La questione migratoria, quale aspetto non secondario del travaglio politico e sociale dell’Europa, è all’attenzione della Comece non da ora, toccando essa una dimensione umanitaria di prima e drammatica grandezza e un punto caldo della sensibilità ecclesiale.
Al riguardo, si è svolto di recente un incontro-dibattito con il politologo bulgaro Ivan Krastev che si segnala per l’approfondimento originale offerto sul fenomeno e, in generale, sulla situazione europea.[1] Egli considera il fenomeno migratorio la crisi più importante del momento, insieme alla crisi dell’Eurozona, a quella russo-ucraina e alla Brexit. Egli arriva a definire le migrazioni contemporanee come la rivoluzione del 21° secolo. Esse stanno producendo anche il più grande cambiamento politico, poiché non sono solo un movimento di rifugiati, bensì anche di elettori, di argomenti, di identità.
La possibilità di attraversare i confini si è rivelata come, insieme, la cosa migliore – per le opportunità nuove che apre – e la peggiore – per le minacce che fa temere –, e ha fatto capire agli stessi europei l’attrattività dei loro paesi e le sue implicazioni per quelli che ad essi guardano per raggiungerli.
In un mondo strettamente interconnesso, le folle dei paesi poveri capiscono che cambiare paese è meglio, e più facile, che cambiare il governo e, in generale, la situazione interna del proprio paese. Anche per i paesi dell’est d’Europa – e non solo per essi – questo si è verificato, con l’effetto – nell’intreccio tra emigrazione e immigrazione – di far percepire le migrazioni come un pericolo per la nazione, per la sua integrità e la sua stessa persistenza.
In alcuni paesi comincia a diventare pensabile che la nazione possa morire.
Questo spiega il sorgere del panico e dell’intolleranza, che sfuggono ad argomentazioni razionali (e non possono essere affrontati con motivazioni ideologiche o anche con ragioni di tipo moralistico).
Non è, innanzitutto, questione di grandezze numeriche, che possono venire immaginariamente esagerate anche quando esse di fatto si riducono, e non è questione di appartenenza politica, all’uno o all’altro schieramento; si tratta piuttosto di demografia.
Non servono a questo scopo ideologie universaliste, ma la capacità di far capire e sperimentare che una prospettiva di politica comune tra diversi paesi non è contro, non è un pericolo per le singole nazioni.
Si tratta di affrontare efficacemente e superare il panico demografico, la paura irrazionale della perdita collettiva di identità e di integrità.
Nondimeno, l’esito della crisi non è prederminato e i fenomeni non hanno una sola faccia. Ci sono aspetti positivi che non bisogna trascurare pure nella fase travagliata che si sta attraversando.
Per esempio: uno degli effetti della Brexit è che ha portato non pochi a rendersi conto che uscire dall’Europa può non essere l’idea migliore; o anche una considerazione degli sviluppi politici che toccano gli Stati Uniti mostra come solo le grandi aggregazioni riescono a sopravvivere nel mondo di oggi.
Anche la crisi russo-ucraina fa constatare che la spinta di una massa enorme di migranti ucraini in Polonia li ha trasformati in un importante motore di sviluppo economico.
Ma è soprattutto il fatto che si cerchi di conoscere e di capire gli altri, di conoscersi e di capirsi tra paesi europei diversi, o semplicemente tra cittadini di paesi diversi, a offrire una prospettiva concreta seppure in larga misura imponderabile.
È in corso un processo di rimescolamento e una crescita di interesse condiviso al cammino comune. Interessarsi gli uni agli altri può essere una via capace di aprire prospettive.
In fondo, è ciò che di meglio anche come credenti possiamo in concreto auspicare e favorire, in un processo di apertura e di accoglienza che vinca il panico demografico e crei una nuova coesione tra diversi che non hanno per questo rinunciato alla propria identità e alla propria storia.
È ciò che ricordava il papa, nel suo discorso al convegno Rethinking Europe promosso dalla Comece e dalla Santa Sede, il 28 ottobre scorso: «Oggi tutta l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, dal Polo Nord al Mare Mediterraneo, non può permettersi di mancare l’opportunità di essere anzitutto un luogo di dialogo, sincero e costruttivo allo stesso tempo, in cui tutti i protagonisti hanno pari dignità. Siamo chiamati a edificare un’Europa nella quale ci si possa incontrare e confrontare a tutti i livelli».
[1] Si veda soprattutto I. Krastev, After Europe, University of Pennsylvania Press 2017.