Allevamenti intensivi: tra follia e immoralità

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Tolstoj diceva «se i macelli avessero le pareti di vetro, saremmo tutti vegetariani». Ebbene, l’alluvione ha brutalmente illuminato la scena del massacro, e interrotto la macabra routine della Food Valley, così chiamata – l’Emilia-Romagna – proprio per la sua “vocazione” per gli allevamenti intensivi. È infatti una delle regioni con il maggior numero di animali allevati e strutture intensive, con oltre 20 milioni di avicoli, 1 milione di suini, 579mila bovini (Banca Dati Nazionale dell’Anagrafe Zootecnica).

Storie raccapriccianti

Nei giorni successivi all’alluvione, carcasse di centinaia di migliaia di animali, morti annegati, galleggiavano nel fango, accatastati. Molti di questi erano rinchiusi in recinti angusti e gabbie, fatte apposta per non farli scappare. Essere Animali ha documentato la situazione dopo pochi giorni dall’alluvione: «In un allevamento di galline in San Lorenzo in Noceto 3 capannoni sono stati travolti e più di 60.000 animali sono morti. A Lugo un allevamento di suini con migliaia di animali – tra cui anche scrofe in gabbia – sono stati trasferiti in una zona più sicura, ma sono morti diversi animali e un cucciolo è stato trovato in fin di vita». A Bertinoro (FC) in un allevamento con migliaia di suini, sono state documentate cataste di centinaia di maiali morti.

Emergono storie raccapriccianti di proprietari di allevamenti intensivi che hanno addirittura ostacolato i salvataggi: «Dopo l’alluvione abbiamo salvato maiali, cavalli, asini, pony, volatili, capre, pecore provenienti da fattorie didattiche o piccoli allevamenti – spiegano i ragazzi dell’associazione Horse Angels – più complicato è stato salvare gli animali negli allevamenti intensivi. A Villanova di Bagnacavallo siamo stati chiamati dai residenti, ma quando siamo arrivati nell’allevamento allagato, con i maiali dentro, il proprietario ci ha impedito di entrare, ci sono stati attimi di tensione, e sono intervenute anche le forze dell’ordine» raccontano Carmelo, Alex e Nicolas.

L’associazione ha scritto al Presidente Bonaccini: «Chiediamo che non siano risarciti quegli allevatori che non hanno fatto nulla o addirittura impedito di salvare i loro animali, laddove si possa dimostrare che costoro avrebbero potuto aprire i cancelli e liberarli, oppure trasferirli altrove, cosa che non lo hanno fatto con scopo di lucro».

Bombe biologiche

Scrive Gabriele Cappelli, della USB (Unione Sindacale di Base) di Roma:

«L’alluvione ha evidenziato una grave mancanza di piani di evacuazione per gli animali allevati nelle aziende agricole. Questo è non solo una forma di trascuratezza, ma una violazione del dovere etico di prendersi cura degli animali, tutelati dal 2022 dall’articolo 9 della Costituzione Italiana, che fino a oggi abbiamo sfruttato per i nostri fini. Le conseguenze di questa mancanza di preparazione sono state catastrofiche: migliaia di maiali morti nelle gabbie, annegati in mezzo metro di acqua, 60.000 galline stipate nei pollai travolte dalle acque. Oltre alla mancanza di piani di evacuazione, gli allevamenti intensivi rappresentano un serio rischio per la diffusione di zoonosi, ovvero malattie trasmissibili dagli animali all’uomo. La promiscuità e le condizioni insalubri degli allevamenti intensivi creano un terreno fertile per lo sviluppo e la diffusione di malattie come l’influenza aviaria e la salmonella».

Se già in condizioni normali gli allevamenti intensivi sono un pericolo per la salute umana, durante fenomeni estremi (sempre più intensi con il cambiamento climatico), sono vere e proprie bombe biologiche. Gran parte delle zone colpite dall’alluvione, erano già ZVN, ossia Zone Vulnerabili ai Nitrati, a causa dei reflui degli allevamenti, con falde acquifere fortemente contaminate. Dopo un disastro di questo tipo, con reflui, carcasse, e sostanze chimiche disperse nel fango, l’inquinamento delle acque non può che peggiorare. Le carcasse recuperate, sono state, con ogni probabilità bruciate negli inceneritori, così come tutte le centinaia di migliaia di rifiuti provocati dall’alluvione, con ulteriori emissioni climalteranti e inquinamento dell’aria.

