in termini giuridici la dottrina conciliare sulla «vera quoad dignitatem et actionem aequalitas» (can. 208) di tutti i cristiani. In forza del battesimo ogni fedele è chiamato alla costruzione della Chiesa qui in terra. Da questa uguaglianza derivano diritti-doveri in ordine alle azioni concrete derivanti da questo principio di uguaglianza.
Principio di collegialità
È la forma con la quale i vescovi, con atti collegiali, e quindi in prosecuzione dell’azione del collegio apostolico, nella comunione gerarchica con il Romano Pontefice, sono preposti alla guida della Chiesa. La forma solenne di tale collegialità rimane quella espressa in occasione del Concilio ecumenico; esistono altre forme (Sinodo dei vescovi, Conferenze episcopali) nelle quali la collegialità è “in qualche modo” espressa. Ma, oltre la guida collegiale universale della Chiesa, esistono altre forme di collegialità (si pensi al rapporto del vescovo con il presbiterio) anche se in forme nelle quali l’unità è espressa dal vescovo.
Principio di sussidiarietà
È il principio per cui, dove è possibile, nell’azione del «minore non intervenga il maggiore». Il Codice ha assunto ampiamente questo principio. L’aspetto più eclatante di questo principio lo si deduce nei rapporti tra l’azione della Santa Sede e quella degli episcopati nazionali. Molte materie sono lasciate alla loro discrezione. Alcuni esempi: il potere di dispensa attribuito ai vescovi diocesani, le norme guardanti la formazione del clero, la costituzione e i poteri delle Conferenze episcopali, le norme in materia liturgica e sacramentale.
Principio di ecumenismo
L’attenzione ai problemi ecumenici è particolarmente tenuta presente nel Codice, soprattutto con la norma generale che afferma essere soltanto «i battezzati nella Chiesa cattolica» tenuti alle leggi ecclesiastiche.
Si cancellano di conseguenza le norme, così come erano state stabilite, sugli eretici e gli scismatici; viene, al contrario, introdotto il concetto della non piena comunione, per cui viene recepito dal Codice l’assunto del Concilio Vaticano Il della comunione con i vincoli della professione di fede, dei sacramenti e dell’ecclesiastico regime.
Principio di pastoralità
In diverse fasi della revisione del Codice si era sottolineata la necessità di questa nota del diritto che si può riassumere nella formula che “il diritto deve servire alla salvezza delle anime” e non il contrario.
Questa attenzione riguarda anche l’introduzione di principi riguardanti la corresponsabilità e di norme di costituzione di nuovi organismi pastorali – si pensi al consiglio presbiterale e pastorale –.
Lo stesso Codice raccomanda che le pene siano costituite in quanto veramente necessarie alla disciplina ecclesiastica e che le pene latae sententiae non siano comminate se non per delitti particolarmente gravi.
Si evince ancora la pastoralità del Codice dalle “raccomandazioni” dettate per la cura pastorale dei vescovi e dei parroci.
Principio di missionalità
Anche l’attenzione ai problemi della missionalità è ampia. Dallo snellimento delle procedure di incardinazione/escardinazione, al rapporto tra religiosi e Chiesa locale, ai principi espressi per l’azione missionaria della Chiesa. Il can. 781, introduttorio del Libro III, afferma: «Essendo tutta la Chiesa per sua natura missionaria ed essendo l’opera di evangelizzazione dovere fondamentale del popolo di Dio, tutti i fedeli cristiani, consci della propria responsabilità, assumano la propria parte nell’opera missionaria».
La persona
Tra i numerosi approcci possibili al nuovo Codice certamente il tema della persona è uno dei più stimolanti. Non soltanto perché nella dottrina teologica si è verificata una svolta antropologica, ma anche perché, per mezzo di questa attenzione, è possibile ricondurre a unità la legislazione canonica.
La persona, nell’ambito della Chiesa, ha la centralità in quanto le stesse strutture ecclesiastiche sono in funzione della costruzione della Chiesa che è popolo di Dio.
Tra le persone vige una vera uguaglianza per la dignità e l’azione (can. 208). Esse sono costituite in popolo di Dio (can. 204) e, in rapporto alla loro vocazione, sono chierici, laici, religiosi (can. 207).
Tutti sono chiamati a cooperare per l’edificazione della Chiesa (can. 208). Sono titolari di diritti e doveri (can. 209-223), in rapporto alla libertà, alla famiglia, alla gerarchia, all’organizzazione generale della Chiesa.
