Il 29 maggio 2018 presso l’Auditorium del Villaggio del Fanciullo di Bologna, si è tenuta la conferenza stampa di presentazione de la Casa nel Villaggio, un appartamento che prevede l’accoglienza di persone che possono godere di misure alternative alla detenzione; l’accoglienza diurna di coloro che godono di permessi premiali; ospitalità ai familiari delle persone accolte; percorsi di inserimento lavorativo e di socializzazione. Abbiamo intervistato uno dei responsabili della Casa Elisabetta Laganà per conoscere meglio l’iniziativa.
– Buongiorno Elisabetta, le chiederei di raccontarmi cos’è la Casa nel Villaggio e chi ha ideato questo progetto.
La Casa nel Villaggio è sita all’ultimo piano dello stabile del Villaggio del Fanciullo di Bologna ed è aperta dall’agosto 2017. Il progetto è nato come risposta concreta alla necessità rilevata dalle istituzioni che si occupano di carcere e di pena, sia pubbliche che del volontariato, che hanno evidenziato come le misure alternative alla detenzione, pur essendo uno reale strumento di esecuzione della pena, siano applicate solo in parte a causa della carenza di strutture adeguate dedicate all’accoglienza.
È stato stimato alcuni anni fa che, nelle carceri italiane, ci sono circa 20.000 detenuti che hanno pene definitive da scontare entro i tre anni che potrebbero quindi usufruire della concessione di misure alternative, ma non possono accedervi, perché non hanno un luogo esterno di ospitalità. Questo accade laddove non c’è famiglia – ed è la condizione di molti stranieri – o, anche se la famiglia c’è, non ci sono le condizioni per il rientro della persona all’interno del proprio nucleo.
La Caritas nazionale ha lavorato per anni su questo tema e ha lanciato il Progetto Nazionale Carcere su tutto il territorio nazionale, che prevede l’accoglienza di persone altrimenti impossibilitate ad accedere alle misure alternative perché non hanno un progetto abitativo idoneo. E, siccome il lavoro è un diritto fondamentale e una parte assolutamente indispensabile per la risocializzazione della persona, il progetto non si limita a dare un tetto sulla testa, ma prevede anche l’avviamento al lavoro attraverso tirocini formativi e la ricerca intensa di lavoro stabile per i soggetti che accoglie.
Bologna ha risposto in maniera entusiasta a questa iniziativa. Il progetto compiuto dovrebbe realizzarsi nella zona di Corticella, dove la parrocchia locale ha messo a disposizione un complesso abitativo da ristrutturare che permetterà di edificare una casa di accoglienza per le persone che possono accedere alle misure alternative al carcere di circa 8-10 posti, una comunità di vita composta da padri Dehoniani di Bologna e laici, e un altro luogo attrezzato per laboratori artigianali. Dato che, però, era evidente che i tempi per la ristrutturazione sarebbero stati particolarmente lunghi, si è pensato di non attendere così tanto data l’urgenza di iniziare e, vista la disponibilità dell’appartamento al quarto piano dell’edificio principale del Villaggio del Fanciullo, si è deciso di iniziare lì.
Grazie al sostegno dell’arcivescovo Zuppi, che ha sempre manifestato un forte interesse sulle tematiche del carcere e per questo progetto ha stanziato fondi della curia di Bologna, siamo così potuti di partire prima che arrivassero i fondi Caritas dell’8 per mille, previsti come sostentamento del progetto.
– L’appartamento è dunque un vero e proprio centro di accoglienza, una casa dove le persone possono vivere?
Assolutamente sì: è un progetto residenziale. Qui gli ospiti hanno delle norme che sono riferite a) a una buona convivenza reciproca b) alle prescrizioni previste dai singoli provvedimenti del magistrato.
Noi indichiamo delle regole generali orientate al fatto che le persone conducano uno stile di vita sobrio e il più possibile organizzato secondo i criteri di un’esistenza che va verso la risocializzazione. Proponiamo un contesto profondamente diverso dalla vita del carcere, sia relazionale che personale, fondato sull’esercizio della responsabilità. A questo proposito abbiamo coinvolto anche figure del volontariato, quindi componenti della società esterna, per svolgere con gli ospiti attività sia all’interno della struttura, sia esternamente; il progetto infatti è stato pensato in collaborazione con l’associazione di volontariato Il Poggeschi per il carcere.
