Mentre comincio a scrivere queste righe, 61 persone detenute si sono suicidate nelle carceri italiane dall’inizio del 2024. Non escludo che, quando avrò terminato di scrivere, la quota di tale tragico computo sarà salita ulteriormente. Rischia di diventare un fenomeno «normale» agli occhi dell’opinione pubblica, sempre più indifferente a quanto accade dietro le sbarre.
E chi governa il sistema dell’esecuzione penale pare non sentirsi toccato da questa somma abnorme di drammi personali che si consumano negli istituti di pena, quasi si trattasse di un problema che non li riguarda, come se i detenuti costituissero una sotto umanità immeritevole di uno sguardo attento ed empatico.
«Hanno sbagliato, è giusto che paghino»
«Hanno sbagliato, dunque è giusto che paghino»: questo è pensiero comune. D’accordo. Ma a quale prezzo? La pena nel nostro ordinamento consiste nella privazione della libertà, non nella sottrazione di dignità umana, né in sofferenze corporali o psicologiche inflitte dal sistema in aggiunta allo stato detentivo. Anzi, la nostra Costituzione raccomanda che il trattamento riservato ai detenuti sia ispirato a criteri di umanità, teso alla rieducazione e alla risocializzazione dell’individuo (art. 27 Parte prima), condizioni necessarie per ottenere percorsi di revisione critica e il reinserimento degli individui a fine pena.
Sta però accadendo che un numero sempre maggiore di carcerati si autoinfligga addirittura la «pena di morte» nel corso della detenzione, e che chi dovrebbe gestire il sistema nei termini costituzionalmente definiti rimanga indifferente o consideri «normale» tutto ciò. Se avvenisse la stessa cosa fuori dal carcere, come reagirebbero le autorità, gli amministratori, i media, la pubblica opinione?
Pensiamo a cosa accadrebbe se in una piccola città di 60.000 abitanti vi fossero 60 suicidi in 6 mesi, uno ogni tre giorni: gli organi d’informazione diffonderebbero la notizia, tutti ne parlerebbero, l’allarme sarebbe massimo e ci s’interrogherebbe sulle cause del fenomeno, cercando rimedi urgenti. Niente di tutto ciò sta ora avvenendo in riferimento alla popolazione carceraria (61.500 persone ca.), anche se si sono superati i 60 suicidi, registrando un tasso suicidario quasi 20 volte superiore a quello presente nella popolazione libera.
Pure fra gli agenti di polizia penitenziaria il numero di suicidi in Italia è di molto superiore alla media (ce ne sono stati 7 dall’inizio dell’anno): si tratta di uno dei lavori più a rischio sotto questo punto di vista. Ciò rivela un malessere profondo che serpeggia nel contesto delle nostre carceri, coinvolgendo detenuti e detenenti.
Cerchiamo di capire come si possa arrivare alla scelta del gesto estremo, e perché oggi il numero di persone che si danno la morte in carcere sia arrivato a livelli così alti, mai visti prima.
Cercare ascolto
Chi viene ristretto in reclusione perde i contatti con l’esterno e si trova ad essere affidato all’istituzione per ogni sua necessità. È uno stato di totale dipendenza da altri, anche per le cose più banali, e i tempi delle risposte per qualunque richiesta sono estremamente dilatati.
È esperienza quotidiana di ciascun detenuto il chiedere di parlare con qualcuno (direttore, comandante, magistrato di sorveglianza, educatore, psicologo, medico) per le esigenze più varie e di non ottenere alcuna risposta per molto tempo. Le attese sono lunghissime e spesso rimangono senza alcun esito.
Chi generalmente risponde presto sono i volontari o il garante, figure deputate all’ascolto e capaci di fornire una qualche risposta, positiva o negativa che sia, su questioni particolari, ma senza un ruolo specifico nella gestione istituzionale. Per il resto gli operatori, spesso oberati di lavoro, non sono in grado di soddisfare alle tante richieste di colloquio avanzate dai reclusi e si limitano a intervenire sporadicamente quando possibile.
Ora immaginiamo lo spaesamento di chi, magari per la prima volta, si trova a fare l’esperienza della reclusione e a vivere un tale sentimento d’impotenza. Sommiamolo a un possibile senso di colpa derivante dalla consapevolezza del reato commesso e a una percezione catastrofica e di fallimento della propria esistenza, precipitata in un abisso da cui pare impossibile uscire, visto che anche una sola detenzione ti segna per tutta la vita.
Si può comprendere come in tali condizioni le persone più fragili e problematiche possano entrare in uno stato di prostrazione o in un circuito depressivo letale che le conduca a decidere di farla finita. In effetti sono molti i casi di suicidio che avvengono nel periodo immediatamente successivo all’arresto, o addirittura in quello che precede di poco la scarcerazione.
In quest’ultimo caso entra in gioco pure un altro fattore importante: la paura del mondo esterno, dello stigma, di non farcela a rientrare nella società dei liberi, di non trovare supporti fuori e di ritornare, con maggiori difficoltà di prima, al punto di partenza. Consideriamo anche che in diversi casi (39%) chi si ammazza in carcere ancora non ha una sentenza definitiva e che spesso si tratta di persone giovani (l’età media fra i suicidi in carcere è 39 anni).
