L’internazionalismo incompiuto
II nostro tempo vive, in modo infelice, la contraddizione del coesistere di una specie di ecumenismo scientifico-tecnologico con forme brutali di particolarismi di tipo neorazzistico o ideologico-classistico, caratterizzato da manifestazioni di tipo aggressivo, intollerante e talora sfrenatamente egoistico.
I nazionalismi, che sono forme di vita sociale e politica profondamente legate alla vita e alla cultura del popolo raggiungendo anche fasti fortunati nella loro storia.[1] Per superarli occorre non un qualsiasi internazionalismo, ma un internazionalismo davvero compiuto.[2]
Ora dobbiamo constatare che ci troviamo di fronte ad un internazionalismo incompiuto dei popoli del Terzo Mondo: da un colonialismo politico-amministrativo, molto spesso, questi popoli sono passati ad un colonialismo culturale, cioè all’asservimento alle idee, ai gusti e alle scelte di una ristretta élite di burocrati occidentalizzati, di una borghesia sottosviluppata che, se è incapace di rinnovamento, è invece capace di detenere privilegi ereditati dall’età coloniale. Di fronte a tale situazione, molte masse popolari di africani, di arabi e del Sud-Est asiatico, tendono rabbiosamente al recupero di tradizionalismi tribali, cedono alla tentazione di intolleranze razziali o s’affidano al miraggio di ingenue e vanesie illusioni millenaristiche.[3]
Ci si pone, pertanto, di fronte al fallimento di un ben noto tipo d’internazionalismo, per chiederci come promuoverne uno nuovo, meglio motivato, con più sicure probabilità di affermazione. Dinanzi ai nostri anni futuri si pongono la possibilità e il dovere di lavorare per sostituire al mistificato imperialismo culturale post-coloniale, un’autentica solidarietà educativa, sociale, economica, politica. Questo permetterà alle nuove nazioni di ritrovare e coltivare la propria identità culturale-spirituale e di organizzare, in coerenza con la propria genialità storico-temperamentale, la propria vita politica, in ossequio al principio del comune destino dell’umanità.
Pertanto, bisogna muoversi in Occidente verso un internazionalismo etico, religioso e politico, tentando di far esprimere tutta la forza presente nell’ideale dell’humanitas, sotto il cui segno si era inaugurata l’età moderna.
La strada possibile per costruire questo nuovo internazionalismo è quella di una profonda e seria metánoia etico-culturale-religiosa: «Un internazionalismo autentico – cioè dotato anche di vigore politico – può nascere soltanto dal maturarsi degli spiriti al senso dell’universale, che implica in sé la convinzione dell’indissociabilità dei destini individuali e nazionali da quello comune per tutta l’umanità. La nostra epoca è forse chiamata, dalle ineludibili necessità della storia, a generare questo inaudito miracolo che è la coincidenza dell’universale politico con l’universale morale e religioso».[4]
Verso una società interculturale
Il discorso sulla convivenza dei popoli è astratto se non si coniuga politicamente, se non viene assunto, ad esempio, come concreto progetto da parte degli organismi internazionali: «Le istituzioni internazionali sono chiamate a svolgere un ruolo di mediazione tra le culture e i sistemi socio-politici diversi, per favorire lo sviluppo di atteggiamenti di integrazione solidale».[5]
Ma qual è la politica della convivenza dei popoli? Non è facile rispondere a tale domanda, poiché molte sono le dimensioni che compongono una simile politica. Qui è appena il caso di fare un rapido cenno ad alcuni principi di fondo che dovrebbero reggere e ispirare una tale politica, il primo dei quali è il rispetto delle differenze culturali dei popoli.[6]
La preparazione di una cultura planetaria passa attraverso le nostre comunità nazionali, ormai chiamate a superare in ogni modo i limiti del localismo, per adottare stili di vita sempre più transnazionali.[7] Per noi italiani, ormai, si dà l’opportunità storica, che non è esente da rischi e pericoli, di esperimentare nel nostro territorio nazionale la mondialità. Siamo agli inizi di un mescolamento della nostra con altre razze: un mescolamento culturale,[8] spirituale e anche di sangue.
