Vi sono idee e suggestioni che trascendono il contesto nel quale maturano per farsi massime universali, valide per i singoli e i gruppi.
Così è, a mio avviso, per un brevissimo passaggio della Seconda Lettera di Pietro: “mentre attendete e affrettate la venuta del giorno di Dio”. Ecco, aspettare e, insieme, affrettare: non solo la venuta del giorno di Dio. E, più in generale, a Gerusalemme come ad Atene come a Roma e ovunque, in ogni tempo.
Su cosa si basa, in fondo, il lavoro dello psicoterapeuta? Sull’attesa paziente di un segnale di miglioramento e sull’impegno volto a renderlo più prossimo. E tale è anche il compito del paziente: attendere con fiducia e adoperarsi affinché l’attesa non sia vana o troppo lunga. E non è qui, in definitiva, il senso dell’analisi terminabile e interminabile di Freud?
Come suggeriva, fra gli altri, il pastore metodista Sergio Aquilante, poi, affrettare e aspettare è un’espressione che condensa il senso dell’azione sociale: di quella delle chiese e di quella di ogni altro soggetto. Sarebbe velleitario voler cambiare tutto e subito. E qui si situa il valore dell’attesa.
Neppure però ci si può adagiare pigramente su tale attesa, rivestendola magari di proclami rivoluzionari (come faceva un certo massimalismo parolaio), no: occorre adoperarsi per conseguire risultati concreti, per raggiungere obiettivi magari parziali. Detto altrimenti: si tratta di “affrettare”.
E così è anche nelle nostre vite, al di là di dicotomie quali passività e attività, forzature e remissività. Aspettando e affrettando, come singoli e come gruppi e comunità, saremo persone migliori, che si coltivi la fede o che si dubiti.