– Ci sono sempre degli operatori all’interno dell’appartamento?
Non è prevista la nostra presenza stabile diurna, né il nostro pernottamento, ma siamo al piano di sotto e continuamente in contatto con loro per ogni necessità. Rispettiamo, senza snaturarlo, il senso della misura dell’affidamento in prova come una misura di fiducia; la considerazione di fondo è che ogni persona che sta scontando una pena e per la quale viene elaborato un progetto possa beneficiare dell’opportunità e della fiducia di essere promotore del proprio progetto di reinserimento, ed essere responsabile della propria vita al di fuori del carcere, chiaramente supportata sia dagli operatori che dalle istituzioni.
– Come si svolge una giornata tipo all’interno della Casa nel Villaggio?
Un vincolo è che tutte le persone ospiti siano quotidianamente impegnate. Quindi, al momento dell’uscita dal carcere e dell’inizio della misura alternativa, viene condotta immediatamente una ricerca lavorativa per trovare dei tirocini formativi che cerchino di tenere conto, laddove ci sono state, delle abilità precedenti dei singoli soggetti. In altri casi bisogna invece partire da zero.
Attualmente abbiamo uno studente universitario che, secondo le disposizioni del Magistrato di sorveglianza, deve studiare e conseguire la Laurea in Giurisprudenza. Questo è il suo progetto, dà gli esami con profitto e poi, come può, si rende utile anche nelle attività generali del Villaggio. Faceva parte anche del coro Papageno, ora continua da esterno l’attività corale. Abbiamo un’altra persona che si reca tutti i giorni nella provincia di Bologna, ad Anzola Emilia, per lavorare. Un altro svolge tirocinio presso la coop EtaBeta.
In sostanza, tutti devono avere delle cose da fare durante il giorno e, contemporaneamente, occuparsi della gestione della casa. Da questo punto di vista sono completamente autonomi: noi forniamo delle derrate per la spesa e loro cucinano, si occupano della casa e fanno anche delle attività di tipo risocializzante. Qualcuno ha famiglia esterna di cui occuparsi.
– Al di là della gestione della casa, ci sono attività ricreative che nascono dal basso, ideate dagli abitanti della Casa?
Le vite di ciascuno sono abbastanza intense, nel senso che – ad esempio – chi lavora fuori Bologna, quando arriva il fine settimana, fa fatica a pensare ad altro se non a riposare, sebbene ognuno abbia una sua rete. Parte delle attività ricreative e risocializzanti sono organizzate dal gruppo dei volontari. Si fanno cene periodiche con i volontari in cui si cucina insieme, si esce per iniziative e questo ha un valore, amplia la possibilità di creare rapporti, avere relazioni e cambiare così la visione della vita.
È un’esperienza importante, perché, se è vero che qualcuno – non molti – ha mantenuto un po’ di rete sociale esterna positiva, per qualcun altro invece la rete sociale assolutamente non esisteva; ad esempio, alle persone che non provengono da Bologna.
– La costruzione di nuove reti di socializzazione alternative a quelle dal circuito deviante, che mi sembra di capire sia una parte fondamentale del progetto, è dunque affidata al volontariato?
Come primo inizio sì. Noi diciamo «Qui c’è un mondo che tu puoi utilizzare dal tuo punto di vista. Ad esempio, puoi cominciare ad uscire e vedere se hai degli interessi, occuparti di altri e di te stesso in modo costruttivo, conseguire obiettivi scolastici e culturali, impattare realtà che non conoscevi. Con questa base sicura che ti offriamo vedi che cosa ti può interessare per farti stare meglio». Noi diamo il calcio d’inizio e poi li seguiamo passo passo per vedere come organizzano il tempo libero.