Possono associarsi per i fini della pietà, della carità e per ogni altra opera di apostolato (can. 298-239).
La stessa funzione del Romano Pontefice è quella di Pastore (can. 331), come sono pastori i vescovi singolarmente (can. 375) e in unità con il papa (can. 336 -342) e i parroci (can. 519) ai quali spetta la funzione della cura pastorale di una parte della Chiesa.
Ogni azione di pastore è diretta all’edificazione del corpo di Cristo che è la Chiesa (can. 529). I religiosi (can 573), pur dedicandosi peculiarmente, per la professione dei consigli evangelici, alla sequela di Cristo, contribuiscono con l’onore dedicato a Dio e per mezzo della loro vita all’edificazione della Chiesa.
La funzione della Chiesa è quella di predicare la parola del Maestro (can. 747 e ss.) e di diffondere la sua grazia (can. 834 e ss.) per il bene delle persone.
Nell’ambito del diritto, la persona, dopo il Codice, è meno discriminata in rapporto al genere, anche se rimangono alcune diversità: le donne sono inabili alla giurisdizione in quanto inabili all’ordine sacro (can. 1042), sono inabili alle funzioni con piena cura delle anime (can. 150), non possono fare i legati (can. 362), hanno l’impedimento di età per il matrimonio (14 anni) diverso da quello dell’uomo (16 anni) (can. 1083).
La Lex Eccesiae fundamentalis
Paolo VI, il 20 novembre 1965, in un discorso ai membri della Commissione pontificia per la revisione del diritto canonico, suggerì che era opportuno un Codice fondamentale comune, che contenesse il diritto “costituzionale” della Chiesa.[3]
Il 24 ottobre 1969, la prima bozza (textus prior) fu sottoposta al giudizio dei cardinali della commissione. Dopo le osservazioni della commissione, fu redatto un secondo testo (textus emendatus) spedito a tutti i vescovi della Chiesa cattolica. Dopo la consultazione dei vescovi (dal 1972 al 1977), una commissione speciale lavorò sul secondo testo.
La revisione del testo non fu terminata e la Lex Ecclesiae fundamentalis non fu mai pubblicata. La pubblicazione non autorizzata dei due testi suscitò un intenso dibattito sul significato della legge canonica e sui suoi fondamenti teologici.
Paolo VI nel discorso al Tribunale della Sacra Rota (29 gennaio 1970), riduce a tre le obiezioni contro il diritto nella Chiesa: libertà evangelica contro la legge; libertà evangelica contro l’autorità; libertà contro disposizioni antiquate sulla potestà giudiziale ecclesiastica.
Il dibattito teologico-giuridico fece emergere tre orientamenti:
- Il programma di deteologizzazione
- L’elaborazione istituzionale
- Il diritto nella concezione della Chiesa, considerata come mistero-sacramento e come comunione.
L’editoriale della rivista Concilium, del 1965,[4] suggeriva quattro elementi da tenere in considerazione: il rapporto diretto tra teologia e diritto; la norma è concretizzazione storica della teologia; la pastorale esige una concretizzazione anche attraverso la norma; la norma canonica è relativa e legata a circostanze storiche, con l’obiettivo della salvezza delle anime.
L’impostazione istituzionale (proposta dai giuristi spagnoli) insiste nella funzione sociale della Chiesa, chiamata a offrire la salvezza, per cui il carattere della Chiesa istituzione è segno e strumento di quello carismatico e invisibile, costituendo un’unica realtà. Per questo motivo la Chiesa ha necessità di un ordinamento che stabilisca l’autorità e definisca i comportamenti dei suoi fedeli.[5]
Per W. Bertrams, la Chiesa, nella sua struttura interna, possiede la finalità sua propria che è il dono dello Spirito che causa l’unione dei fedeli; nella sua struttura esterna la Chiesa ha bisogno di un’organizzazione che è rappresentata dall’attività giuridica.[6]
Per K. Morsdorf, la Chiesa è necessariamente una comunità visibile, capace e bisognosa di un ordinamento giuridico. La base dell’esistenza della Chiesa è sulla Parola e sul sacramento. Nei sacramenti ciò che è udito nella parola, diviene visibile e tangibile. Il mistero della salvezza si concretizza nei segni sacramentali. Il sacramento è imparentato con il simbolo giuridico. Per volontà di Cristo, la Chiesa costruisce sé stessa con questi santi segni: è il segno dell’Uomo-Dio.[7]
P. Huizing definisce la Chiesa come «comunità sacramentale di fede». L’assetto della Chiesa è definito come comunione: non può esserci opposizione tra legge e spirito, tra legame e libertà, tra comunione e persona. Nella Chiesa vige il «diritto di servizio»: portare le persone all’obbedienza interiore delle norme.[8]
L’impegno dello studio preliminare
Lo studio preliminare, se sarà proposto, dovrà prevedere prima di tutto una commissione nominata dal Sommo Pontefice. Chierici e laici, cardinali ed esperti? In che proporzione, con quali scopi e quali argomenti? Una lettera apostolica stabilirà composizione e linee-guida. Occorrerà sapere se si tratterà di un nuovo Codice o di un aggiornamento di quello esistente. Già qualche aggiornamento del Codice è stato introdotto: si pensi al processo di nullità del matrimonio e al Libro VI sulle pene ecclesiastiche.