Questo nuovo fenomeno va affrontato a tanti livelli, non ultimo al livello politico e giuridico. È un fenomeno che porta a ridefinire la consistenza del nostro bene comune: «Il bene comune domanda anche – scrivono i vescovi italiani – che si mettano in atto iniziative orientate ad affrontare i problemi posti dalla società interculturale, verso cui il nostro Paese si sta ormai avviando. In primo luogo bisogna richiamare la responsabilità dei luoghi e delle forze educative, che devono proporre e aiutare la comprensione delle differenze, passando dalla “cultura dell’indifferenza” alla “cultura della differenza” e, da questa, alla “convivialità delle differenze”, senza per questo sfociare in forme di eclettismo nei riguardi della verità o di indifferenza di fronte ai valori della vita».[9]
Per una politica della convivenza fra i popoli
S’avverte oggi sempre di più la necessità di creare una comunità politica mondiale, mentre si sente, ad un tempo, il desiderio di essa. Non sembra verosimile, infatti, che gli uomini decidano di stare insieme solo perché spinti, come nel convincimento hobbesiano, dalla ragione della paura e della necessità. È pensabile invece, nella linea della filosofia politica maritainiana, che si possa e si debba attivare anche una ragione della speranza e del desiderio, quando gli uomini vogliono vivere insieme in una comunità mondiale: hanno la volontà di assolvere un compito comune. Ma quali sono gli obiettivi e le metodologie di una politica planetaria? Proviamo a schizzare qualche punto che sembra particolarmente importante.
1) Due regole di politica planetaria. Un progetto politico che voglia promuovere la convivenza dei popoli e inaugurare una comunità mondiale conviviale rispetta e applica le regole della solidarietà e dell’interdipendenza.[10] Queste due parole sono state la trama del magistero sociale di Giovanni Paolo II,[11] che coniuga, ormai abitualmente, anche in senso mondialistico: «Al di là dei vincoli umani e naturali, già così forti e stretti, si prospetta alla luce della fede un nuovo modello di unità del genere umano, il quale deve ispirarsi, in ultima istanza, alla solidarietà».[12] Il papa ricorda che esiste un «bene comune universale»[13] e afferma che «l’interdipendenza esige di per sé il superamento della politica dei blocchi, la rinuncia a ogni forma di imperialismo economico, militare o politico, e la trasformazione della reciproca diffidenza in collaborazione».[14]
Il papa ha immesso nella circolazione idee che fermentano la cultura della convivenza dei popoli, il convincimento del carattere etico dell’interdipendenza dei popoli. In altri termini, si manca alla moralità se non si pratica ciò che esige l’interdipendenza dei popoli: assumendo l’interdipendenza come categoria morale, si fa perciò corrispondere ad essa la virtù della solidarietà universale.[15]
2) Un’autorità per la comunità mondiale. La convivenza dei popoli pretende l’esistenza di un’efficace autorità politica internazionale che la difenda da pericoli disgregatori e ne promuova una unità sempre più forte.[16]
L’organismo internazionale più grande che l’umanità sia stata in grado di esprimere fino ad oggi l’ONU. È un organismo importantissimo, ma che tutti ritengono troppo debole, spesso soltanto simbolico.[17] Occorre «andare oltre l’ONU». Taluno avanza l’idea di fare una ONU più allargata: «una ONU non più solo degli Stati e delle Nazioni, ma una ONU dei popoli, delle minoranze e dei movimenti democratici di base, in cui tutti i soggetti di cambiamento abbiano udienza, possano portare le loro proposte, possano far sentire la loro voce a tutta l’umanità».[18] Ma quale deve essere – si chiede P. Prini – la «filosofia delle Nazioni Unite»?[19]
Per stabilire le condizioni sotto le quali possa essere affermato l’uguale diritto di convivenza e di dialogo di tutte le Nazioni e di tutti i sistemi di valori, P. Prini, alla fine di un serrato esame di altre proposte, fa la sua proposta: quella della «compossibilità delle prospettive», secondo cui la verità di ogni ideologia consiste nell’integrabilità con tutte le altre: «La compossibilità delle prospettive è, a mio avviso, il criterio, non moralistico ma logico, della coesistenza e della collaborazione fra i gruppi o le classi all’interno dello stato e fra gli stati all’interno delle grandi differenze razziali, religiose e culturali. Abbandonare ogni pretesa di falsa universalità […] e aprirsi al riconoscimento e al rispetto delle ideologie e dei sistemi assiologici degli altri, è l’unica forma autentica, cioè critica e dialogica, della comunità internazionale».[20]
