Il Sinodo panamazzonico si svolgerà nel mese di ottobre (dal 6 al 27 ottobre 2019) e conterà sulla partecipazione di tutti i vescovi delle diocesi, vicariati apostolici e prelature che configurano la regione amazzonica. Dopo un intenso esercizio di discernimento spirituale di tre settimane, saranno prese le decisioni che indicheranno i nuovi percorsi di evangelizzazione per l’Amazzonia. Ma rimane la domanda cruciale di come saranno attuate queste decisioni.
Questo modesto contributo vuole mostrare, a partire da un veloce sguardo al territorio, alla sua difficile storia e sfide, ai governi dei paesi che configurano l’Amazzonia, che l’attuazione dei nuovi percorsi di evangelizzazione sarà un processo complesso e impegnativo. L’emergere di una consapevolezza più chiara, a partire dal 20° secolo, dell’Amazzonia come territorio integrato, ha cooperato a questo processo. Questa visione, tuttavia, non ha significato necessariamente una migliore cura di questa preziosa parte della nostra casa comune e lo evidenzia il devastante incendio dell’Amazzonia nel mese di agosto (2019).
Ma questo tempo nella Chiesa continua ad essere un kairos, un tempo speciale di grazia per la Chiesa nella regione amazzonica, un tempo che ha avuto bisogno dei semi precedenti, di una storia e di un processo previ, in cui il documento di Aparecida (Brasile, 2007) e la nascita del REPAM (Rete ecclesiale panamazzonica), 2014, hanno esercitato un ruolo essenziale nell’ultimo decennio.
Ora è un tempo opportuno per i nostri vescovi dell’Amazzonia di pensare a nuove possibilità, in particolare, alla creazione di una Conferenza episcopale amazzonica che possa attuare i nuovi percorsi di evangelizzazione di cui questa regione ha bisogno e che attende.
Il territorio amazzonico: una foresta abitata
Il Sinodo panamazzonico è chiamato “speciale” perché, a differenza di altri sinodi, si concentra su un territorio molto particolare e determinato, in questo caso la regione amazzonica del Sudamerica, la più grande foresta del mondo. Questa foresta si estende su 7,5 milioni di kmq ed è condivisa da 8 paesi (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname, Venezuela) e una regione di oltremare (Guyana francese).
È un territorio speciale, pieno di vita, in cui il verde riposa e rallegra lo sguardo e dove il Rio delle Amazzoni, come un enorme serpente d’acqua, lo abbraccia e lo avvolge con centinaia di affluenti, dando vita a una grande varietà di specie di piante, insetti, pesci e mammiferi.
La terra in Amazzonia non ha mai avuto quella nudità che caratterizza molte altre regioni desertiche del mondo. La terra in Amazzonia è sempre una foresta, una terra sempre rivestita e adorna di vita, è la madre natura che nutre, cura, veste, offre riparo e lavoro all’umanità.
L’acqua è l’elemento fluido fertilizzante dell’Amazzonia; senza l’acqua l’Amazzonia non sarebbe tale; i fiumi rappresentano quelle che sono le strade o le autostrade delle città. L’Amazzonia non si capisce senza questi percorsi e strade navigabili a volte di larghezza media o piccola e a volte così ampia che la vista non riesce a vedere da una sponda all’altra. Navi grandi e piccole, non auto, di varie forme e materiali, sono i mezzi tradizionali di trasporto tra le diverse popolazioni.
L’Amazzonia dà origine ad un altro tipo di fiumi, i “fiumi aerei” che sono le piogge che rendono possibile che il “bacino amazzonico” estenda il suo territorio come un “bioma amazzonico”, piogge che rendono fertili anche altri paesi non amazzonici del Sudamerica. La regione amazzonica è la fonte naturale di acqua che disseta un quinto dell’umanità.
Una foresta abitata e alterata dall’avidità: pennellate storiche
L’Amazzonia per migliaia di anni non è mai stata un territorio disabitato; è sempre stata abitata da centinaia di etnie indigene o “popoli originari”. Essi hanno imparato a vivere e si sono adattati a questa giungla piena di vita ma anche aggrovigliata, misteriosa e pericolosa e hanno trovato in essa riparo. Il numero di abitanti delle popolazioni originarie è di circa 3 milioni e attualmente sono suddivisi in più di 30 etnie indigene e in più di 100 gruppi di PIAV (Popoli indigeni in isolamento volontario) che, con una vita errante, percorrono diversi tratti della foresta amazzonica. Ognuno di questi gruppi ha un suo modo di organizzarsi socialmente, una sua cultura, un suo modo di essere.
