Il fenomeno Sanremo merita ancora una riflessione. Se più di 13 milioni di spettatori (oltre il 70% di share) ha seguito per cinque interminabili serate consecutive l’evento, che così a lungo domina la comunicazione pubblica e la conversazione privata col suo ingombrante contorno, la spiegazione non si esaurisce nella qualità della musica e dello spettacolo, e solo in minima parte si può ascrivere alla pavidità dell’offerta televisiva alternativa. Sanremo può appassionarci o apparirci come una marmellata indigesta, circo o tritacarne che dir si voglia, ma interroga, eccome se interroga, se non altro per le sue proporzioni, che inducono una riflessione sul piano antropologico.
Intanto all’edizione 2025 ha giovato la «cura Conti», che per sobrietà ha serrato la scaletta in ritmi più stringenti, asciugato gli intermezzi, abbreviato/ridotto le comparsate, rinunciato a predicozzi moraleggianti e contenuto, sia pur timidamente, l’ondata autocelebrativa che costituisce un ingrediente essenziale della ricetta.
La macchina ha perfettamente funzionato, la medietà è stata mantenuta come da programma, la gradevole fruibilità del prodotto va riconosciuta onestamente.
Per il resto il festival di quest’anno non si scosta dai binari tracciati negli ultimi anni, piuttosto ne intensifica le tendenze:
- il poderoso investimento RAI sull’evento, l’enfasi comunicativa e la lunga preparazione ancorata al divismo, un impegno confortato da risultati grandiosi e inattesi;
- il numero progressivamente crescente degli spettatori, la loro fedeltà e la loro distribuzione intergenerazionale e interclassista (evidente la «conversione» di parecchi tradizionali refrattari). Impressionante che gli ascolti superino l’80% nella fascia 15/24 anni, notoriamente poco avvezza alla TV;
- il successo televisivo non scalfito dal pervasivo chiacchiericcio social, piuttosto potenziato dall’assistenza reciproca dei diversi canali;
- la pretesa di essere specchio della nazione e di rappresentarne il momento, mantenendosi nei confini della musica, del gioco, della leggerezza e dello star system senza rinunciare a incursioni edificanti nella cronaca;
- la ritualità codificata, al di là del variare dei regolamenti e dei temi, che ne fa un appuntamento atteso, una celebrazione collettiva coinvolgente ma non impegnativa, in cui gara e classifica contano poco;
- l’insistenza su temi e toni nazionali e «patriottici», dichiarata nell’ultima edizione fin dalla sigla «Tutta l’Italia…», che sostituisce il tautologico «Sanremo è Sanremo»;
- la preoccupazione a dosare gli ingredienti per non disturbare il manovratore: scherza coi fanti ma lascia stare i santi, satira e autoironia sono ben consapevoli dei limiti;
- il culto dell’inclusione intesa come spazio per tutti a condizione dell’autocensura nel politicamente corretto; inclusione talora declinata come quota di riserva per minoranze (gli obesi, i vecchi, i malati, i disabili, i brutti, le donne abusate come specie protette).
Sanremo 2025, peraltro, si caratterizza per l’accentuazione di alcuni elementi, che riguardano trasversalmente la pluralità dei soggetti coinvolti: conduttori, cantanti, ospiti, pubblico, e con particolare intensità la fascia giovanile, la cui partecipazione massiccia, attestata anche dall’inatteso vincitore, è forse l’aspetto saliente dell’evento:
- Il rifiuto del conflitto e del dato politico come «divisivo», dunque da cassare in quanto tale, indipendentemente dalle ragioni del dividersi. Sono lontani i tempi delle canzoni di protesta e «impegnate», dei cantanti e dei gruppi musicali fortemente connotati e trasgressivi (non a caso il rock è praticamente assente). Con buona pace della satira elegante e non troppo caustica di Benigni e della Cucciari.
- L’interesse concentrato sull’intimità, sulla ricerca di un sé dal contenuto indefinibile, in bilico tra la fragilità (vera cifra tematica, intesa come dato e talora rivendicata come valore) e la spinta all’autoaffermazione, in ossequio al primo comandamento dell’era social: «Essere se stessi». L’io come unico punto fermo, a dispetto della liquidità del suo contenuto; un io che si ripara nella comfort zone dell’intimità individuale, di coppia, familiare, al più amicale. Solo dentro si avverte il conflitto e si prova dolore: il dolore privato dell’abbandono, della incomprensione, della malattia, della nostalgia, della solitudine, la malinconia per il tempo che passa… Il dolore pubblico è rimosso, non c’è spazio per l’indignazione, a dispetto (e forse proprio in forza) del momento storico che viviamo, tanto gravido di dolore e preoccupazione.