A Faenza, 600 maiali sono morti in un allevamento intensivo, gli animali che sono riusciti a salvarsi sono scappati nelle campagne. Toccante la testimonianza di Elena:

«Qualche giorno dopo l’alluvione, mentre pulivamo la casa da acqua e fango, in uno scenario post bellico, abbiamo sentito un rumore dietro una siepe e abbiamo visto sbucare un maiale scappato da un allevamento, che per la fame iniziava a masticare una porta di legno trascinata lì dalla piena. Lo abbiamo chiamato Alfred, gli abbiamo dato da mangiare, ci faceva compagnia e ci rasserenava gli animi cupi. Doveva prenderlo in carico una fattoria didattica, ma era microchippato e il suo proprietario è venuto a riprenderlo per portarlo all’allevamento, destinato al macello. Ce lo hanno praticamente strappato via, lui urlava e piangeva, noi anche. Perché in mezzo a tutta questa merda, salvare una vita animale era una cosa che riportava un po’ di senso e speranza. Volevamo salvarlo da un settore che ha materialmente contribuito a distruggere il pianeta e alterare il clima, con le conseguenze in cui qua siamo immersi fino alle ginocchia ogni giorno».

La follia e l’immoralità

L’alluvione mette a nudo la follia della zootecnia industriale che, se da una parte alimenta la crisi climatica ed ecologica, dall’altra ne viene sommersa. Anche il rapporto IPCC (panel ONU sul climate change) dell’agosto 2019, il «clima visto dal piatto» l’IPCC, sottolinea che il 23% delle emissioni umane di gas a effetto serra derivano dalla deforestazione e dalle trasformazioni del suolo connesse all’agricoltura industriale e, quindi, alla nostra dieta.

Oltre al pericolo per la salute e all’impatto ambientale, anche l’aspetto etico non va sottovalutato. Gli allevamenti intensi sono caratterizzati da condizioni di vita estremamente anguste e sovraffollate per gli animali coinvolti. Questo sottopone gli animali a enorme stress, causando sofferenza e malattie, tanto che è molto diffusa la pratica di somministrare antibiotici anche in via preventiva. Antibiotici che restano nei reflui e aumentano il rischio della diffusione dell’antibiotico resistenza, uno dei maggiori pericoli per la salute globale secondo l’OMS.

Le pratiche di selezione genetica utilizzate per massimizzare la produzione aggravano inoltre i problemi di salute degli animali, come malformazioni e malattie genetiche.

Non si tratta di diventare tutti vegetariani o vegani, ma di ridurre la quantità di carne consumata, sceglierla da allevamenti bio o da piccoli allevamenti etici, che rispettano gli animali. La disponibilità di proteine animali, nel nord del mondo, è effettivamente superiore alle necessità nutritive dei suoi abitanti e, anzi, la troppa carne consumata è correlata all’insorgere di malattie cardiovascolari, diabete e, probabilmente, tumori.

Giustizia sociale e ambientale

È anche una questione di giustizia sociale e ambientale. Attualmente, per produrre cibo per una minoranza stiamo compromettendo l’ecosistema. Il 70% della superficie agricola mondiale è occupata da colture destinate all’alimentazione animale. Oltre a intaccare le foreste, le colture di soia (destinate ai mangimi) prendono il posto di colture che potrebbero essere destinate all’alimentazione umana.

In questi grandi allevamenti, infine, lavorano soprattutto migranti e persone in difficoltà sociale, pagate pochissimo, spesso senza tutele: molte aziende agricole non rispettano le leggi che tutelano la salute e la sicurezza sia degli animali che dei lavoratori. Questa mancanza di responsabilità e rispetto delle leggi rappresenta un problema sistemico che richiede una maggiore vigilanza, una severa applicazione delle normative esistenti e un vero piano di incentivi statali per quelle (poche) aziende e dipendenti che portano avanti politiche etiche nel rispetto dei diritti dei lavoratori, degli animali e dell’ambiente” conclude Gabriele Cappelli della USB.

Greenpeace ed altre associazioni ambientaliste da anni chiedono lo stop ai sussidi pubblici di cui godono gli allevamenti intensivi e il divieto dell’allevamento in gabbia «End the Cage Age».

linda maggioriLinda Maggiori è nata a Recanati nel 1981, vive attualmente a Faenza (RA) col marito e quattro figli, senz’auto e con uno stile di vita il più possibile sostenibile, in un appartamento ristrutturato e alimentato con sola energia rinnovabile. È giornalista freelance, attivista per l’ambiente, la pace, la giustizia sociale. Collabora con il quotidiano Il Manifesto e riviste come Terra Nuova, Altreconomia, con il portale di comunicazione ambientale Envi.info ed è blogger de Il Fatto Quotidiano. Ha scritto libri per bambini e per adulti sulle tematiche dell’ecologia e della giustizia sociale: Anita e Nico dal Delta del Po alle Foreste Casentinesi (Tempo al Libro, 2014), Salviamo il Mare (Giaconi, 2015), Anita e Nico dalle Foreste Casentinesi alla Vena del gesso (Tempo al Libro, 2016), Impatto Zero (Dissensi, 2017), Occidoria e i Territori Ribelli (Dissensi, 2018), Vivo senza Auto (Macro, 2019), Questione di Futuro (San Paolo, 2020), Semi di Pace (Centro Gandhi, 2022), Guida per viaggiatori senza auto (Epoke, 2023).

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