Uno dei problemi più impegnativi sarà tradurre in termini giuridici lo stile sinodale, così che la «Chiesa sia più vicina alle persone, meno burocratica e più relazionale». Concetti come «discernimento», «dimensione emotiva», «linguaggio liturgico», «denuncia profetica», «giustizia» dovranno essere tradotti giuridicamente (e quindi regolamentati), oppure rimarranno estranei a un diritto che risulterà poco più che un “mansionario” di impegni?
Seguendo la prima strada, il rischio è che il nuovo Codice sia poco più che un appello alle buone volontà, dopo l’invocazione allo Spirito Santo; nella seconda ipotesi, è forse più utile un “insieme di regole” precise e obbligatorie per aiutare a tradurre nei fatti ciò che la teologia, la spiritualità, il magistero e lo stesso Sinodo suggeriscono come nuovo stile.
Per essere fedeli al Sinodo, è importante metter mano a quanto il Codice oggi afferma proprio a proposito di sé stesso: se rimane stabile la definizione attuale del Sinodo come assemblea dei vescovi che «prestano aiuto con il loro consiglio al Romano Pontefice nella salvaguardia e nell’incremento della fede e dei costumi», la presenza dei fedeli cristiani rimarrà comunque marginale e insignificante. Aumenta l’utilizzo di una sinodalità relazionale, ma non sostanziale (can. 342).[9]
Inoltre, il Collegio dei vescovi esercita la piena potestà «insieme al suo capo e mai senza il suo capo» (can. 336) nel Concilio ecumenico, ma non ha “luogo” per esercitare la potestà ordinaria.
Nel primo millennio della storia della Chiesa hanno fatto teologia e disposto norme i Concili delle varie Regioni ecclesiastiche. Con l’accentramento della potestà della Chiesa di Roma, questa tradizione è scomparsa. Esistono teoricamente i metropoliti e i Concili provinciali, ma di fatto sono svuotati di significato. Appellare alle Conferenze episcopali dei vari continenti significa ridurre la sinodalità sempre e comunque alla gerarchia. Rimane l’unica traccia di sinodalità nel Sinodo diocesano (non obbligatorio), dove è prevista, anche da statuti, la partecipazione dei fedeli nelle loro funzioni.
La catena della sinodalità, giuridicamente, parte e rimane nei territori della Chiesa locale, senza intaccare quella gerarchica.
Lo schema si ripete a livello della Chiesa locale: dalla nomina dell’Ordinario, alla gestione della vita della diocesi. L’unico obbligo che l’Ordinario ha è quello della costituzione del Consiglio per gli affari economici, della nomina dell’economo, del Consiglio presbiterale e del Collegio dei consultori; solo per quest’ultimo si esige un voto deliberativo per questioni di beni temporali. Nemmeno obbligatorio il Consiglio pastorale (can. 511).
La catena prosegue nell’organizzazione parrocchiale. Non può rimanere identica come prevista dal Codice, data la scarsità del clero e la mobilità delle persone. È previsto l’affidamento di più parrocchie a un gruppo di sacerdoti, con la nomina di un moderatore (can. 543). Il parroco, per esprimere sinodalità, deve appellare alle proprie sensibilità e alle proprie risorse o poco più.
Concludendo
Il cuore dello stile sinodale può essere riassunto nel rapporto tra potestà e servizio. Nella teologia e nel diritto conseguente, avendo legato la potestà ecclesiastica al sacramento, ne è derivata una gerarchia esagerata e non sempre giustificabile.