La guerra rappresenta una costante minaccia tra diversi gruppi etnici e l’Amazzonia non è rimasta estranea a questo fenomeno e finora è noto il coraggio di gruppi indigeni che non sono mai stati sottomessi come le popolazioni i popoli Awajún e Harakbut.
In questo mondo di varietà etnica giunse l’impresa conquistatrice e colonizzatrice dei regni europei, a partire dal secolo 15° e 16°. Giunsero con cupidigia e avidità con i migliori equipaggiamenti di attacco militare, favorendo alleanze con tribù amazzoniche nemiche tra loro; tutto ciò, aggiunto alle malattie che portarono, sconosciute agli indigeni, e al reclutamento del lavoro schiavista, decimò la popolazione indigena.
La brama delle ricchezze, favorita dall’immaginazione di leggende come l’Eldorado, il Paititi (leggendaria città perduta) e la Terra della Cannella (un luogo anch’esso leggendario), mise l’Amazzonia nelle mire di molte società collettive di quell’epoca.
I missionari con la loro missione evangelizzatrice divennero i difensori degli indigeni nel conflitto delle frontiere di questi regni e della loro politica schiavista in Amazzonia. Il contesto di insicurezza, di violenza e di abuso lasciò senza molte possibilità gli indigeni che si rassegnarono a vivere nelle “riduzioni” o nei posti di missione in cui si sentivano maggiormente protetti ed erano evangelizzati. Così, con lo zelo dei missionari, furono gettati i primi semi dell’evangelizzazione dell’Amazzonia, bagnandola anche, in molti casi, con il sangue dei loro primi martiri.
La rivoluzione industriale del diciottesimo secolo risuonerà tardi nell’Amazzonia e, tra la fine del diciannovesimo secolo e l’inizio del ventesimo, ha luogo un’epoca oscura nella storia delle etnie indigene. È l’epoca del caucciù, o dell’“oro bianco”, che servirà specialmente per lo sviluppo dell’industria automobilistica nella produzione dei pneumatici. Avviene il genocidio sistematico delle etnia indigene amazzoniche, come quelle del fiume Putumayo (che attraversa l’Ecuador, il Perù, la Colombia e il Brasile), dove fu impiegato il lavoro degli schiavi per ottenere il lattice, risorsa naturale del caucciù. La Chiesa reagisce con l’enciclica di Pio X Lacrimabili statu indorum del 7 giugno 1912, per denunciare questi abusi, ma con poco effetto.
Il “boom” economico del caucciù e l’ingiustizia nei confronti degli indigeni amazzonici che la alimentò, provocò la mobilitazione di migliaia di migranti. Sorsero così le grandi città nella regione amazzonica che continuano ad avere attualmente un numero significativo di abitanti: Manáus (2 milioni) e Belém di Pará (1 milione e mezzo) in Brasile, e Iquitos (mezzo milione) in Perù. Attualmente la popolazione totale nella regione amazzonica arriva approssimativamente a 34 milioni di abitanti.
L’Amazzonia oggi: situazione di urgenza in un mondo globalizzato
Il gigantesco progresso della scienza e della tecnologia applicato all’economia e alla produzione, in mano alle grandi compagnie estrattive multinazionali, e i negoziati con i governi di turno dei paesi di confine dell’Amazzonia, trasformò presto l’Amazzonia nel ventesimo secolo in un agognato bene economico di importazione ed esportazione.
In un mondo e un’economia più globalizzati, le pressioni delle potenze straniere si volgono con maggior attenzione a questa parte del globo terracqueo e cercano, con calcoli cartografici esatti del territorio, lo sfruttamento delle sue risorse naturali come petrolio, minerali e metalli preziosi. Inoltre, queste imprese trasmettono il loro desiderio a migliaia di migranti nazionali che invadono le città di questa regione cercando quello che sembra un obiettivo comune quando si pensa all’Amazzonia, diventare ricchi in fretta.
Parallelamente e sul piano regionale, è interessante osservare che, alla metà del sec. 20°, in seguito alla nuova consapevolezza dell’importanza della regione amazzonica nei paesi che la condividono si andò sempre più rafforzando una volontà politica di conoscerla meglio e di influire su di essa con una visione d’insieme, come territorio panamazzonico.