Di fatto, fuori, se uno vuole, ci sono infinite possibilità per tornare alla vita errata precedente, però ci sono anche tante altre possibilità interessanti. Partecipando a iniziative del genere, hanno scoperto e capito che, tutto sommato, la visione della vita legata al reato in un certo modo può essere ribaltata.
Ricordo che, ad una cena a cui partecipavano un gruppo di volontari, uno degli ospiti ha detto «Io frequentavo le discoteche della Romagna ed ero in un gran giro di coca e di sostanze con quella che veniva definita “la bella gente”… Ora mi rendo conto che la bella gente siete voi: le persone decidono di venire a passare una serata con noi, dove si mangia insieme, si sta insieme e ci si confronta sulla vita».
– Alcuni degli ospiti hanno espresso il desiderio di fare volontariato?
Qualcuno sì, compatibilmente con l’essere impegnato col lavoro. Abbiamo anche persone che ormai sono dimesse da mesi ma che continuano ad frequentare l’ambito del Villaggio. Quindi mantengono diciamo un cordone, un contatto con questa realtà che comunque è una realtà concretamente ispirata ad un’idea umanitaria della vita.
– Nel progetto parlate di ospitalità ai familiari delle persone accolte. Ciò significa che possono pernottare nella Casa nel Villaggio?
Siccome nell’appartamento abbiamo solo 4 posti in 4 camere e non vogliamo creare sovraffollamento, i familiari di solito vengono ospitati all’interno dello Studentato delle Missioni qui vicino, dove ci sono delle camere apposite. Poi però possono mangiare tutti insieme nell’appartamento e possono venire qui anche persone o familiari di persone che non vivono qui e che beneficiano di misure alternative.
– Questo mi fa pensare all’accoglienza diurna prevista dal progetto, mi può raccontare come funziona?
Vogliamo che la casa diventi anche un luogo in cui possano transitare altre persone che usufruiscono di misure alternative alla detenzione o permessi premio. Queste persone – e ce ne sono –, se non hanno delle reti sociali, si trovano a trascorrere la giornata da sole. Noi cerchiamo di evitare la solitudine di queste persone, offrendo quindi la possibilità di trovare una casa e qualcuno con cui relazionarsi. Ovviamente tutto deve essere filtrato coi criteri del permesso di cui la persona può usufruire.
– Una volta che si estinguerà la pena, cosa faranno le persone vostre ospiti? Avete già un progetto anche da questo punto di vista?
Questa è una questione fondamentale. Nella fase dell’approssimarsi al momento della dimissione – quindi qualche mese prima del fine pena – noi cerchiamo di far sì che la persona abbia le condizioni autonome per ripartire. Ci assicuriamo che il tirocinio formativo ad esempio si trasformi in un lavoro, che ci sia una possibilità abitativa dignitosa, magari anche in luoghi protetti di transizione che non siano dormitori, perché vorrebbe dire esporre la persona a condizioni di recidiva. Senza questi due vincoli essenziali noi non dimettiamo la persona anche se ha terminato la pena, perché vorrebbe dire disfare tutto lavoro precedente ed esporla a rischio.
– La Casa è già aperta da diversi mesi, avete già potuto fare un primo bilancio di come stia andando il progetto?
Quando si offrono alle persone dimesse dal carcere le condizioni per poter avere un luogo di abitazione dignitoso, la prospettiva cambia. Già il solo contesto abitativo fa la differenza; qualcuno dei nostri ospiti racconta in giro di vivere in un costoso attico con una vista spettacolare che domina Bologna, ed in effetti è vero… Sembra proprio una sorta di contrappasso dal carcere che ha uno spazio estremamente limitato dai muri e un campo visivo particolarmente ristretto. Invece qui lo sguardo ti si allarga a decine di chilometri e questo è un elemento terapeutico già di per sé. Quindi, dicevo, quando si offrono alle persone i fondamentali per poter ricostruire la vita, cioè un accompagnamento personale, un sistema di relazioni positive, un lavoro e un’abitazione, quasi tutte poi vivono con estrema gratitudine questa opportunità che gli è stata data e la usano al meglio. Ci è capitato un solo caso di evasione; si trattava di una persona straniera, gravemente malata che voleva finire la sua vita con i familiari che non potevano venire in Italia.