Per la funzione di santificare rimane il nodo del diaconato: che sia riservato solo agli uomini è derivante da legge divina oppure ecclesiastica? Gli appelli alla Scrittura sono stati variamente interpretati: è ancora in corso la riflessione con la seconda Commissione sul diaconato femminile. Suona forte il richiamo del profeta Malachia ai sacerdoti: «Avete usato parzialità nel vostro insegnamento» (Ml 2,9).
Anche la funzione di insegnare va approfondita, per non essere relegata a pochi addetti, oltre la voce autorevole del magistero. Si parla recentemente della “teologia del popolo”, in passato chiamata sensus fidei;[10] non ne è stata approfondita la valenza.
Ma l’esagerazione maggiore è sicuramente manifestata e regolarizzata nella cosiddetta potestà di “giurisdizione”. È stata legata alla potestà di ordine, a volte impropriamente, con leggi ecclesiastiche sicuramente da rivedere.
La sinodalità è possibile se improntata a servizio, il quale esige ascolto, partecipazione, discernimento, appellando a giustizia, con il contributo di tutti i fedeli cristiani.
[1] S. Dianich, Alcuni pensieri al Sinodo terminato, in Settimana news, 8 novembre 2023; P. Sequeri , Per cerchi concentrici, in Avvenire, 31 ottobre 2023.
[2] Per gli aggiornamenti dei lavori della Commissione fu costituita la rivista Communicationes, da cui è possibile trarre le notizie di questa fase di revisione.
[3] Per le vicende che hanno accompagnato le due bozze della Lex Ecclesiae fundamentalis, cf. L. Rosa, La Lex Ecclesiae fundamentalis – Il lungo e faticoso “iter” di un Progetto, in Aggiornamenti sociali, maggio 1977, pp. 319-337.
[4] Concilium, Ed. Francese, 1965, L’ecclesiologia oggi, pp. 7-9.
[5] C.J. Erràzuriz, Chiesa e diritto, saggi sui fondamenti del diritto nella Chiesa, EDUSC, Roma, 2022.
[6] W. Bertrams, De constitutione Ecclesiae simul charismatica et institutionalis, in Periodica 57 (1968), p. 265 e ss.
[7] H. Fries (a cura) – G.Riva (ed. Ital.) “Diritto canonico”, in Dizionario teologico, Vol. i, Torino, p. 485 e ss.
[8] P. Huizing, L’ordinamento nella Chiesa, in Aa.Vv., Mysterium salutis, IV/II, 1971, Brescia, 1971 pp. 194-227.
[9] Commentare la bellezza dell’ascolto reciproco è certamente utile, ma non significativo.
[10] Uno studio completo (“Il sensus fidei nella vita della Chiesa”) è stato redatto dalla Commissione Teologica internazionale, cf. IL Regno, novembre 2014; cf. inoltre papa Francesco, Evangelii gaudium n. 119-120.
Le donne nella societa’ civile esercitano la potesta’ e la giurisdizione e non per cooptazione, ma per elezioni democratiche, per concorsi e per competenze . Quelle che aspettano concessioni non so da quale secolo provengano e quelle che le ottengono non diventano piu’ libere, solo meno dignitose.Che gli uomini ordinati nella Chiesa, sedicenti ” vocati” a ” servire di piu'”, cioe’ ad ” essere piu’ grandi, facciano a meno delle donne risparmiandosi la boutade della maggiore dignita’ del servire, perche’ nessuna giovane veramente libera, intelligente e contemporanea se la beve
Penso che bisogna partire dall’ abrogazione del termine “suddito” usato nel Codice di diritto canonico e sostituito dal termine “fedele”. Fin quando sussiste questo termine nel codice non ci può essere sinodalità effettiva. Poi vanno introdotti o resi obbligatori i luoghi dove chierici e laici possono collaborare insieme.
Sulla necessità, quasi bisogno, di rivedere il Codice penso che non ci siano molti dubbi. Sulla volontà ho qualche dubbio/riserva. Ottobre 2024 è tra meno di un anno e quando lo studio preliminare dovrebbe partire? Mi aspetto che a breve – fine novembre – venga nominata un’apposita commissione che si metta celermente al lavoro perché c’è tanto lavoro da fare se si vuole rendere la Chiesa effettivamente sinodale (https://iltuttonelframmento.blogspot.com/2023/08/sul-sinodo-2.html).