All’inizio del Settecento trovava una nuova formulazione una delle questioni che aveva impegnato senza risultato molti studiosi dei due secoli precedenti: cosa abbia prodotto le lapis sui generis, le pietre a forma di conchiglia o di pesce, i cosiddetti fossili.
Ad esempio, il naturalista inglese Robert Plot all’inizio del Settecento teorizzava che queste pietre non fossero prodotte da una qualche virtù plastica della natura – come si credeva fino a quel momento – ma che fossero piuttosto il risultato di un processo al quale conchiglie e pesci erano stati sottoposti nel corso di un lungo periodo di tempo; “per colpa di un diluvio, terremoti o altre trasformazioni della terra stessa”.
Questo tipo di visione, confermata poi dalla sempre più accurata ricerca scientifica, non ridefiniva solamente l’interpretazione religiosa della nascita della terra e della sua formazione offerta dal libro della Genesi ma forniva una nuova immagine di natura. Concepita dall’uomo come una serie di forme immutabili e come ordine di strutture permanenti, la Terra diventava sempre più il frutto di un processo che si svolge nel tempo, un insieme di strutture solo apparentemente costanti.[1] Così i fossili non erano più oggetti naturali più strani delle pietre comuni, ma testimonianze del passato, traccia di processi che si sono svolti. In questo senso la natura smetteva di essere il regno dell’immutabile in opposizione alla storia, regno del divenire e del mutamento: “la natura stessa ha una storia e i fossili sono alcuni dei documenti di questa storia”.[2]
E noi a che punto siamo di questa storia geologica?
Secondo la Commissione Internazionale di Stratigrafia, il Quaternario (o Neozoico) è il periodo geologico più recente, quello in cui viviamo. Di questo periodo l’epoca geologica attuale è definita Olocene ed ha avuto inizio convenzionalmente circa 11.700 anni fa.[3] Il tempo e gli elementi sono sempre stati considerati come i due agenti principali della lenta trasformazione della Terra e delle specie: e se invece fosse l’uomo oggi la nuova variabile principale dello sviluppo geologico? Se l’uomo, con le molte trasformazioni da lui operate in virtù dei processi di sfruttamento delle risorse, avesse imposto un nuovo ritmo alle prima lentissime trasformazioni del pianeta?
Nel XX secolo il premio Nobel per la chimica atmosferica Paul Crutzen coniò a questo proposito il termine Antropocene, per definire l’epoca geologica in cui l’ambiente terrestre, inteso come l’insieme delle caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche in cui si svolge ed evolve la vita, è fortemente condizionato sia su scala locale sia globale dagli effetti dell’azione umana.[4] Questo periodo (non riconosciuto nella scala cronostratigrafica internazionale del tempo geologico) viene fatto coincidere con l’intervallo di tempo che separa il nostro presente dall’inizio dei processi di industrializzazione sviluppatisi a partire dal XVIII secolo. In questo periodo l’impatto dell’uomo sugli ecosistemi è progressivamente incrementato, traducendosi in alterazioni sostanziali degli equilibri naturali, come la scomparsa delle foreste tropicali, la riduzione della biodiversità, l’immissione in atmosfera di ingenti quantità di gas serra e così via.
A riflettere e illustrare i cambiamenti in atto in questa nuova epoca umana è oggi un’importante mostra itinerante presentata in anteprima simultanea presso la Art Gallery of Ontario e la National Gallery of Canada e oggi ospitata alla Manifattura di Arti, Sperimentazione e Tecnologia (MAST) a Bologna: Antropocene: l’epoca umana. La mostra è visitabile fino all’inizio di gennaio 2020.
Si tratta del frutto di una collaborazione durata quattro anni tra il fotografo Edward Burtynsky, i registi Nicholas de Pencier, Jennifer Baichwal e il gruppo internazionale di scienziati dell’Anthropocene Working Group. Originariamente concepite per un saggio fotografico, le immagini presenti nella mostra sono sfociate anche nel film omonimo, il terzo di una trilogia ideata da Burtynsky che comprende Manufactured Landscapes (2006) e Watermark (2013). Il progetto Antropocene si è rapidamente evoluto per includere successivamente installazioni cinematografiche, cortometraggi, installazioni di realtà aumentata. I tre artisti hanno intrapreso un viaggio in diverse parti del mondo per documentare le prove più evidenti – spettacolari e allo stesso tempo inquietanti – dell’influenza umana sul nostro pianeta: le miniere di carbone a cielo aperto in Germania, le vasche di evaporazione del litio nel deserto del Perù, le spirali simili a gusci di nautilus lasciati dalle scavatrici sulle pareti delle Miniere di potassio in Russia, o ancora la discarica di plastica di Dandora, a Nairobi, la più grande del mondo, in cui lavorano più di 250mila persone ogni giorno.
La tesi dell’Anthropocene Working Group è che gli umani siano diventati la singola forza più determinante nelle trasformazioni che coinvolgono il pianeta attraverso i processi invasivi di terraformazione, urbanizzazione, industrializzazione e agricoltura, proliferazione di dighe e dirottamento di corsi d’acqua, acidificazione degli oceani, presenza pervasiva di plastica, cemento e altri tecnofossili. Queste azioni, sostengono i ricercatori del progetto, hanno una portata così ampia che fanno già parte del tempo geologico.
A nostro parere il lavoro artistico in questione non ha solo il pregio di informare in modo innovativo il pubblico su una questione urgente ma non nuova, ma anche quello di illustrare bene il rapporto di interdipendenza tra uomo e natura. La modernità ha spesso contrapposto cultura e natura facendo della prima la capacità dell’uomo di emanciparsi dalla seconda. Antropocene mette invece in evidenza – anche in maniera drammatica – il legame indissolubile che l’uomo ha con la Terra che abita. In fondo sembra essere proprio questo il messaggio delle mostra: che il destino della Terra e dell’uomo, nei prossimi anni, dipenderanno dalla capacità di quest’ultimo di produrre una cultura sana e sostenibile.
[1] Cf., P. Rossi. I segni del tempo. Storia della Terra e storia delle nazioni da Hooke a Vico, Feltrinelli, Milano 2003, 22.
[2] Ivi, 23.
[3] Periodo che coincide approssimativamente con il termine dell’ultima fase glaciale che ha interessato l’emisfero settentrionale.
[4] Analogamente il teologo francese Pierre Teilhard de Chardin utilizzò il concetto di noosfera coniato dal geologo russo Vladimir Ivanovič Vernadskij all’inizio del Novecento.