L’Associazione teologica italiana (ATI), dal 2 al 6 settembre, nel suo congresso nazionale ad Enna, si è lasciata interpellare da un interrogativo cruciale nel cambiamento d’epoca in corso: «Ripensare l’umano?». Le neuroscienze (Carlo Arrigo Umiltà), i new-media (Fausto Colombo), come pure l’economia (Mario Deaglio) con il suo impietoso impatto ecologico, sono state vere e proprie provocazioni lanciate a qualificati teologi e teologhe invitati a interagire secondo conformi specializzazioni.
L’interrogativo antropologico si è così da subito declinato secondo due differenti prospettive: nel tempo egemonico della tecnica e dell’economia, caratterizzato da nuovi approcci al reale, la teologia è tenuta a ripensare l’umano? Oppure, sono i molteplici approcci delle neuroscienze, delle scienze della comunicazione e dell’economia a dover ripensare il modo di articolare la propria peculiare riflessione con conseguenze per l’etica e la prassi?
La parola-chiave che ha caratterizzato i molteplici interventi è stata «metamorfosi». Non certo nella classica accezione kafkiana di una estraneità fra conoscenza e soggetto che tutto sembra fagocitare, bensì in quella particolare tonalità che tale termine assume alla luce dell’evento pasquale.
Provocate dal kairòs presente, le discipline teologiche sono state invitate sempre più e correlativamente a orientarsi verso una dialogica presa in carico degli interrogativi e dei contenuti che i vari saperi e i vari soggetti offrono alla riflessione. Se, dunque, di metamorfosi si può parlare, è nei termini di un allargamento dell’angolo di visuale epistemologico e di una metodologia inter- e trans-disciplinare in cui le scienze possono ritrovarsi in contatto tra loro tutelando l’umano stesso che le esercita.
Come ha ricordato Philippe Bordeyne dell’Institut Catholique di Parigi, la rivoluzione digitale ha profondamente modificato la nostra relazione con il mondo e con l’altro, come anche la percezione della nostra identità. Lo sviluppo delle scienze e delle tecnologie ha provocato una metamorfosi che tuttavia, proprio per la sua specificità, pone la questione dei limiti e della differenza dell’umano e la necessità di una riflessione comune e interagente.
Cosa c’è dopo la modernità?
La nostra epoca è l’epoca dei post – ha ribadito Luigi Alici aprendo la prima sessione del congresso –, secondo un’interminabile sequenza di aggettivi sostantivati (post-democrazia, post-verità, post-moderno, post-umano…). Dal momento che essi sembrano sottolineare lo sbiadirsi dei punti di riferimento e la difficoltà di descrivere con puntualità linee di tendenza univoche, in particolare per ciò che riguarda la questione antropologica, “cosa/chi” dunque c’è “dopo”?
All’interno della naturale inquietudine per il superamento di un’epoca, Alici ha posto in evidenza una doppia tendenza di fondo:
1) la prima tendenza propende a ignorare l’eredità di una storia che ci precede, quella della modernità, ridotta a contrapposizione tra illuminismo e romanticismo, individualismo e collettivismo, perdendo di vista il surplus di senso che meriterebbe di essere riconosciuto e con cui è necessario confrontarsi per dare all’oggi un’«elasticità» e una prospettiva ulteriore;
2) la seconda tendenza è piuttosto «regressiva». Essa è presentata spesso come emancipazione e tende a spostare il baricentro antropologico verso l’infraumano. Il risultato è un riduzionismo scientistico ottenuto dalla banale commistione fra teoria e prassi, tra pensiero antimetafisico e uso dispotico della tecnica.
In questa duplice tendenza alcune misure di grandezza si profilano necessarie per il recupero della questione intorno all’uomo e la donna in termini di «generatività». Che cosa è, dunque, propriamente umano? Quando l’individuo è autenticamente umano? È forse nella sua maniera di abitare il mondo e la storia, di comunicare e di interagire mediante la tecnica, che possiamo cogliere una sua specificità?
Quale modo autenticamente umano di abitare il mondo?
Punti di riferimento in questo quadro descrittivo sembrano essere, in particolare, da un lato, la messa a fuoco della fragilità e della vulnerabilità come elementi caratterizzanti l’umano; dall’altro, la dimensione di una relazionalità più ampia in cui è possibile ripensare il peculiare posto della persona nella storia e nel mondo.
La priorità ontologica dell’alterità, come evidenziata con perizia da Christoph Theobald, è diventata ormai una questione dirimente in antropologia. Solo a partire da questa presa d’atto è possibile designare un paradigma dell’ospitalità dell’esistenza, in cui la tecnica sia al servizio dell’umano e non viceversa.
I limiti della globalizzazione e il rischio della manipolazione nell’interpretazione del reale per fini meramente mercantili, che svuotano di senso i vissuti, richiedono di passare – è stato detto – da un approccio prometeico alla realtà a un approccio epimeteico, ovvero all’affinamento della capacità di accettare il limite umano secondo l’ottica della cura (Marianna Gensabella Furnari), escludendo categoricamente altri fini. Solo in questo modo, nel riconoscimento del suo limite, l’umano può aprirsi generativamente all’oltre e trovare un nuovo baricentro nella relazione con sé, con l’altro e con il mondo.
Il recupero della profondità della storia
La teologia si trova così di fronte alla sfida decisiva di tematizzare nella post-modernità l’avvento di Dio nel concreto della storia e della corporeità. Questo accade all’interno di una molteplicità di tensioni a cui la condizione umana è ordinariamente sottoposta.
In questo orizzonte occorre rinvenire nell’amore agapico l’agente di ogni trascendenza possibile, il principio divino che umanizza la condizione terrena attraverso un agire responsivo e responsabile, mosso nell’intimo dalla grazia.
Si intravvede all’orizzonte un umanesimo ri-generato dalla fede in Dio Uno e Trino. Infatti, se l’economia e la tecnica talvolta permeate da un’intenzionalità eterodiretta secondo fini utilitaristici e di consumo, non fanno altro che imprigionare ogni autentica possibilità di trascendenza – che pure in potenza viene a darsi in quel nuovo che la tecnica stessa può positivamente portare –, è evidente che il congresso dell’ATI ha inteso unicamente aprire un cantiere per il sapere teologico, invitando a percorrere sentieri dialogici promettenti, a favore di un vero sviluppo umano integrale.
Il confronto decisivo appare, quindi, collocarsi decisamente sul versante “ontologico”, su quell’orizzonte comune che permetta alle scienze e al sapere filosofico e teologico di interagire proficuamente. Non è forse questa l’esigenza implicitamente espressa nel disagio avvertito in queste occasioni di confronto con la molteplicità del reale, contro ogni dispersione, e con la sua unitarietà, contro ogni uniformità livellante? Come altro si potrebbe, infatti, salvaguardare la profondità e lo spessore del reale?
Presso l’antico e sempre nuovo cantiere della fede (cf. Mt 13,52), la teologia ha molto da offrire a partire dal nucleo trinitario della Rivelazione cristologica in cui – come già osservava Joseph Ratzinger nel suo programmatico Introduzione al cristianesimo – è custodita una vera rivoluzione della visione del quadro del mondo.
In questo modo si manifesta con maggiore vigore quell’eccedenza di senso che si dischiude nella relazione tra l’uomo, la donna e il mondo in Dio; eccedenza che si offre in quello scarto incolmabile che nel tempo conduce l’uomo a confrontarsi con la sua storia e a prendere coscienza di una eccezionalità che non sta tanto in un dato, quanto in un compito che lo interpella con la qualitativa evidenza dell’ulteriorità a cui rimanda.