Spazio vitale
Quanto detto finora vale in generale. Ma ora chiediamoci: perché in questi anni, e sempre più negli ultimi mesi, il numero di suicidi in carcere è aumentato così tanto? A cosa si può associare tale fenomeno? Cerchiamo qualche possibile risposta che spieghi l’ecatombe in corso.
Anzitutto notiamo il sovraffollamento che caratterizza sempre più i nostri istituti detentivi: dopo la fine della pandemia la popolazione carceraria è andata aumentando costantemente e oggi gli istituti scoppiano. Regolarmente dovrebbero contenere 48.000 persone circa, in realtà ne ospitano 61.500. Questo significa spazi minori per tutti, ma anche aggravio di lavoro per chi, già sottorganico, opera nel carcere.
Chi ne porta le conseguenze, oltre al personale che vive in condizioni di stress e di emergenza continui, sono i detenuti, che vedono sempre più ridotti spazi vitali, attenzioni e attività trattamentali predisposte per loro. Perché in queste condizioni aumenta il numero di persone affidate agli educatori, agli psicologi, ai mediatori culturali, al personale sanitario, ai magistrati di sorveglianza, e con ciò diminuisce il tempo – già ridottissimo – che gli operatori possono dedicare a ciascun detenuto, e diminuiscono pure le possibilità di avviare percorsi trattamentali virtuosi, che aiutino la revisione critica, il cambiamento, il reinserimento delle persone ristrette.
Dunque, ridurre il numero dei reclusi consentirebbe di creare condizioni detentive più dignitose e di seguire maggiormente i singoli soggetti, specie i più fragili e a maggior rischio suicidario, facendo rientrare le nostre carceri entro i parametri di una detenzione conforme ai principi stabiliti e evitando ulteriori multe e richiami da parte delle istituzioni internazionali che monitorano il rispetto dei diritti umani nelle diverse nazioni.
Già nel 2013 la Corte europea dei diritti umani (CEDU) con la Sentenza Torreggiani sanzionò l’Italia per mancato rispetto dello spazio minimo dovuto in cella a ciascun recluso (3 metri quadrati). Seguirono misure straordinarie quali l’apertura delle sezioni e la vigilanza dinamica. Con la pandemia si ridusse il numero totale dei reclusi, ma oggi stiamo ritornando alla stessa situazione di 11 anni fa. Tuttavia, chi governa pare non accorgersene, o forse considera «normale» e accettabile la sofferenza suppletiva derivante dalla perdita di spazio e di dignità.
Ritorno alla «cella chiusa»
Altra criticità che può contribuire all’aumento dei suicidi è il ritorno di molte sezioni al regime a cella chiusa, dopo tanti anni di sorveglianza dinamica che consentiva l’apertura delle «camere di pernottamento» per buona parte della giornata, permettendo ai detenuti di uscire dalla cella e di socializzare con gli altri ristretti nei blocchi.
La chiusura di diverse sezioni, introdotta dalla circolare Renoldi del luglio 2022, pur pensata con le migliori intenzioni, ha di fatto riportato all’isolamento per 20 ore al giorno di molte persone recluse, peggiorandone le condizioni di vita quotidiana.
Evidentemente non è un caso se l’86,9% dei suicidi del 2024 abbia riguardato persone che stavano in regime di custodia chiusa, fortemente limitati nella possibilità di socializzare e di condividere con altri le giornate. Riaprire le sezioni senz’altro consentirebbe supporto e controllo maggiore per le persone fragili e «a rischio».
Affettività negata
Infine, l’affettività. Qualcuno ha definito «desertificazione affettiva» la condizione in cui si trova chi entra in carcere. Gli affetti famigliari, le presenze amichevoli, i rapporti affettivi e sessuali certamente sarebbero un importante antidoto alla disperazione per chi è recluso.
Se durante la pandemia non si fosse aperta la possibilità di far uscire alcune tipologie di persone e di far comunicare quotidianamente con l’esterno i reclusi sia telefonicamente sia attraverso videochiamate, probabilmente il bilancio di quel periodo nel carcere sarebbe stato molto più pesante. Purtroppo, tali misure straordinarie, che avevano consentito una positiva sperimentazione, sono state interrotte allo spegnersi dell’epidemia e oggi si è tornati al «tutti dentro» e alle classiche telefonate settimanali di 10 minuti ciascuna, estese da 4 a 6 al mese con l’ultimo decreto carcere.
Un passo indietro che pesa, attenuato solo dalle sagge decisioni di qualche illuminato direttore di concedere più chiamate, in deroga alla norma ordinaria. Se si fosse mantenuto il regime delle telefonate che era entrato in vigore durante la pandemia, chissà quanti fra i detenuti che negli ultimi anni si sono suicidati potrebbero essere ancora in vita, magari grazie ad una chiamata in più, a qualche parola d’amore o di consolazione che non si riusciva a trovare all’interno del carcere nel momento più nero. Come diceva anni fa uno slogan pubblicitario, «una telefonata allunga la vita».