Nasce così il primo accordo fra tutti i paesi amazzonici di frontiera, ad eccezione della Guyana francese, chiamato Trattato di cooperazione amazzonica (1978) che dopo vent’anni si chiamò OTCA (Organizzazione del Trattato di cooperazione amazzonica), con sede in Brasile, e un desiderio di intraprendere azioni congiunte per incidere nella regione, anche se con programmi e risultati molto limitati.
Un accordo più pragmatico e incisivo è quello che emerse nel Primo vertice sudamericano (2000), “Iniziativa per l’integrazione dell’infrastruttura regionale sudamericana” (IIRSA), che consiste in un megaprogetto di strade gigantesche per promuovere e facilitare l’integrazione regionale. Implica anche il fatto di avvicinarsi all’Amazzonia, di usufruirne meglio e di attraversarla, rendere più veloce il trasferimento delle sue risorse, per esempio, dal’Oceano Pacifico all’Atlantico. Ma questo megaprogetto ha provocato e continua a suscitare molte resistenze nella regione panamazzonica.
Questo ci ricorda anche, a partire da una visione panamazzonica di sviluppo rispettosa dei diritti delle popolazioni indigene, la sfida posta da papa Francesco: «Credo che il problema principale stia nel conciliare il diritto allo sviluppo comprendendo anche il diritto di natura sociale e culturale, con la protezione delle caratteristiche proprie degli indigeni e dei loro territori».
Ciononostante, sembra che la distruzione dell’Amazzonia non si fermi. Al contrario, la cupidigia e l’avidità dei secoli passati continua, solo che questa volta l’Amazzonia corre il rischio di essere distrutta per sempre o trasformata in un lenzuolo di sabbia.
Nello stesso Informe Amazzonia 2018 il WWF evoca sei minacce principali nell’intera regione:
- le concessioni minerarie che coprono il 15% del bioma amazzonico, e a ciò si aggiunge che il 37% dei territori indigeni sono minacciati da 500 contratti per lo sfruttamento di minerali e idrocarburi;
- l’aumento di dighe idroelettriche, che già ammontano a 154, e il progetto di costruzione di altre 277, lasciando solo tre fiumi senza dighe, mettendo in pericolo l’ecologia, l’economia e il clima del subcontinente;
- la costruzione di strade, in particolare da est ad ovest vincolandole ai mercati dell’Oriente asiatico. Soltanto nel 2016, più di 20 nuovi progetti facevano pressione sull’Amazzonia, cosa che provocherebbe un rapido aumento della perdita delle foreste;
- l’espansione dell’agricoltura intensiva per l’allevamento del bestiame e colture come la soia e la palma da olio hanno scatenato gravi trasformazioni nell’utilizzo del suolo delle foreste;
- la deforestazione a cui contribuiscono le minacce già segnalate, calcolando che, entro il 2030, l’Amazzonia può perdere il 27% del suo territorio (circa 85,4 milioni di ettari di foreste);
- la debolezza legislativa circa le aree protette di foreste che riducono questi spazi o eliminano il loro stato di protezione. Nel 2016 le aree protette rappresentavano ancora il 50% della territorio. Siamo certi che tutte queste cifre precedenti sono peggiorate ancor più negli ultimi anni.
Papa Francesco nel suo messaggio alle popolazioni amazzoniche a Puerto Maldonado, in Perù, nel 2018, affermò: «Probabilmente i popoli amazzonici originari non sono mai stati tanto minacciati nei loro territori come lo sono ora».
Le sue parole confermano che solo in questi primi due decenni del sec. 21° la situazione dell’Amazzonia è entrata in una fase critica come non era mai avvenuto prima.
La Chiesa e il territorio dell’Amazzonia
All’inizio, con la prima evangelizzazione dei secoli 15° e 16°, bisogna dire che la Chiesa guardò all’Amazzonia con gli occhi del suo tempo, come ad una vasta regione di conquista spirituale in maniera parallela o complementare all’epoca della conquista politica e militare, disputata tra regni europei. Naturalmente, insieme alla divisione territoriale tra regni, cominciò la divisione politica al loro interno e, quasi nello stesso tempo, la demarcazione dei territori affidati alla Chiesa che diventeranno “circoscrizioni ecclesiastiche”. L’evangelizzazione di questi territori fu affidata alle prime congregazioni religiose giunte in questa parte del continente.