3) Praticare la mondialità nel “cortile di casa”. Siamo nella possibilità e nell’urgenza di essere mondiali nel nostro cortile di casa. I terzomondiali, infatti, sono fra noi; nel nostro territorio nazionale si sta componendo una società multirazziale, pluriforme e pluriculturale. La pressione migratoria dall’Est europeo è già forte; ad essa si aggiunge l’altra spinta migratoria, quella proveniente dal Sud.[21] Le difficoltà d’accoglienza sono molteplici e di diversa natura; certamente viene avanzata una provocazione alla nostra speranza. Ma come organizzare la speranza su questo fenomeno nuovo e difficile? Si richiede per il cristiano e per le comunità ecclesiali uno stile di vita dalla solidarietà lungimirante e di vaste vedute.
a) Saper utilizzare una risorsa. L’immigrazione – a ben vederla – è una chance, soprattutto tenendo conto della situazione d’invecchiamento della popolazione italiana: anche gli operatori economici se ne stanno accorgendo.[22]
b) Riscoprire la virtù dell’accoglienza. Il problema degli immigrati sollecita le comunità cristiane a riscoprire la virtù dell’accoglienza: «La responsabilità di offrire accoglienza, solidarietà e assistenza ai rifugiati è innanzi tutto della Chiesa locale». E7 ancora: «II primo luogo d’attenzione ecclesiale ai rifugiati resta la comunità parrocchiale».[23]
c) Adottare le «forme lunghe della solidarietà». L’esercizio della solidarietà deve assumere i tempi e le misure delle emergenze che stiamo vivendo: «Oggi è ancor più necessario di un tempo un profondo senso di solidarietà, che abbracci tanto le forme “corte” di solidarietà, come quelle incentrate sui legami familiari e sui rapporti privati, quanto quelle “lunghe”, che fanno riferimento a realtà vaste e complesse, e perciò esigono interventi di lungo periodo con un’attenta valutazione dei bisogni e delle risorse disponibili».[24]
d) Promuovere una cultura della pace. Nulla come una cultura di pace può contribuire, da subito e nel proprio spazio di vita, a preparare una cultura della convivenza dei popoli. Nello spirito delle grandi “carte” magisteriali – Pacem in terris di Giovanni XXIII e lo sviluppato insegnamento sul tema di Paolo vi e di Giovanni Paolo II –, i cristiani, agendo in un forte contatto interreligioso, debbono mostrare audacia nel sostenere la profezia della pace, quale bene indivisibile e permanente dell’intera famiglia dei popo[25]
e) Prendere la difesa dei popoli “ultimi”. Una carità politica speciale e di vaste dimensioni si richiede dai cristiani e dalle Chiese: che sappiano difendere i popoli e i gruppi etnici in difficoltà, che sappiano accorgersi dei «popoli che muoiono» e che sappiano intervenire per fermare etnocidi spaventosi in corso: pensiamo al popolo palestinese, al popolo libanese, al popolo kurdo, agli Indios Yanomani, agli Osseti, ai Tuareg, ai Masai, ai Boscimani ecc. È scandaloso mostrare più attenzione e maggiore premura per l’orsetto panda, la foca monaca e l’aquila reale e meno per i gruppi etnici a rischio![26]
f) Diventare europei. Ci è chiesto di diventare In particolare, siamo tenuti a lasciarci guidare dal ricchissimo magistero di Giovanni Paolo II sul problema-Europa che insegna come costruire e come abitare la «casa comune d’Europa».[27] Occorre che fra tutte le Chiese s’avverta in piena evidenza la sororità di grazia che le lega, anche se non sono chiamate a formare una super-Chiesa; occorre che i cristiani imparino la convivenza ecumenica e interreligiosa e si facciano carico delle croci più numerose e più pesanti che pesano ormai sulle loro spalle; occorre, infine, che i cristiani e le Chiese sappiano aprire il cuore ad una gioia più grande, sapendo aprire prima gli occhi di fronte ai doni più preziosi che sono nelle loro case e nei loro templi: le diverse tradizioni culturali e religiose!
