Il mese di aprile scorso è uscito il XVIII Rapporto “Il carcere visto da dentro” redatto dall’Associazione Antigone nel quale si fa il punto sulla situazione nei luoghi di detenzione italiani nell’anno 2021. Vi sono evidenziate molte criticità. Ne elenco di seguito alcune.
I numeri
I detenuti nel corso dell’anno sono stati in numero di 54.134, cinquecento in più rispetto all’anno precedente 2020, primo anno della pandemia da Covid 19, nel quale si era registrato un calo rispetto alle rilevazioni precedenti.
Nel 2021 le donne carcerate sono state in numero di 2.276, mentre il numero degli stranieri è risultato di 17.104, il 31% del totale. È tutt’altro che risolto o in via di soluzione l’annoso problema del sovraffollamento, con punte molto alte registrate in Puglia e Lombardia (129,9%), nella quale il massimo delle presenze è stato segnato nel carcere di Brescia Mombello col 185% di saturazione dei posti.
L’età media dei detenuti è cresciuta poiché è parimenti diminuita la presenza di detenuti con meno di 40 anni – la maggioranza nel 2021 – al 45% dei presenti. Gli over-60 sono diventati il 9,5%, quasi il doppio rispetto al dato del 2010 (5%).
Il 70% sconta una condanna definitiva, mentre le pene comminate sono sempre più lunghe. Al 31 dicembre 2021 il 50% aveva una condanna definitiva uguale o superiore a 5 anni; nel 2011 – dieci anni fa – questa percentuale era del 40%.
Salute
Quanto agli spazi della vita quotidiana, si rileva ancora che, nel 5% degli Istituti visitati, il wc non si trova in un ambiente separato isolato da una porta, bensì in un angolo della cella; nel 25% delle celle non sono garantiti i 3 metri quadrati calpestabili che dovrebbero essere garantiti a ciascun detenuto.
In più di un terzo degli Istituti, i detenuti non hanno accesso settimanale ad una palestra o ad un campo sportivo; altrettanto carenti sono gli spazi dedicati alle lavorazioni e alla socialità. Perciò, chi non può uscire dalla Sezione per svolgere attività autorizzate o sta in cella o cammina solo nei corridoi.
Benché il carcere abbia – come noto – finalità rieducative, i dati restano molto critici perché solo il 38% è detenuto alla prima carcerazione, mentre il restante 62% è già stato carcerato in precedenza.
Anche l’aspetto della tutela della salute – e della salute mentale in particolare – presenta dati inquietanti, quali il fatto che il 40% dei detenuti nelle sezioni comuni assume psicofarmaci su prescrizione medica. Altro dato, sempre sconcertante, è l’alto numero dei suicidi, ben superiore a quello della popolazione libera.
Questione psichiatrica
Un capitolo a sé riguarda la condizione degli autori di reato con diagnosi psichiatrica. Michele Miravalle ne ha redatto il capitolo relativo: Pazze galere. Esiste una “questione psichiatrica” nel sistema dell’esecuzione penale?
Secondo il Codice penale in vigore, i pazienti con diagnosi psichiatrica autori di reato si distinguono in “folli rei”, ossia persone giudicate incapaci di intendere e di volere, non imputabili e socialmente pericolose, e “rei folli”, ossia persone capaci di intendere e volere, riconosciute colpevoli di reato, condannate a pene detentive, nel corso delle quali la patologia psichiatrica o si aggrava o insorge successivamente all’ingresso in carcere.
Prima del 2014, sia i “folli rei” che i “rei folli” finivano negli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Dopo la loro chiusura, i “folli rei” sono affidati alle Articolazioni per la tutela della salute mentale (ATSM), sezioni psichiatriche presso gli Istituti penitenziari, rilevate dall’indagine in numero di 34 (29 per uomini e 5 per donne), ospitanti 300 persone in totale.
I “folli rei”, invece, sono affidati ai Dipartimenti di Salute Mentale (DSM) del Servizio sanitario nazionale e possono essere ricoverati nelle REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Le REMS, a differenza delle strutture del circuito penitenziario del Ministero della Giustizia, non possono, per legge, ospitare più persone di quanti siano i letti disponibili: per questo si sono determinate lunghe liste di attesa e una situazione di grave sofferenza complessiva nel sistema.
Per Miravalle quello delle liste d’attesa per entrare nelle REMS costituisce una tra le più intricate questione aperte dalla riforma del 2014, sui piani giuridico e politico, nonché. tra cultura giuridica e cultura sanitaria.
Dal punto di vista del lavoro di tutela della salute mentale il tema è tutt’altro che semplice, a partire dal fatto che per sua natura, una misura di sicurezza detentiva unisce insieme privazione della libertà e coercizione delle cure, mentre, in base alla legge 180/78 non vi può essere cura senza il consenso, la partecipazione, la responsabilità e la prospettiva della libertà.
D’altra parte, l’idea che un ordine legittimamente posto dall’autorità non venga eseguito, o meglio non possa essere eseguito per mancanza di posti letto, è una novità assoluta nel campo dell’esecuzione penale. Nel contesto italiano, infatti, nessun Istituto penitenziario potrebbe rifiutarsi di ospitare una persona destinataria di un ordine di carcerazione benché sia stata raggiunta la capienza massima.
Al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero in una REMS è stata di 236 giorni; tre anni prima, nel 2017, era di 206 giorni, con un dato di crescita. Le REMS, nelle intenzioni del legislatore suggerite dalle buone pratiche, dovrebbero essere “tappe” di un percorso progressivo di salute mentale.
L’intervento della Corte Costituzionale
Invece, l’aumento della durata dei ricoveri evidenzia il rischio che le REMS si trasformino in lungodegenze, in cronicari, in cui la durata del ricovero non dipende dalle condizioni di salute, bensì dal ritardo della “presa in carico” da parte dei servizi territoriali.
Pur con differenze tra i territori, al novembre 2020 i pazienti in REMS privi di un Piano terapeutico riabilitativo individualizzato (il Ptri previsto dalla legge) costituivano il 60% del totale dei ricoverati, con la conseguenza dell’allungamento delle liste d’attesa e di negare un posto letto in REMS a persone ancora nella fase acuta della loro patologia.
La Corte Costituzionale ha invocato una complessiva ed urgente revisione del sistema per assicurare al ricovero in REMS “un’adeguata base legislativa”.
Ma grande è il rischio che per il paziente mentale autore di reato non possano valere le leggi di civiltà del nostro ordinamento: la legge 180/1978, nota come “legge Basaglia” e la n. 219/2017 sul consenso informato.