Alla ricerca di una cultura di pace

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C’è un bellissimo discorso dell’illuminato papa Francesco ai fedeli della diocesi di Roma, nell’udienza del 18 settembre 2021, all’inizio del processo sinodale. Andrebbe riletto per risignificare l’obiettivo di una Chiesa la cui funzione fondamentale è ritenersi in cammino, certa che la Parola di Dio si accompagna a noi. Ricordando Evangelii gaudium, il papa sottolinea che stare fermi non è una buona condizione per la Chiesa.

Gli Atti degli Apostoli contengono ciò che serve a capire il senso di tale itinerario che parte da Gerusalemme, attraversa la Samaria e la Giudea, prosegue nelle regioni della Siria, dell’Asia Minore, della Grecia, e si conclude a Roma.

Camminare insieme realizza la vera comunione e questa non sopprime mai le differenze. È la sorpresa della Pentecoste che mostra quanto lingue diverse non siano un ostacolo, grazie all’azione dello Spirito.

Citando Fratelli tutti, papa Francesco ricorda che la Chiesa è maestra di umanità e che oggi deve diventare scuola di fraternità.

Questa premessa introduce la mia indagine, che trae ispirazione dalla metafora di Diogene che, con la lanterna in mano, va cercando l’uomo. In questo spirito nasce la riflessione “Alla ricerca di una cultura di pace”, pubblicata dalla Rivista Italiana di Gruppoanalisi, nel gennaio 2023. Essa appare di grande attualità in questi ultimi tempi, oserei dire quasi apocalittici.

La ripropongo con lo spirito di un “cammino condiviso” (dalle ultime informazioni, mi risulta che il Villaggio di Nevé Shalom, non sia ancora stato distrutto dalla guerra in corso).

Nevè Shalom-Waahat as Salaam

«Aiutaci ad esistere e a co-esistere. L’urgenza di luoghi come Nevè Shalom-Waahat as Salaam si fa imperiosa in questo Medio Oriente in cui la pace, così lontana e difficile da stabilire, non si farà e non sarà valida se non nella misura in cui gli uomini si incontreranno, si riconosceranno, si rispetteranno, troveranno la loro felicità nel vivere insieme». (Bruno Hussar)

In un clima da terza guerra mondiale, ricordare l’esistenza di piccole oasi di pace può contribuire a rischiarare orizzonti pregni di negatività.

“Oasi di pace” è espressione biblica del profeta Isaia ed è anche il nome di un piccolo villaggio situato a metà strada tra Tel-Aviv e Gerusalemme. Luogo in cui ebrei e arabi, musulmani e cristiani, scelgono di coabitare come esperienza concreta di un incontro possibile fra donne e uomini di culture, storie e religioni diverse, e di vivere nell’eguaglianza dei diritti, nella collaborazione, nella conoscenza e nella reciproca stima e amicizia.

Nel 1972 Bruno Hussar, ebreo di nascita e poi religioso domenicano, con Anne Le Meignen, laica cristiana francese, progetta un luogo di pace su una collina disabitata, nei pressi del Monastero trappista di Latrun, un pezzo di terra donata loro dallo stesso Monastero.

La collina si chiamerà con un doppio nome, ebraico e arabo: Nevè Shalom – Waahat as Salaam (Luogo della pace). Vi abiteranno venti famiglie aperte all’accoglienza di altre famiglie toccate dal valore di quella straordinaria esperienza.

Con il tempo, la comunità allargata si apre a frequentatori esterni attirati dalla Scuola della Pace, fondata anch’essa da Bruno Hussar. Poiché la pace è un’arte – sostiene –, non si improvvisa, la si impara costruendola.

Oasi di pace in paesi in guerra

«Voglio pensare che sono tutti esseri umani che potrebbero avere la capacità di “combattere” per un fine più alto che non sia quello di sterminarsi gli uni gli altri ed evitare che un uomo provi orrore, paura, odio nei confronti di un altro». (Ruth Maier, morta ad Auschwitz nel 1942, a 22 anni).