C’è poi la sentenza 10/2024 della Corte Costituzionale che riconosce finalmente anche in Italia un diritto già da tempo fruibile in molte carceri nel mondo e in una trentina di stati europei: il diritto ad incontri affettivi e sessuali con i congiunti anche in carcere. La sentenza è stata emanata in gennaio del 2024 e il suo dispositivo metteva tutti i soggetti responsabili dell’Amministrazione penitenziaria, dal Ministro fino al singolo Direttore, in condizione di renderla esecutiva da subito. Ora, dopo il blocco voluto dal Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria, a 8 mesi di distanza dall’emanazione di quella sentenza, nulla di concreto pare ancora essere stato fatto per attuare quanto disposto dalla Corte Costituzionale.
Quante difficoltà e quanti fallimenti nei rapporti famigliari si potrebbero evitare se si applicasse al più presto questa norma? E quante morti per «desertificazione affettiva» si potrebbero prevenire?
Mi pare tuttavia che la cosa non interessi granché a chi governa il sistema, troppo preso dal voler dimostrare all’opinione pubblica che ora finalmente si vuole garantire la «certezza della pena» inasprendo il sistema punitivo e allargando i reati punibili col carcere (fatta eccezione per quelli che riguardano politici e «colletti bianchi»).
La «Grazia» scomparsa
Anche la concessione di misure straordinarie (aumento dei benefici di legge per chi ha mantenuto buona condotta, indulto, amnistia) in grado di ridurre oculatamente le presenze negli istituti penali, viene definita come una «resa dello stato» di fronte alla delinquenza, senza considerare che si tratta di misure previste nel nostro stesso ordinamento costituzionale (indulto e amnistia all’art.79 della Costituzione e negli art. 151 e 174 del Codice penale), che dal 1942 ad oggi, quando ancora il Ministero di riferimento si definiva «di Grazia e Giustizia», sono state emanate una trentina di volte per svariati motivi.
Ora la «Grazia» è scomparsa dall’intitolazione del ministero, nonostante i reati più gravi siano in continua diminuzione e le carceri si riempiano sempre più di persone in attesa di giudizio o colpevoli di reati minori. E spesso anche chi si uccide in carcere è in attesa di giudizio o è condannato per reati minori, vive in condizioni sociali disastrose, in qualche caso con problemi psichiatrici o di tossicodipendenza. Insomma, parliamo prevalentemente di detenuti che rappresentano la marginalità sociale, tipologie sempre più presenti nei nostri istituti.
Fra le persone che si sono suicidate negli ultimi mesi il 26,2% risultavano senza fissa dimora, il 47,54% erano disoccupati. Le prigioni si stanno via via trasformando in «discariche sociali», luoghi dove confinare quegli «irregolari» che la società non riesce o non vuole sostenere con politiche territoriali di aiuto e d’inserimento.
Ecco, tutto questo può contribuire a farsi un’idea sul perché i suicidi carcerari stiano sempre più aumentando e su cosa si potrebbe fare per tentare di contenere questo tragico fenomeno. Ma pare che le uniche risposte provenienti dal fronte governativo siano: più carcere, più reati, pene più lunghe e severe, dura repressione per chi protesta. Questo in realtà a noi pare indicare la vera «resa», il fallimento di uno Stato, incapace di affrontare il problema attuando quanto stabilito dalla propria stessa legge fondamentale.
Coscienza e voce critica
Noi Garanti, da osservatori indipendenti, continuiamo nonostante tutto a descrivere la realtà e le carenze del carcere e degli altri luoghi di limitazione della libertà, cercando di ottenere ascolto all’esterno e di aiutare all’interno le persone ristrette, nella difesa dei diritti fondamentali dell’uomo che tutti, anche i rei e gli «irregolari» conservano, nella speranza che qualcosa cambi davvero e che quanto disposto dalla nostra Costituzione e dagli Statuti internazionali sui diritti umani finalmente trovi piena attuazione.
Siamo cocciutamente convinti che solo quando il carcere saprà trattare con dignità le persone recluse e dare loro una vera speranza di recupero e di riscatto, solo allora avremo fatto un passo avanti verso una società più giusta e più sicura, non certo tornando alla legge del taglione e all’imbarbarimento della società, non predicando la vendetta di stato e assecondando le pulsioni più crudeli e primitive, né chiudendo gli occhi di fronte alle emergenze, alla disperazione, all’ecatombe.
Antonio Bincoletto è Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Padova
Probabilmente risultera’essere un’ osservazione superficiale, ma pare impossibile che la (positiva) sconfitta di un’ epidemiavenga a segnare una conseguenza infausta a livello di una contemporanea emergenza sociale istituzionalizzata. Apparentemente nelle comunità le occasioni esistenziali (varie) dovrebbero essere facilitate nel senso dell’ allentamento restrittivo. Sembra piuttosto essere aumentata la smania oscurantista di profittarne verso il livellamento più basso nella fruizione di molteplici perimetri. (Ancora, attenzione a respirare! Solo in Italia)?