Le circoscrizioni ecclesiastiche
Dopo l’indipendenza dei nuovi paesi sudamericani a partire dal secolo 19°, le linee di frontiera del territorio amazzonico furono tracciate definitivamente in mezzo ad attriti e guerre fra i paesi che compongono questo territorio. Allo stesso tempo, all’interno di ciascun paese, fu operata la divisione politica dei territori in dipartimenti, province o stati.
Per quanto riguarda la Chiesa, avvenne anche la divisione ecclesiastica del territorio di ciascun paese in “circoscrizioni ecclesiastiche”: diocesi, vicariati apostolici e prelature apostoliche. Esse comprendevano non solo due o più unità politiche (dipartimenti o province) ma anche diverse regioni geografiche e culturali, per esempio, la zona montuosa delle Ande o l’area della giungla o della foresta. I territori erano talmente vasti per l’attenzione pastorale che i vescovi e i vicari apostolici religiosi, invitarono altre congregazioni religiose maschili e femminili ad unirsi alla missione di evangelizzazione in quelle terre. E lo fecero in vari modi, sia come parroci, missionari e missionarie itineranti, educatori, fornendo servizi sanitari ecc.
Difficoltà di raggiungere le comunità indigene e i villaggi fluviali lontani
La missione tra le popolazioni amazzoniche più lontane si vide presto limitata in un territorio tanto vasto e con percorsi molto complicati e sacrificati in mezzo alla foresta. Le distanze geografiche si trasformarono in distanze pastorali, determinando una relazione di proporzione inversa, in quanto maggiore era la distanza geografica di una comunità, meno veniva visitata pastoralmente (nel miglior dei casi, una o due volte all’anno).
Insieme alla mancanza di risorse umane, la mancanza di missionari e missionarie itineranti che iniziò ad acutizzarsi a partire dagli anni ‘70, si aggiunse la mancanza di risorse economiche per realizzare una pastorale sostenibile.
La pastorale itinerante o fatta di visite è sempre stata molto costosa, per il fatto che le spese di viaggio nel fiume sono il doppio e persino il triplo di quelle per le strade. Attualmente la pastorale itinerante o delle visite dei parroci o dei religiosi e religiose che vivono in un vicariato apostolico dell’Amazzonia fa l’impossibile per non arrivare ad una paralisi totale di questo genere di pastorale.
La Chiesa ha sempre mostrato una grande fedeltà nella sua missione di servizio di evangelizzazione nell’Amazzonia e papa Francesco ce lo ricorda: «La Chiesa non è presente in Amazzonia come chi ha le valigie pronte per andarsene dopo avere sfruttato tutto ciò che poteva. La Chiesa si trova in Amazzonia fin dal principio con missionari, congregazioni religiose, sacerdoti, laici e vescovi e ancor oggi è determinante per il futuro dell’area».
Questa coscienza di vedere l’Amazzonia come un territorio con una pastorale d’insieme e differenziata si è concretizzata nella V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano, nel documento di Aparecida, in Brasile, in cui nasce la necessità di «far prendere coscienza nelle Americhe dell’importanza dell’Amazzonia per tutta l’umanità; creare tra le Chiese locali dei diversi paesi sudamericani che si trovano nel bacino amazzonico una pastorale d’insieme con priorità differenziate per attuare un modello di sviluppo che privilegi i poveri e serva al bene comune» (DA 475).
A partire da questo periodo e col favore di un contesto di maggiore coscienza ecologica sul piano mondiale, si comincerà un processo accelerato per considerare l’Amazzonia come un soggetto ecclesiale, con caratteristiche proprie che richiedono una pastorale d’insieme fra tutti i paesi che compongono questa Chiesa regionale.
L’importanza di vedere l’Amazzonia oltre i propri confini geografici politici o le circoscrizioni ecclesiastiche iniziò timidamente ma con determinazione con esperienze interistituzionali e intercongregazionali come la nascita nel 1996 dell’“Équipe itinerante” in Brasile, il cui ispiratore fu p. Claudio Perani sj. Questo gruppo composto da laiche, laici, religiose, religiosi, preti diocesani continua ancor oggi il suo carisma missionario nella regione amazzonica.
In seguito, si sviluppò una pastorale più mirata, lavorando oltre i confini o le circoscrizioni ecclesiastiche di un paese, e con una visione panamazzonica. Le congregazioni religiose (ad esempio, gesuiti, francescani, maristi ecc.) affidano questa visione ad alcuni loro membri, per svolgere una nuova missione, e si formano anche delle équipes pastorali intercongregazionali ai confini dei paesi amazzonici.