La presa di coscienza di ciò che si muove nel cuore della persona orienta i fondatori verso esperienze di gestione del conflitto. Riconoscere la deformazione psichica come compagna della storia personale, sviluppa un’ottica di comprensione, che ostacola quella conflittualità che può trasformarsi in guerra con i propri simili.

L’etica della diversità partorisce sguardi nuovi verso il volto dell’altro, considerandolo una ricchezza, lontano da uniformità codificate. I sostenitori di quella esperienza parlano di convivialità delle differenze, giocandosi in un progetto da inventare, confidando nella possibilità di pensarsi in una nuova ottica.

Nevè Shalom viene anche definita la comunità dell’audacia. L’audacia di costruire ponti tra le diversità più lontane, anche se geograficamente vicine, e di utilizzare quella geografia per dare voce a istanze profonde, che riguardano ogni uomo, donna, bambino presenti sul territorio. Una piccola comunità in cui si realizza un graduale cambiamento di mentalità, altamente qualitativo, prezioso, che tenta di disinnescare bombe emotive, paure, deformazioni mentali che possono produrre tragedie.

Il rifiuto dello straniero è ben noto a chi ha una profonda conoscenza di sé stesso. Straniero è lo sconosciuto al quale sbarriamo le porte per paura; è l’estraneo che può intaccare la nostra identità pensata come una muraglia invalicabile; è colui che minaccia, con la sua diversità, la nostra identità incontaminata. È un’ottica che impedisce di sperimentare la realtà in tutta la sua ricchezza.

Secondo Bruno Hussar, una comunità che intenda proporsi come autentica oasi di pace, fiorisce soltanto se, al suo interno, mantiene il ventaglio più alto possibile di risorse spirituali presenti in coloro che accettano di condividerne il destino, valorizzando le differenze.

«Quello a cui mi applico qui è l’amore per gli altri. È così che ho sempre voglia di piangere quando gli altri piangono. Sono le donne che soffrono per la morte, sono loro che soffrono per la vita. Con i loro figli soffrono per la vita, con i loro mariti soffrono per la morte. Tra poco sarà primavera. Quello che mi aspetto dalla pittura è che dia sfogo a un mio bisogno interiore, all’urgenza di creare» (Ruth Maier, 1941).

La Scuola della Pace                  

All’interno del Villaggio fu fondata anche la Scuola della Pace, che aveva come obiettivo una nuova visione dei rapporti tra le persone.

Condotta da un’équipe di educatori, metà arabi e metà ebrei, attraverso psicodrammi, tecniche psicologiche di gruppo e altre modalità relazionali, evidenzia, affronta e insegna a gestire la paura degli uni verso gli altri. E questo obiettivo tenta di raggiungerlo facendo prendere coscienza dei propri limiti, mettendo in crisi concezioni quali: io ho ragione al cento per cento e l’altro, nella stessa misura, ha solo torto, e cercando di abbattere i muri della diffidenza, dell’ignoranza, dell’incomprensione.

I seminari che si tengono presso la Scuola della Pace si articolano su alcuni punti fondamentali: imparare a vedere la complessità, a nutrire fiducia nel cambiamento, a dare rilievo alla persona, alle espressioni dei sentimenti, alla consapevolezza.

Questa ampia presa di coscienza ha come obiettivo far maturare il dialogo con una diversità non più nemica.

Nel Villaggio i fondatori sperano che i giovani di oggi, una volta divenuti adulti, sappiano costruire quel domani di pace precluso ai propri genitori.

A Bruno Hussar non piace il termine “religioso”, poiché, in quella parte del mondo, la religione è esperienza chiusa, priva di comunicazione; crede, invece, in una fede che unisca e che converga verso gli stessi obiettivi, perché ogni credo religioso va purificato da ciò che lo oppone all’altro. Crede nella convergenza di una diversità rispettata. Per questo, nel Villaggio sulla collina vengono accolti anche atei e agnostici e il filo conduttore tra loro e i credenti è costituito dal fatto di essere uomini e donne che rifiutano di continuare a vivere in un paese – che è il loro – dove due popoli si disputano un’unica terra e nessuno dei due riconosce i diritti dell’altro.

