Dacca, Nizza, Istambul, Würtzburg: l’accelerazione di fenomeni terroristici e violenze politiche fideisticamente connotate alimentano l’inquietudine popolare sempre più esposta a semplificazioni etnico-religiose e identitarie. È anche il momento nel quale sui media inizia ad avviarsi una discussione sul ruolo delle fedi, e dell’islam in particolare, nei processi di violenza. Fuori dal consueto schema binario e contrapposto nel quale l’islam non c’entra (perché è pura sovrastruttura di altre ragioni o perché è una fenomeno complesso e serio non riducibile ad elementi violenti occasionali) oppure nel quale l’islam è decisivo (perché è il riferimento per tutti gli attori ed esprime una domanda identitaria che è sia delle masse islamiche, sia – contrapposta – in quella di ampi settori di società occidentali). C’è un quindicennio di ritardo in merito che suggerisce una prima sommaria distinzione dei termini.
Per quanto riguarda le società europee e occidentali questi elementi cadono sulla progressiva e rapida incultura religiosa, che non sa più riconoscere i segni esterni e interni della propria religione tradizionale. Tantomeno quelli delle altre fedi. La secolarizzazione dei linguaggi, l’estraneità delle élites politiche e la rimozione della teologia e del pensiero religioso dal mondo accademico e mediale trovano un corrispettivo nel ritardo e nell’imbarazzo davanti alle persecuzioni cristiane e delle fedi in rapida crescita in molti settori del globo. È ancora tutta da affrontare l’insufficienza di una laicità statuale declinata nella sua forma settaria e ideologica e non nella sua forma inclusiva, capace di alimentare l’ethos che i formalismi procedurali non riescono più a trasmettere.
Domande anche per le fedi e le Chiese in Occidente. L’islam occidentale si trova frantumato nelle varie appartenenze e fra le sue élites e la sua gente. Che da al-Azhar, il prestigioso centro islamico del Cairo, arrivino censure e condanne alle manifestazioni violente, sempre più spesso denunciate anche dagli imam locali e da organismi come UCOI (Unione delle comunità italiane) piuttosto che dal Consiglio delle comunità islamiche di Francia o Germania, non sembra scalfire il sentire diffuso delle loro comunità nelle quali la spinta identitaria e la crescente paura impedisce ogni denuncia del radicalismo terroristico presente. Con esiti imprevisti nell’opinione pubblica nella quale sempre più le altre fedi sono assimilate all’islam, divenuto il modello di riferimento che assorbe la figura complessiva del fatto religioso.
Ben diverse le condizioni delle fedi nei luoghi non occidentali segnati dal terrorismo e dalla violenza. Le minoranze religiose turche sono già oggetto di aggressioni violente all’indomani del mancato golpe e le vittime designate – anche se indirette – di un’accelerazione islamistica del potere. Frutto del terrorismo sono anzitutto le persecuzioni. Il fondamentalismo islamico è il vettore trainante di maggiore forza nelle società del Medio Oriente, dell’Africa del Nord e sub-sahariana. A questo si aggiunge il fondamentalismo crescente di altre fedi come il buddhismo o l’induismo. I paesi che si ispirano a ideologie atee e quelli la cui struttura statuale è al limite dell’esplosione o nei quali la violenza organizzata costituisce uno Stato nello Stato completano il quadro. Le voci spiritualmente più avvedute richiedono la democrazia e la laicità dello Stato non per emulazione dell’Occidente, ma come garanzia efficace della libertà della fede.
Si aprono, infine, compiti di rilievo per le fedi e le religioni. Che nei casi di violenza le voci dei diversi responsabili concordino nella condanna è un elemento prezioso e allude a una alleanza che sarà sempre più necessaria. È un vallo di contenimento di assoluta importanza. L’esperienza di Assisi, avviata da Giovanni Paolo II nel 1986, indica una ricerca decisiva per sradicare dai fondigli delle esperienza religiose i richiami e i consensi alla violenza. Vi sono confronti ancora sostanzialmente da iniziare come quelli relativi ai fondamenti della morale, al ruolo dei riti e alla elaborazione della teologia. Un caso emblematico è quello del monoteismo indicato da una parte dell’intelligenza laica all’origine della violenza per la concentrazione nell’Uno di ogni potere e per la radicalità richiesta al fedele; esso dimentica che fino a pochi decenni fa essa indicava quella stessa come il compimento del processo razionale delle fedi e che, connessa all’affermazione dell’unicità, vi è sempre quella della comune figliolanza e fraternità fra gli uomini. Il caso singolarissimo del monoteismo trinitario del cristianesimo si raccomanda come l’antitesi della violenza. Così l’ha argomentato la Commissione teologica internazionale in un documento del 16 gennaio 2014 dal titolo Il monoteismo cristiano. Contro la violenza. Non sarebbe male partire da qui.