– Professore, lei faceva parte della delegazione che il 18 gennaio scorso ha presentato al senato il Patto per la natalità. Com’è andata? Che impressioni ne ha ricevuto?
Mi è parso che ci siano ampie argomentazioni ben supportate dai dati e dalle analisi e che le richieste siano legittime e condivisibili. Ma l’incognita non è sulla loro condivisione da parte della politica, bensì sulla capacità (e sull’affidabilità) di chi ci governerà nel dare seguito all’accettazione di una proposta che oggi è certamente comoda e conveniente, ma che andrà poi gestita in presenza di difficoltà e di vincoli.
– Potrebbe specificare i sette punti di cui è composto?
Il succo si riassume nella richiesta di serie e strutturali politiche economiche e fiscali a favore delle famiglie, di sostegni concreti alla natalità uniti alla promozione di una più ampia cultura dell’accoglienza dei bambini, di un programma di consolidamento del lavoro femminile, con successive soluzioni di conciliazione del tempo del lavoro con quello della famiglia, anche attraverso servizi adeguati e a basso costo.
– Quali sono, a suo avviso, i pregiudizi più diffusi nel mondo dei partiti a proposito del sostegno alla fecondità?
Ci sono posizioni diverse. Si va dai partiti che semplicemente non ci hanno pensato, perché sono abbastanza sprovveduti e perché è un tema che non fa parte dei nuovi valori che sono la loro bandiera da sventolare. Ci sono quelli che cavalcano il sostegno alla fecondità ma in primo luogo come espressione libera di diritti individuali da garantire; più nel segno delle battaglie di genere che di riconoscimento del ruolo-valore della famiglia tradizionale. Altri difendono la famiglia ma talvolta faticano a dare attenzione e a battagliare di fronte ai ricorrenti tentativi di indebolirne il ruolo e la forza.
– I demografi hanno cominciato alla fine degli anni ’70 a mettere sull’avviso circa i cambiamenti demografici sfavorevoli del paese. Ricordo una lettera dei vescovi emiliano-romagnoli della metà degli anni ’80 sul problema. Come anche il volume “Il Cambiamento Demografico” del 2011, sostenuto del Progetto culturale. Voci non particolarmente avvertite né dai media né dalle istituzioni…
Il volume “La popolazione in Italia”, pubblicato come Rapporto del Governo italiano, risale al 1980 ed è l’unica iniziativa di sensibilità al tema demografico documentata da un testo “ufficiale”. Le voci che si sono succedute in seguito, ripetendo e approfondendo aspetti che già allora erano evidenti, provengono dall’Accademia e dalla Chiesa cattolica.
Mi piace ricordare, tra le altre, la voce costante e autorevole con cui per anni il card. Ruini ha sottolineato la gravità del problema demografico. E non è un caso che il rapporto-proposta “Il Cambiamento Demografico” sia stato un’iniziativa del Progetto culturale voluta da Ruini per supplire la mancanza di un serio dibattito costruttivo su aspetti così importanti nella nostra società.
– Quali sono le difficoltà specifiche della politica a prendersi carico delle nascite e delle famiglie? Qualche risultato è stato raggiunto in Francia e in Germania? È comunque un problema per l’intera Europa?
La politica tende a non occuparsi di scelte, seppur importanti e doverose, che rischiano di scontentare nel breve periodo per dare risultati a medio-lungo termine. Poiché la “coperta è corta”, se oggi si aiutano le famiglie, anche economicamente, a compensare i costi dei loro figli – che pur sono un investimento della società nel garantirsi un futuro – ci sarà qualcuno (o qualche categoria) che dovrà perdere o non avere benefici.
In Francia dove, con una popolazione di poco superiore alla nostra, ci sono 300 mila nati in più, esiste da tempo una cultura che vede il sostegno alla natalità come necessario e normale.
La Germania, che si illudeva di basare la tenuta demografica sull’apporto migratorio, sta cercando di correre ai ripari, mentre da noi continua a prevalere l’idea che ogni intervento di sostegno alla famiglia debba essere giustificato da condizioni di indigenze.
I vecchi assegni familiari, dati a tutti coloro che avevano figli, sono stati trasformati nel tempo in bonus per combattere la povertà. Occorre un cambio di passo. Va capito che solo creando condizioni migliori alla “classe media” (e forse anche medio-alta) si potrà sperare di avere i numeri di nati che possono cambiare in modo significativo le tendenze in atto.
– È possibile indicare qualche specificità nei comportamenti procreativi da parte dei cattolici e dei credenti? Cosa risponderebbe a chi accusa i religiosi e le religiose di non aver parola in merito per la scelta di non essere fisicamente fecondi?
Quest’ultima osservazione mi sembra demenziale. L’attenzione ai problemi della società e al bene delle famiglie va visto come un dovere irrinunciabile per i religiosi, e non solo. Poiché fare 2, 3, 4 figli è oggi sempre più una scelta eroica, credo vada preso atto (e vadano gratificate) quelle coppie di genitori che spesso, proprio a seguito di un’impostazione di vita nel segno della fede, sono aperte ad avere più figli. Danno, con gioioso sacrificio, un contributo preziosissimo alla società e ai loro fratelli.
– Ci sono nel paese “isole felici”, territori in cui la fecondità è ancora alta? E perché?
Ci sono certamente alcune eccezioni al panorama di criticità che andiamo lamentando. Si tratta in genere di contesti locali in cui anche la politica – specie attraverso i sindaci e gli amministratori – può dare una mano. D’altra parte, alcuni grandi problemi – la casa, l’asilo, i tempi del lavoro, il costo dei figli, giusto per elencarne qualcuno – possono venir mitigati se li si affronta con intelligenza e senso pratico, cercando di non cadere nella trappola della burocrazia a valorizzando quelle forze che quasi sempre esistono nella così detta società civile.
– Nel suo saggio “Sussidiarietà e crisi demografica” lei accenna ad alcune sfide. Potrebbe richiamarle?
Innanzitutto, rimettere al centro la famiglia e aiutarla nella sua funzione di produzione/formazione del capitale umano. Poi si tratta di valorizzare i contributi esterni, l’immigrazione e la sua integrazione, e di contenere le “fughe” dei giovani che vanno all’estero, e che regaliamo alla concorrenza di altri paesi, dopo aver speso risorse per dal loro un’alta formazione.
Riguardo alla formazione occorre anche migliorare i percorsi e le azioni di supporto per contenere lo scadimento della qualità e gli abbandoni.
Infine, si dovrebbe sensibilizzare sempre più il mondo delle comunicazioni per far sì che si formi un’ampia coscienza sui temi demografici. La consapevolezza della gravità dei problemi e delle loro conseguenze è l’indispensabile premessa per avere consenso nel dar vita alle azioni e alle politiche di governo di questa difficile nuova realtà demografica.