La diversa ottica del Villaggio sostiene la causa pacifica della riconciliazione, rivisitando il concetto di giustizia, facendo delle persone gli artigiani della pace, dediti alla causa della pace, sia in nome di Dio, sia in nome dell’umanità.

Così si esprime Bruno Hussar: le idee della persona che siede di fronte a me mi interessano. Ma quel che più mi interessa è la persona stessa.

Egli si definisce un uomo dalle molte identità.

Nasce nella parte araba dell’Egitto da una famiglia ebrea non praticante. Dopo la laurea in ingegneria, a 24 anni, sceglie di essere battezzato in Francia, senza considerarla una conversione, bensì l’assunzione consapevole sia dell’ebraismo sia del cristianesimo. Entra nell’ordine dei Domenicani e viene inviato in Israele a fondare una casa che apra nuove prospettive nei rapporti ebraico-cristiani.

Vivendo a contatto del conflitto con i Palestinesi, Bruno si interroga sul perché uomini sinceri e generosi, sia arabi sia israeliani, si contrappongano così violentemente gli uni agli altri e non tentino un possibile incontro, attraverso un linguaggio dialogante, articolato nella ricerca, nel rispetto dell’altro, in una solidale preghiera per la pace.

Così egli matura il progetto del Villaggio, che è una continua scuola di pace, pensato come realizzazione profetica ed escatologica, un piccolo seme reale e simbolico al tempo stesso.

Scrive: «Tutto avviene come se esistesse un rapporto tra quello che vedo e ciò che leggo nelle Scritture. Quale sia questo rapporto, lo ignoro ancora. Mi mantengo vigile e continuo ad osservare cercando di leggere i segni. Al di là di ogni tappa particolare, vivo per la riconciliazione, la pace, la comunicazione fraterna tra i figli di Abramo. Ciò che resta per me il faro nella notte è l’impegno di continuare a camminare senza spegnere mai nessun germe di vita, continuare ad amare, perché amare è vivere e far vivere con speranza».

La maturità umana e la profonda spiritualità di Bruno Hussar poggiano su alcune affermazioni presenti nelle Scritture e nelle parole del saggio Hillel del I secolo a.C.: «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te». Poi nel Deuteronomio: «Quando mieterai il campo, non tornare a raccogliere le spighe che rimangono, saranno per il forestiero, l’orfano e la vedova». E il Vangelo le completerà con le parole di Gesù: «Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso… L’amore per il prossimo riassume in sé tutta la Legge e i Profeti».

Nel Villaggio c’è pure un linguaggio scoperto attraverso l’esperienza della vita, è comune a credenti e non credenti e si esprime nel sedersi vicini, senza parole, in un silenzio profondo.

Questo luogo viene chiamato lo Spazio del Silenzio o Dumia, una grande Cupola dove ci si può raccogliere e sostare. Con l’apertura della Dumia il Villaggio realizza l’intuizione di Martin Buber che, nel Principio dialogico, così scrive: «Solo il silenzio verso il Tu, il silenzio di tutti i linguaggi, l’attesa silente e ansiosa della parola indivisa, che precede ogni forma, lascia libero il tu e sta con esso nella situazione in cui lo Spirito non si manifesta, ma è».

Bruno Hussar, uomo delle molte beatitudini

Alla morte di Bruno Hussar, avvenuta nel 1996, il card. Carlo Maria Martini lo definì “un profeta di riconciliazione e di pace in terra di Israele”, dove aveva realizzato il sogno di unire ebrei, cristiani, musulmani in una vita intessuta di preghiera e di silenzio.

Marcus Dubois, durante le esequie del suo confratello, così lo ricordava: «Scopriamo che, nella pedagogia di Dio a suo riguardo, questo lungo cammino era la preparazione all’apertura universale alla fraternità, alla comprensione delle differenze, all’accoglienza dell’altro, chiunque egli fosse, nella luce dell’Unico Amore. E, a partire dalle molte istituzioni da lui fondate, potrebbe applicare a sé stesso le parole di san Paolo: “Io ho piantato, Apollo ha innaffiato, ma Dio ha fatto crescere”. Quella che gli si addice è la beatitudine dei pacifici: “Beati i costruttori di pace, essi saranno chiamati figli di Dio”. Da ragazzo, fu discepolo dell’Abbé Pierre e, prima della fondazione di Nevè Shalom, pensava ad una comunità dove fossero accolti tutti gli esclusi, i naufraghi, i mendicanti, i senza tetto. Dei molti attributi che lo hanno qualificato, quello che trova maggiore riscontro tra coloro che lo hanno conosciuto è “beati i miti”. E, con la sua preoccupazione per i poveri e il suo impegno per la pace nei cuori, realizzò anche la beatitudine di “quelli che hanno fame e sete di giustizia.” La giustizia del Regno».