– La conferenza stampa e l’inaugurazione della Casa alla presenza dell’arcivescovo Zuppi arrivano a diversi mesi dalla partenza vera e propria del progetto. Avete voluto aspettare questo primo bilancio prima di presentarlo alla città di Bologna?
Sì. Siamo partiti in sordina perché si tratta di un’esperienza nuova a Bologna, e noi per primi volevamo misurarci con l’attuazione del progetto. Vede, nelle varie relazioni che ho svolto quando ero Garante per i diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna avevo messo in evidenza la mancanza di un servizio di accoglienza realmente strutturato in città, che garantisse una progetto completo per ogni persona accolta. La Casa nel Villaggio è proprio questo: ha un solido pensiero dietro e le persone che vengono qui hanno un progetto loro dedicato. Questo ci dà l’opportunità di costruire una buona collaborazione con il magistrato di sorveglianza e di facilitare così i percorsi di reinserimento.
I risultati sono stati decisamente al di sopra delle aspettative. Ora, quindi, vogliamo che la città sappia dell’esistenza di questa realtà che non è una realtà pericolosa, non minaccia la sicurezza della comunità, perché i nostri ospiti sono persone che fuori non hanno intenzione di rimettersi a delinquere, ma vogliono cambiare radicalmente la loro vita.
Scommettere su luoghi di questo genere è anche un elemento di risparmio sociale, perché il carcere effettivamente costa infinitamente di più anche dal punto di vista organizzativo. Le misure alternative sono invece molto meno costose e più sicure di una pena che prevede la detenzione fino all’ultimo giorno. Infatti chi non ha avuto la possibilità di guardare all’esterno per cercarsi un lavoro e trovare altre reti sociali fa molta più fatica a reinserirsi, e può essere più tentato di rincorrere le strategie precedenti che lo hanno portato in carcere.
– Quando sarà pronta la struttura in Corticella, che ne sarà dell’appartamento al quarto piano? Continuerà ad essere impiegato nell’ambito di questo progetto o cambierà destinazione d’uso?
La risposta devono darla i padri dehoniani. Il mio auspicio è che, quando verrà aperta la struttura di Corticella, in tempi non brevissimi che adesso non siamo in grado di definire, questa struttura rimanga comunque a disposizione per l’accoglienza femminile. Penso alla questione delle madri con figli in carcere di cui mi sono occupata moltissimo quando ero Garante perché ad oggi, nonostante i numerosi appelli fatti e anche un importante convegno realizzato dal mio Ufficio del Garante insieme alle istituzioni sulla questione femminile e le madri con bambini in carcere lo scorso anno, non esiste di fatto una possibilità esterna di accoglierle e il carcere di Bologna rimane dunque l’unica sede per madri con bambini per le carceri dell’Emilia-Romagna. Vengono portate qui da tutta la regione perché questa è l’unica città che garantisce il servizio sanitario per 24 ore.
Inizialmente in carcere c’era anche una cosiddetta “sezione nido”, che io ho sempre considerato una cosa inaccettabile; fare una sezione nido in un carcere espone bimbi molto piccoli a eventi traumatici spesso permanenti – si pensi solo ai rumori del carcere! Alcuni neonati e bambini di pochi mesi, che ho seguito, dopo un po’ cominciavano a manifestare segni di agitazione e di pianto inconsolabile, facevano fatica a mangiare e altro ancora. Questi effetti lamentati dalle madri con bambini sono inequivocabilmente derivati dal contesto del carcere e sono segno di profondo disagio ambientale dovuto all’assoluta inadeguatezza del contesto.
– Il suo è davvero un bel desiderio per ipotizzare degli sviluppi futuri del progetto. Buona fortuna per tutto ciò che è e sarà la Casa nel Villaggio!
Grazie, siamo convinti che darà dei buoni frutti. Non c’è soddisfazione più grande per chi si occupa di queste tematiche che vedere le persone trovare un nuovo senso della vita, dei nuovi valori, una nuova opportunità e delle nuove idee per vivere in modo diverso.