g) Accompagnare la natura alla salvezza. Nel convincimento di fede che la natura è creatura di Dio e che essa, in modo misterioso, è implicata nella storia della salvezza, il cristiano, nello spirito di Seul e di Basilea,[28] s’assume l’incarico di partecipare alla grande causa della salvaguardia della natura, la sorella minore che Dio ha affidato alle mani e alla guida cosciente dell’uomo per condurla a realizzare il fine assegnatole con l’atto creatore e provvidente.
[1] Cf. J. Breuilly, Il nazionalismo e lo Stato, Bologna 1995; K. Ohmae, La fine dello Stato-nazione, Milano 1996; E. Gellner, Nazioni e nazionalismi, Roma 19973; B. Anderson, Comunità immaginate: origine e fortuna di nazionalismi, Roma 2000. Cf. anche i due volumi di A.D. Smith: Cultura globale: nazionalismo, globalizzazione e modernità, Roma 1996; Nazioni e nazionalismi nell’era globale, Trieste 2000.
[2] Cf. A.B. Bozeman, L’espansione della società internazionale, Milano 1994.
[3] Cf. P. Prini, Cristianesimo e ideologia, Fossano (CN) 1974, 78-79.83.
[4] P. Prini, Cristianesimo e ideologia, p. 86.
[5] Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti – Pontificio consiglio «Cor unum», I rifugiati, una sfida alla solidarietà (1992), n. 24.
[6] II rispetto della diversità delle culture è il prerequisito necessario per costruire una cultura per la convivenza dei popoli: cf. G. Gliozzi, La scoperta dei selvaggi, Milano 1980; R. Gritti (a cura), L’immagine degli altri, Firenze 1985; R. Lewontin, La diversità umana, Bologna 1987; J. Baudrillard, L’altro visto da sé, Genova 1988; E. Bastide, Noi e gli altri, Milano 1990.
[7] Cf. A. Nanni, Transnazionalità. Nuovo paradigma, in «Quaderni di azione sociale», n. 69 (1989) 93-104; P. Ferrara, La pace transnazionale. Per un nuovo pluralismo nella politica mondiale, Roma 1989.
[8] Favorendo incontri e scambi culturali fra giovani di diverse nazionalità si può concretamente dare un grande contributo allo sviluppo dell’intercultura: cf. R. Schekley, Scambio mentale, Milano 1983; D. Demetrio (a cura), Immigrazione straniera e interventi formativi, Milano 1984; Aa.Vv., Intercultura tra pedagogia e politica, Verona 1987; Av.Vv., Lontano da dove. Lα nuova immigrazione e le sue culture, Milano 1990; Aa.Vv., Incontrarsi in Europa. Educazione interculturale e scambi giovanili, a cura di F. Frabboni, Milano 1991.