Alessandro Baricco, in una rilettura personale dell’Iliade, focalizza quel distorto significato di guerra che ne esalta la “bellezza”. Omero canta inni alla guerra, perché essa crea eroi, costruisce identità, pone obiettivi da raggiungere, è motore di qualsiasi divenire. Un’ottica di sconcertante attualità.

Scrive l’autore che, a questa visione della vita, occorre contrapporre l’alternativa di un’altra “bellezza”, unica strada per una pace duratura.

Quando gli uomini saranno in grado di rischiarare la penombra dell’esistenza senza ricorrere ai giochi della guerra, riconoscendo un valore alle cose sottratte al bagliore accecante della morte, allora essi si incontreranno nell’intimità di luoghi e di momenti che non saranno quelli della trincea.

Una reale, profetica e coraggiosa ambizione alla pace sta soltanto nel lavoro paziente e nascosto di milioni di artigiani che ogni giorno lavorano per suscitare un’altra bellezza e il chiarore di luci che non uccidono. Impresa che presuppone una generosa fiducia nell’uomo.

Vimala Thakar

Ci spostiamo ora in un’altra parte dell’Oriente, dove troviamo la filosofa indiana Vimala Thakar. Nel 1988, ella scrisse Il mistero del silenzio. Di matrice induista, appartenente al Movimento per la Pace di ispirazione gandhiana, donna di particolare saggezza, Vimala, con le proprie scelte scandite su un modo essenziale di concepire la vita, pare indicarci che, se le religioni e le fedi non sono vissute “da illuminati”, sono del tutto insignificanti.

Anch’essa nei suoi discorsi parla di pace e, in risposta a chi le fa rilevare che, spesso, coloro che sono impegnati nelle attività di pace mostrano una certa aggressività che contrasta con i loro enunciati, ella dice che, se le menti degli operatori non sono pacificate, significa che essi non procedono su quella strada della conoscenza in cui si scopre che la pace è un modo di vivere integrale. Se la pace non ha trasformato qualitativamente le loro motivazioni e il loro comportamento, costoro non sono operatori di pace. Se non si lavora su sé stessi e non si acquisisce consapevolezza, non si diventa costruttori di pace. Lavorare alla mia trasformazione è contribuire ad un mondo di pace. La vita non è né orientale né occidentale, ma semplicemente è.

I confini di razza, nazione, religione – secondo Vimala – sono irrilevanti per il vivere. Purtroppo siamo incompleti, vittime di una diffusa schizofrenia. L’uomo vive in uno stato più o meno nevrotico, con risposte bloccate e percezioni condizionate, in un processo meccanico tendente al conformismo. Un lavoro importante – secondo la filosofa indiana – è aiutare la persona a decondizionarsi, a prendere coscienza del conflitto che la abita, stimolandola a crescere in una dimensione nuova.

Imparare a stare con sé stessi e osservarsi è uno dei cambiamenti auspicati dall’autrice, la quale paragona l’inconscio ad un tunnel che, chi è in ricerca, deve attraversare: «Quando la tenerezza del cuore comincia a scorrere attraverso gli occhi, allora, per la ricerca, questa è la stagione delle piogge. Quando ogni cosa comincia a rinfrescarti e ci si sente distaccati, allora è l’autunno. Da un punto di vista emotivo, bisogna passare attraverso l’intero ciclo delle stagioni dentro di sé».

