Ricorrono, come è noto, i settant’anni dall’inizio delle trasmissioni televisive in Italia. E forse il programma che più rende lo spirito di tale mezzo di comunicazione, almeno nella sua versione classica e popolare, è, paradossalmente, Techetechete’: tre quarti d’ora di frammenti televisivi tratti dalle teche Rai che vanno in onda, dopo il Tg1 serale, d’estate, quando il numero degli spettatori, data la stagione e il caldo, è minimo. Storia dello spettacolo e del costume e, in definitiva, storia dell’Italia degli ultimi settant’anni.
È la nostra vicenda nazionale in chiave leggera e (auto)ironica, interpretata da personaggi noti e al tempo stesso vissuta da milioni di persone.
Il piccolo schermo non è solo uno specchio (magari deformante) della realtà; ne è piuttosto parte integrante e costitutiva (così come oggi, in proporzioni ancora più ampie, lo sono i social e il web).
Anni addietro, poi, lessi un articolo di Oreste Del Buono che mostrava come la tv non facesse altro che autocelebrarsi. Personaggi che ricordano loro stessi, continue “citazioni” di eventi televisivi del passato, immagini di repertorio; insomma: una sorta di narcisismo mediatico.
Trasmissioni che si lasciano talora seguire piacevolmente, ma nelle quali tutto ruota intorno alla tv stessa, al suo passato e al suo presente, con-fondendo di continuo la nostra storia, la storia del nostro costume con quella del piccolo schermo. Come se ci fosse una corrispondenza completa fra televisione e vita, come se i nostri ricordi fossero ubicati negli archivi della Rai o di Mediaset.
Tutto sembra essere ripetizione; mancano il rischio e la sfida, si “crea” il già noto, si vive un generale déjà-vu. In definitiva: è tutto un gioco di specchi e di rimandi, con poche eccezioni.
Ma davvero la televisione, quella destinata alle platee più vaste, volta a compiacere l’Auditel con “ascolti” che superino i 2-3 milioni di spettatori (un tempo si sfioravano i 20-30 milioni), può produrre solo se stessa?