Per converso, la spinta sociale è ineludibile: il bisogno di appartenere, partecipare, riconoscersi cerca elementi di coesione e li rintraccia da un lato nella dimensione degli affetti, che sono gli stessi per tutti anche se ognuno li vive a modo suo, dall’altro nella ricerca identitaria, che a livello collettivo («noi») facilmente vira verso il discorso nazionale e neo-patriottico, verso la retorica dell’italianità come valore non negoziabile: «Tutta l’Italia…».
Discorso che si salda con la narrazione politica mainstream e con la scelta, questa sì del tutto consapevole, di inserire il neo-patriottismo nei programmi della scuola e della TV di Stato. Non a caso il Presidente Mattarella ha recentemente ritenuto di operare una correzione, recuperando la dimensione patriottica come un valore sì, ma solo in quanto fortemente ancorata ai contenuti costituzionali.
Il mondo fa paura: il panorama geopolitico è regressivo e sconfortante, ingiustizia e disuguaglianza si allargano, le guerre paiono derubricate a normali strumenti della dinamica politica, la democrazia è malata grave; oligarchie ciniche, arroganti e sprezzanti delle regole detengono, con la forza degli strumenti in loro possesso, spaventose quote di potere e tendono a saldarsi per imporre i propri interessi; le conquiste civili – e la cultura politica che le sostanzia – mostrano tutta la loro debolezza.
Ergo, cancelliamo il mondo: Sanremo è un’alluvione che rimuove la realtà, rifugio nel divertissément, reazione collettiva, questa sì unitaria, di fuga dalla frammentazione, dal disorientamento, dalla percezione d’impotenza. La sua coralità spontanea («Tutta l’Italia…»), e soprattutto intergenerazionale, fa pensare. Il riconoscersi e la condivisione, comunque, si esauriscono nella comunicazione unidirezionale; l’unità consiste nella celebrazione e la coesione è data dalla retorica.
Una riflessione a parte merita la fascia giovanile così come viene rappresentata: intanto è anomalo l’appiattimento delle diverse generazioni sulla stessa lunghezza d’onda, senza attriti. Può non stupire l’approccio disilluso e rinunciatario delle generazioni adulte, mentre stupiscono i giovani orfani di conflitto, parte integrante della costruzione del sé, e che ricercano sé stessi nel ripiegamento autoreferenziale.
L’ossessione dell’immagine e del corpo non è compiacimento estetico fine a se stesso: il corpo è spazio e sostanza del sé, lavorare sul corpo e sui suoi paludamenti si configura come lavorare sul sé. In ogni caso, le generazioni adulte non hanno saputo indicare ai ragazzi la strada per trovare sé stessi nel confronto tra il dentro e il fuori, nel misurarsi con il negativo senza paura di perdersi. L’urto del «fuori» li trova disarmati, pertanto va evitato. Ribellarsi è fuori discussione.
Un’ultima nota: pare definitivo lo sdoganamento della liquidità di genere, ma non è un caso che sia esibita e ricercata soprattutto dai maschi, e che la sua forma prevalente consista nell’emulare il femminile in modo più o meno grottesco. È un dato che merita attenzione.
Infine, non si può chiedere allo spettacolo di essere qualcosa di diverso da sé e di sacrificare la sacrosanta cifra dell’evasione, del gioco, della festa. Ma se è vero che appartiene allo spettacolo la capacità di rispecchiare, interpretare, provocare e, a volte, narcotizzare la realtà, è preoccupante quello che oggi vediamo nello specchio – sia pure parzialmente fedele – del festival nazionale.
«Tutta L’Italia, tutta l’Italia…»: è davvero tutta qui l’Italia? No, certo che no, ma qui ce n’è parte grandissima.
Ringrazio per l’analisi che ci riporta coi piedi per terra e ci fa vedere con realismo la parata del festival della canzone italiana.
Almeno nelle edizioni passate c’era un qualche monologo interessante… Quest’anno manco questo. Un festival semisterilizzato dove solamente Benigni e un po’ Geppi Cucciari riescono a dire qualcosa di non totalmente narcotizzato.
Condivido. Ho guardato pochi minuti del Festival e mi sono bastati. Come tanti ho poi recuperato informazioni dai giornali, da YouTube, dalla radio. Soliti cliché, solite gag da tre soldi, solite canzonette dimenticate ancora prima di esser scritte, solita passerella di persone che si atteggiano ad artisti, ma che dall’arte non mi pare siano toccati e che, in buona misura, nello sforzo di stupire con i propri look, raggiungono l’apice dell’ineleganza, confermando parallelamente l’assenza di personalità.
La Cucciari se la cava sempre. Benigni invece no, mi spiace; siamo lontani dal comico incontenbilmente frizzante che strizzava gli attributi a Baudo, si arrampicava in braccio a tutti o prendeva per i fondelli mezza classe politica, per non dir tutta; ora non fa ridere, è diventato uno degli emblemi dei radical chic, vuoti di vere idee di sinistra, anche perché in questo festival qualcuno che dicesse cose non politically correct o vagamente sinistrorse non sarebbe stato invitato.