Una cara amica – insegnante in un liceo siciliano – replica a una mia lettera scusandosi per aver ritardato la riposta a causa di impegni scolastici di fine anno. E poi aggiunge: “…ora un attimo di pace per dirti…”.
Mi colpisce come in questa frase sia usata l’espressione “pace”. Non richiama alla mente la guerra, come recentemente siamo abituati a pensare. Richiama invece una condizione esistenziale in cui – temporaneamente sgravati da oneri o conflittualità – è possibile consegnarsi a sé stessi con calma creativa e lieta.
Non il “dolce far niente” ma un’attiva disposizione in cui godere di sicurezza vitale, coltivare buone relazioni, solidarizzare e figurare prospettive positive e ordinate.
Guerra e desiderio di pace
Della desolante riduttività del concetto di pace abbinato unicamente alla guerra, tramandatoci dall’antichità romana e poi ripreso dalla cultura filosofica moderna, parla il compianto teologo luterano tedesco Eberhard Jüngel (1934-2021) in un breve saggio: L’essenza della pace. Un’antropologia teologica (Morcelliana, Brescia 1984/2022).
Merita una lettura attenta per togliere dai rovi bellici una visione della pace che abbia respiro nuovo e ossigenante. L’autore sostiene che siamo stati a lungo infestati dal noto detto latino “si vis pacem para bellum” (se vuoi la pace prepara la guerra) cui anche il razionalismo moderno (con le riflessioni di Hobbes e di Kant) ha prestato destro. Infatti, la cultura moderna, nelle sue penne più appuntite e in tempi di tristi scenari europei gravidi di conflitti politico-religiosi, vede la pace esclusivamente in opposizione alla guerra.
Per Hobbes il punto di partenza è la condizione propria della natura umana visualizzata nel celebre homo hominis lupus. Condizione a cui è possibile far fronte con un patto di unione e con la consegna allo Stato di ogni potere individuale. Kant dà ancora più fiducia alla razionalità umana, la quale può garantire una terrena pace perpetua instaurando preventive condizioni politiche condivise da ogni popolo.
Egli non prevede la distinzione agostiniana tra pace celeste e pace terrena. Il solo imperativo categorico morale può favorire – nella storia – la sospensione di conflitti tra nazioni. Sospensione che sia perenne e ben diversa da tregue siglate con calcolati armistizi. Sugli scenari odierni che sembrano smentire la fiducia accordata alla razionalità del pensiero moderno, rimbalza la voce di Agostino quando afferma che nemmeno la volontà di distruggere la pace è pensabile senza la volontà di avere la pace.
La riflessione di Jüngel parte proprio da questo desiderio umano inestinguibile. Confortato dal discorso biblico sulla pace, per nulla derivato dalla nozione di guerra, egli chiama l’uomo “essere della pace”. Afferma che la condizione del mito edenico rimanda a un’esistenza basata su protezione e sicurezza. Gesti creativi e relazioni affidabili presuppongono la memoria – seppur sbiadita – di spazi e tempi vissuti con calma e serenità.
Secondo il teologo, che visse la sua giovinezza e formazione nella Repubblica Democratica Tedesca negli anni della Guerra Fredda, le azioni pacifiche e pacificanti non sono basate su un imperativo morale razionale (il “tu devi” kantiano) ma su un “modo indicativo”, proprio di chi saluta l’altro con lo shalom che questi merita.
Il significato di questo termine ebraico coincide con lo “star bene” e comprende tutto ciò che appartiene alla vita sana. Condizione non pensabile senza la giustizia, come recita il salmo 85,11:” giustizia e pace si baceranno”. L’uomo odierno, pur lontano dal paradiso terrestre e pur vivendo una condizione alienata e “spezzata”, non ha smesso di desiderare ardentemente l’integrità originaria.
Il rosa di giugno
Egli si nutre di un desiderio di vivere serenamente con il suo Dio, il suo mondo e se stesso. Con la proposizione “la pace sia con te/ con voi” che esplicitamente o implicitamente ci scambiamo, si può avviare un disegno di apertura ad altri, indispensabile per una vita comune sicura e abitata da rapporti fiduciosi.
Essere uomini e donne di pace (ovvero pienamente felici, beati secondo il noto “discorso della montagna” Mt 5,9) significa innanzitutto saper gustare, coltivare e nutrire l’esperienza squisitamente umana in cui la bellezza di una sosta per cercare parole di amicizia può far rinascere il giardino interiore in cui la “piccola vanga mia” può “innalzare collinette lasciando un angolo alla margherita e all’aquilegia”. E così “le paludi hanno il rosa di giugno” (Emily Dickinson).
Forse non a caso l’amica – nel saluto virtuale che mi rivolge in una comunicazione scritta in pace – inserisce la fotografia di alcune viole del bel giardino che lei stessa cura nella sua assolata Sicilia.
Come al solito un momento di cultura comprensibile anche da chi, come me, ha fatto studi prettamente scientifici e si é persa la materia filosofia, che la prof. Cattaneo (per me sarà sempre la super prof. di storia/filosofia di mio figlio) riesce a farti leggere e comprendere con un’estrema semplicità. Grazie Prof!