Questo processo di vedere l’Amazzonia pastoralmente come un territorio unico, con sue proprie caratteristiche, raggiunse un punto decisivo con la creazione nel 2014 della REAPM (Rete ecclesiale panamazzonica). Ciò fu possibile con il sostegno del Dipartimento di giustizia e solidarietà del CELAM (Conferenza episcopale latino-americana), della commissione per l’Amazzonia della CNBB (Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile), della CLAR (Confederazione latinoamericana e dei Caraibi dei religiosi e delle religiose) e della Caritas internazionale, con la guida congiunta del card. Claudio Hummes ofm come presidente della REPAM, del card. Pedro Barreto sj (allora arcivescovo) come vicepresidente, e del sig. Mauricio López come segretario esecutivo.
La REPAM, come indica il nome, fu creata per essere una rete in cui tutte le Chiese locali dell’Amazzonia si sentano collegate solidarmente nelle loro necessità, sfide, lotte e aspettative. Per questo, essa accompagna e anima le Chiese locali in una maniera più organica ed efficace in 9 aree di lavoro: Popoli indigeni, Giustizia socio-ambientale, Diritti umani e incidenza, Frontiere, Estrazione mineraria, Formazione e metodi pastorali, Reti internazionali, Investigazione-mappatura e Comunicazione.
Dall’annuncio del Sinodo panamazzonico da parte di papa Francesco nel 2017, la REPAM ha svolto un ruolo fondamentale e di coordinamento, a servizio della Segreteria generale del Sinodo dei vescovi, per la preparazione del sinodo panamazzonico.
Uno dei suoi contributi significativi è stata l’organizzazione delle assemblee territoriali presinodali che hanno avuto luogo in tutta la regione amazzonica. In queste assemblee le Chiese locali della regione, presiedute dai loro vescovi, si sono riunite per rispondere alle domande del documento preparatorio e le loro risposte costituiscono ora la base dell’Instrumentum laboris del Sinodo panamazzonico che si celebra nell’ottobre del 2019.
Queste consultazioni pre-sinodali fortunatamente coincisero con la pubblicazione della costituzione apostolica Episcopalis communio (15 settembre 2019, in cui il papa ci ricorda che la Chiesa è una Chiesa sinodale che cammina insieme e unita. Questa sinodalità esprime una stretta comunione con il papa e i vescovi, tra gli stessi vescovi, e di questi, come pastori, con i fedeli. In questo modo le Chiese locali animate dai loro vescovi vengono consultate sui temi che il papa sceglie per i futuri sinodi, per il bene della Chiesa universale.
Necessità di una Conferenza episcopale amazzonica
L’Amazzonia è meglio compresa, come suggerisce l’Instrumentum laboris, quando è vista come un nuovo soggetto ecclesiale in cui si identifica più chiaramente una Chiesa “dal volto amazzonico” e “dal volto indigeno”, con tratti fondamentali e significativi che la distingue dalle Chiese di altre regioni. Per questa ragione è necessario riconoscerle, in senso buono, una “territorialità” come parte di questa identità ecclesiale propria.
Nell’Instrumentum laboris viene affermata la necessità di una struttura episcopale per la regione amazzonica. E questo, se tradotto in un organismo ecclesiale solido come una Conferenza episcopale, significherebbe considerare il territorio amazzonico, che costituisce parte delle circoscrizioni ecclesiastiche attuali (diocesi, vicariati e prelature), come suo centro di attenzione.
Attualmente, nella Conferenza episcopale di ciascun paese amazzonico, la regione amazzonica è un territorio di grandi proporzioni, rispetto ad altre regioni non amazzoniche del medesimo paese. Tuttavia, la popolazione di tutta la regione amazzonica è una minoranza, 34 milioni, e costituisce solo il 10% della popolazione totale dei paesi amazzonici. Di conseguenza, la Conferenza episcopale di ciascun paese non è in grado di rispondere pienamente ai diversi e complessi problemi di questa regione, poiché la gran parte della popolazione delle Chiese locali di ciascun paese è più numerosa nelle regioni non amazzoniche. E anche se i territori amazzonici sono stati affidati in maggioranza a vicariati apostolici amministrati da congregazioni religiose, ciò non significa che siano meglio assistiti.