[9] CEI (Commissione ecclesiale “Iustitia et pax” ), Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, 4.10.1991, n. 13.
[10] Cf. Aa.Vv., Aspetti e problemi del nuovo ordine economico internazionale, Padova 1987; Rapporto Brundtland, Il futuro di noi tutti, Milano 1988; G. Calchi Novati, Nord Sud: un solo futuro, Fiesole 1989; A. Papisca – M. Mascia, Le relazioni internazionali nell’età dell’interdipendenza e dei diritti umani, Padova 1991.
[11] Con insistenza papa Wojtyla torna a illustrare la potenza innovatrice di questi due principi di dottrina sociale della Chiesa, fino alla sua ultima enciclica sociale: cf. Centesimus annus (11.5.1991), n. 33.
[12] Giovanni Paolo II, lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30.12.1987), n. 40.
[13] Giovanni Paolo II, lett. enc. Sollicitudo rei socialis, n. 36.
[14] Giovanni Paolo II, lett. enc. Sollicitudo rei socialis, n. 39.
[15] Sulla reazione dell’opinione pubblica all’insistenza di papa Wojtyla sul tema dell’interdipendenza, cf. A. Nanni, L’interdipendenza globale, in «Mondialità», 22 (1991) 19-22.
[16] Cf. A. Papisca Democrazia internazionale, via di pace, Milano 1988; id., Democrazia e convivialità planetaria, in Aa.Vv., Convivialità: un futuro per l’educazione, Padova 1989, pp. 18-25; A. Spinelli, La crisi degli Stati nazionali, Bologna 1991.
[17] Cf. Aa.Vv., Un pianeta senza governo. Crisi e futuro del sistema delle Nazioni Unite, Roma 1988.
[18] A. Nanni, Convivialità delle differenze, in «Mondialità», 23 (1992) 20.
[19] P. Prini, Cristianesimo e ideologia, pp. 87-93.
[20] P. Prini, Cristianesimo e ideologia, p. 93.
[21] Per una buona conoscenza del problema, cf. Aa.Vv., Italia, Europa e nuove immigrazioni, [Studio della Fondazione Agnelli], Torino 1990; Aa.Vv., Abitare il pianeta. Futuro demografico, immigrazioni e tensioni etniche, [Studio della Fondazione Agnelli], Torino 1989; Aa.Vv., Immigrati non cittadini?, Milano 1990.
[22] Cf. A. Riccardi, Da una società omogenea a una società pluriforme: la Chiesa di fronte al problema degli immigrati, in Comunità di Sant’Egidio, Stranieri nostri fratelli. Verso una società multirazziale, Brescia 1989, pp. 90 ss.
[23] Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti – Pontificio consiglio “Cor unum”, I rifugiati, una sfida alla solidarietà, nn. 26.27.
[24] CEI (Commissione ecclesiale «Giustizia e pace»), nota past. Educare alla legalità. Per una cultura della legalità nel nostro Paese, n. 11.
[25] Cf. Aa.Vv., Religioni in dialogo per la pace, Brescia 1991.
[26] Si va sviluppando,comunque, un grande interesse per questo spinosissimo problema. Nel dicembre del 1989 si sono riuniti a Bolzano i rappresentanti di 500 etnie. Esiste una «Lega per i diritti dei popoli minacciati». Esiste un «Consiglio mondiale delle popolazioni indigene». Esiste il «Tribunale permanente dei popoli», che ha raccolto l’eredità del «Tribunale Russel». Per saperne di più, cf. A. Nanni, Popoli senza futuro?, in «Mondialità», 22 (1991) 9-10 (con Scheda bibliografica).
[27] Cf. Giovanni Paolo II, Europa. Un magistero tra storia e profezia, a cura di M. Spezzibottiani, Casale Monferrato (AL) 1991.
[28] Cf. Documento di Basilea, Giustizia e pace, Bologna 1989.