Questa – secondo Vimala – è anche la strada che conduce al silenzio, un silenzio pacificato. Silenzio come dimensione della coscienza. Così l’energia che sta alle radici del nostro essere, energia che era divisa, dispersa, frammentata in pensieri ed emozioni conflittuali, si trova ora nel regno della non dualità, essendo raccolta alla sorgente. La sua ottica è che la persona debba crescere e contribuire al formarsi di una società basata sull’amore, sull’amicizia, sulla cooperazione, su un ordine sociale libero da ogni sfruttamento, corruzione e violenza.

L’utopia della pace può trovare angoli di mondo in cui la cultura della pace viva nelle sue molteplici espressioni. Questa è la rivoluzione in cui ella crede.

Nei suoi discorsi Vimala parla dell’urgenza di trasformare sia il modo di vivere, sia il contenuto della coscienza, affinché l’uomo di oggi possa scoprire il segreto della vita, da lei definita come un muoversi con la totalità del proprio essere, cercando il più possibile l’armonia nella complessità; o, ancora, muoversi in modo tale che il proprio movimento non provochi danno alla vita di un’altra persona ma che esso sia recepito come una festa, qualcosa di cui godere.

L’essenza della religione è scoprire di persona il mistero del vivere iniziando da sé. Occorre guardarsi come espressione di una somma di esperienze della vita umana globale, come un mondo in miniatura. E conclude: «Al di là del noto e dell’ignoto, al di là del visibile e dell’invisibile c’è il regno del silenzio. Ciò che non è mai stato definito, delineato, codificato, mai misurato dalla mente umana, né mai lo sarà, là c’è il silenzio».

Trovo – dice ancora Vimala – una grande lezione sulla pace che parte dall’Oriente e dall’Occidente, dalla psicoanalisi e dalla spiritualità, da ogni religione che si metta alla ricerca dell’uomo. Una lezione che assume la metafora del fiume di Siddartha in cui possono confluire i mondi delle nostre identità riconciliate perché incontrate, capite, riconosciute e, infine, amate.

In ciascuno il bene e il male si intrecciano, ma può succedere che, sulla nostra strada, si incontrino strumenti per individuare le ombre e dare un nome a ciò che era ignoto.

Quello strumento fondamentale, che è la presa di coscienza e la successiva elaborazione, pare stia permeando non solo una parte del tessuto culturale, ma anche quelle espressioni religiose e spirituali aperte al cambiamento. In questo leggo un segno di speranza. E che tale speranza possa essere restituita ad ogni vittima della guerra.

«Sempre questo sentimento di impotenza! Chi sei tu, che puoi fare? Là fuori si uccidono. Ragazzi di 16 anni cadono. Quelli che hanno il cuore troppo tenero impazziscono. Dio mio, quali crimini hanno commesso contro di noi! Hanno calpestato ogni residuo di fede, finché non è rimasto altro che freddo e desolazione. Non ci hanno consegnato alcun ideale. Tutti siamo rassegnati alla violenza e all’ingiustizia. Nessun essere umano dovrebbe soffrire così». (Ruth Maier)

L’urlo di dolore di tutti i Giobbe che popolano la terra non sia inascoltato, ma possa essere raccolto da quella parte di mondo che voglia costruirsi nella fraternità.

Come dice il profeta Osea (6,4): «Ascoltate il Signore: voglio l’amore non il sacrificio, la conoscenza di Dio più degli olocausti».

Bibliografia
BRUNO HUSSAR, Le religioni non cristiane nel Vaticano II, ElleDiCi, Torino 1966; HUSSAR, Quando la nube si alzava, Marietti, Casale Monferrato 1983; VIMALA THAKAR, Il mistero del silenzio, Ubaldini, Roma 1988; HUSSAR e alii, Ho sentito parlare di un sogno, EMI, Bologna 1992; QOL, Ricordo di fra Bruno Hussar, Supplemento n. 64/1996; A. BARICCO, Omero, Iliade, Feltrinelli, Milano 2004; APPUNTI DI VIAGGIO (Rivista), Anno XVII, giugno-agosto 2008, n. 100; B. SEGRE, La grande capanna di fra Bruno. Bollettino dell’Amicizia Ebraico-Cristiana, Firenze, nn. 3-4/2009; R. MAIER, Diario. Fuori c’è l’aurora boreale, Salani, Milano 2010.

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