La REPAM compie un buon lavoro di animazione e di coordinamento di progetti nel servizio che presta alle circoscrizioni ecclesiastiche dell’Amazzonia. Ma non ha il potere di eseguire e attuare le conclusioni del Sinodo panamazzonico come potrebbe fare una Conferenza episcopale in modo più collegiale.
A questo riguardo, è interessante la figura di una Conferenza episcopale per la malleabilità che mostra nella normativa canonica. Insieme alle conferenze episcopali così come le conosciamo, ossia delimitate nel loro territorio dai confini di ciascun paese, può abbracciare «un territorio di estensione minore o maggiore in modo da comprendere solo i vescovi di alcune Chiese particolari esistenti in un determinato territorio, oppure i prelati delle Chiese particolari di ciascun paese di diverse nazioni». Pertanto, si contempla la possibilità di Conferenze episcopali anche ad un altro livello territoriale, ossia sovranazionali.
Senza un organismo episcopale solido e unito, l’Amazzonia corre il rischio di diventare un problema marginale o secondario. Al contrario, con la creazione di una Conferenza episcopale amazzonica, la proiezione eco-pastorale per tutta la regione otterrebbe una nuova forma di organizzazione e nuova energia. Il coordinamento nella ricerca di obiettivi comuni per la regione andrebbe a beneficio di tutti. La pianificazione di progetti avrebbe un orizzonte più ampio, anche quando sono radicati nella realtà locale. Le istituzioni e agenzie finanziarie che appoggiano la missione nella Chiesa possono discernere meglio come canalizzare le loro risorse, conoscendo le priorità comuni di questa Conferenza. Ci sarebbero maggiori possibilità di accrescere la mobilità e gli interscambi missionari tra religiosi, laici e sacerdoti all’interno della stessa regione. La missione potrebbe essere esercitata in maniera più efficace e creativa, con risorse umane disponibili dal punto di vista del lavoro inter-istituzionale e interdisciplinare, a sostegno della salute, dell’educazione, la difesa del territorio ecc.
Naturalmente esistono sfide concrete per questa nuova evangelizzazione nella regione amazzonica, come le differenze culturali e le forme di lavoro, senza menzionare i diversi idiomi usati dalla maggioranza della popolazione dei paesi dell’Amazzonia: portoghese, spagnolo, inglese e francese. Nello stesso tempo, questo ci offrirebbe l’opportunità comprendere meglio l’elemento centrale del nostro atteggiamento di evangelizzazione in questa regione: comprendere e lavorare con i popoli dell’Amazzonia, con le loro diverse culture, idiomi o dialetti e altri modi di essere.
Conclusione
Il Sinodo panamazzonico ci invita anche a comprendere noi stessi come una Chiesa regionale panamazzonica, ossia, con un proprio territorio ecclesiale amazzonico. Una sola Conferenza episcopale amazzonica riunirebbe le diocesi, i vicariati e le prelature dei paesi che compongono l’Amazzonia.
La rilevanza del territorio amazzonico in questo momento, non solo a livello regionale ma anche mondiale, giustifica che si presti una speciale attenzione ai temi e problemi più specifici della regione. L’unità e la solidarietà dei vescovi locali, riuniti per formare una Conferenza episcopale amazzonica esprimerebbe in maniera più visibile ed efficace l’urgente necessità di prendersi cura di questo angolo speciale del pianeta. Significherebbe mettere in pratica l’invito di Laudato si’ ed essere testimoni di una chiara opzione di questo sinodo di fare dell’ecologia integrale una parte integrante della sua attività evangelizzatrice.
Il “vino nuovo”, i nuovi percorsi di evangelizzazione che la Chiesa scoprirà nel Sinodo panamazzonico, avranno bisogno di “otri nuovi”, di un organismo ecclesiale in grado di affrontare le nuove urgenti circostanze dell’Amazzonia e attuare le conclusioni del Sinodo panamazzonico. Altrimenti, corriamo il rischio che il “vino nuovo” di questo sinodo straordinario vada perduto.
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Porre attenzione ai pericoli senza chiudersi in settarie autoreferenzialità. Il sistema può cercare lo spegnimento di una libera maturazione servendosi delle chiusure identitarie, ideologiche. Divide et impera è un detto conosciuto da secoli. Uguale in tanti effetti all’omologazione forzata, di antica memoria anch’essa.