A conclusione della Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici di Glasgow – COP26 – abbiamo posto al professor Gianfranco Pacchioni domande di chiarimento e di valutazione degli esiti. Gianfranco Pacchioni è docente di Chimica dei Materiali all’Università di Milano Bicocca ed è autore di volumi a carattere scientifico-divulgativo sui complessi temi ambientali.
- Professore, COP26 ha ribadito l’obiettivo dell’incremento massimo di temperatura del pianeta in 1,5°C rispetto ai tempi preindustriali, riducendo del 45% le emissioni di biossido di carbonio entro il 2030 rispetto al 2010. Quanto sono attendibili questi calcoli?
Come in tutti gli studi di carattere previsionale della scienza contemporanea, ci si avvale di modelli matematici complessi, sviluppati da esperti in anni e anni di lavoro e in continuo aggiornamento. Quanto più i dati immessi nel modello matematico sono abbondanti e precisi, tanto più le previsioni sono attendibili.
È tuttavia evidente che sussistono margini di incertezza in ogni previsione, specie se questa è proiettata – come nel caso dell’incremento di temperatura – sui decenni a venire. Il risultato del calcolo di tale incremento nella misura di 1,5 °C – obiettivo appunto ribadito da COP26 – in ragione della concentrazione di biossido di carbonio – CO2 – e di altri “gas serra” presenti in atmosfera nei prossimi decenni – oltre che di altri molteplici “elementi” – è un risultato-media che di per sé potrebbe oscillare da un estremo minimo pari a + 0,5 ad un estremo massimo pari + 2,5 °C: + 1,5 °C è il dato più probabile. Possiamo dire dunque che il risultato di questi calcoli è attendibile, entro un certo margine di confidenza.
- Quali altri elementi entrano in un calcolo così complesso?
Oltre alla concentrazione della CO2 e di altri gas presenti nell’aria atmosferica alle diverse latitudini, nei modelli matematici di cui ho fatto cenno – pur essendo io un chimico e non un esperto della specifica materia – entrano, per fare un solo esempio comprensibile a tutti, i dati relativi alla capacità delle biomasse marine e terrestri di assorbire la CO2 attraverso i processi naturali di fotosintesi.
I software odierni di calcolo sono estremamente complessi ed elaborati: sono in grado di comprendere moltissimi elementi, peraltro variabili nel tempo.
Obbiettivi alti e realismo
- Siamo comunque sicuri che a maggiori concentrazioni di CO2 in atmosfera – determinate dalle emissioni delle attività umane – corrisponde un incremento delle temperature sulla terra?
Questo è al di là di ogni discussione! Ci sono da anni prove scientificamente indiscutibili della correlazione tra concentrazione di CO2 e incremento delle temperature. Ormai il problema è emerso nella sua drammaticità. COP26 – con tutte le precedenti Conferenze mondiali – è la conferma della seria presa d’atto mondiale del problema. Si sarebbero altrimenti messi insieme circa 200 Paesi del mondo per trattarne?
- Professore, facciamo una ipotesi: se oggi cessassero di colpo le attività umane che producono CO2, che cosa accadrebbe? Si arresterebbe di colpo l’incremento globale di temperatura?
Dobbiamo sapere che un terzo della CO2 che l’umanità ha emesso nel corso di questo anno, sarà ancora in atmosfera tra cento anni e che un quinto della stessa sarà ancora in atmosfera tra mille anni. CO2 significa una molecola stabilissima, a differenza di un altro gas serra come il metano CH4. Voglio quindi dire che la quantità di CO2 emessa “in eccesso” – in eccesso rispetto alla capacità di assorbimento naturale – resta a lungo in atmosfera e perciò si accumula, aumentandone la concentrazione.
Questo spiega perché, pur con tutti gli sforzi che l’umanità potrà e dovrà fare, effetti immediati non si potranno ottenere. Dobbiamo puntare a obiettivi molto alti, ma dobbiamo essere, nello stesso tempo, realisti.
- Quali sono le attività umane principalmente responsabili della presenza di CO2 in atmosfera?
La quantità più rilevante di CO2 emessa deriva dalla produzione mondiale di energia: l’energia elettrica che viene normalmente utilizzata nelle tantissime attività umane, l’energia per produrre calore per il riscaldamento, l’energia per far circolare i trasporti tutti compresi, auto, aerei, navi, treni ecc. Quindi, elettricità, calore e trasporti determinano insieme il 73% delle attuali emissioni di CO2, quasi i tre quarti del totale.
Il secondo importante ambito di attività è l’attività di agricoltura e di allevamento, a cui è attribuibile il 18% delle emissioni: quasi un quinto. Attenzione: il dato è comprensivo sia dell’effetto diretto delle attività di coltura e di allevamento, sia dell’effetto del consumo di suolo e quindi della sottrazione di biomassa utile all’assorbimento di CO2: l’effetto della deforestazione del pianeta entra in questo dato. Mentre i processi industriali in quanto tali attualmente apportano il 5% delle emissioni totali di CO2.
- Nella COP26 si è acceso un confronto tra gli Stati circa le rispettive – attuali – emissioni. È possibile fare, prima di arrivare all’oggi, un raffronto storico?
Certamente. Possediamo i dati globali delle emissioni di CO2 dall’epoca preindustriale. Ebbene Stati Uniti ed Europa insieme, dall’Ottocento ad oggi, risultano responsabili del 47% delle emissioni totali di CO2: gli Stati Uniti col 25%, l’Europa col 22%. La Cina – di cui tra poco meglio dirò in riferimento ovviamente all’oggi – vale sul dato storico delle emissioni per il 12,7%; l’India per il 3%; tutta l’Africa per un altro 3%.
Mi sembra importante conoscere questi dati per comprendere il tenore del dibattito che si è sviluppato nella COP26 tra i Paesi partecipanti. Dobbiamo capire che Stati Uniti ed Europa – che attualmente incidono molto meno in fatto di emissioni – stanno chiedendo a Paesi e ad economie oggi sempre più importanti nel mondo di fare a meno di quei combustibili fossili in cui Stati Uniti ed Europa hanno radicato il loro sviluppo. Ciò significa chiedere a quei Paesi di saltare un pezzo della storia economica che noi abbiamo percorso in vantaggio di tempo. È chiaro che qui vanno in discussione interessi rilevantissimi, con i tenori di vita delle genti di ciascun Paese. Da ciò l’istanza della solidarietà e dell’aiuto reciproco tra gli Stati quali condizioni di possibilità imprescindibili per affrontare problemi così grandi, enormi.
- Il raffronto attuale tra Paesi produttori di CO2 – dunque – qual è?
Ho qualche dato assoluto, per dare un’idea. L’Asia – come Continente – con Cina, India, Giappone… ha prodotto, nel 2020, 17 giga tonnellate di CO2. Pensiamo che nel 1965 il dato assoluto attribuibile al Continente asiatico era di 1,4 giga tonnellate: oggi sono più di dieci volte tanto. Il Nord America, nel 2020, ha prodotto 6 giga tonnellate di CO2; l’Europa 4 giga tonnellate.
Quindi gli Stati Uniti stanno producendo oggi – in termini assoluti – molto meno CO2 rispetto all’Asia. Attenzione però: se andiamo a vedere la produzione pro-capite, ossia la produzione di CO2 attribuibile a ciascun abitante in ciascuno di questi Paesi, il raffronto mette ancora i Paesi occidentali – compreso il nostro – ai primi posti della classifica.
Combustibili fossili
- Uno dei temi su cui si è maggiormente discusso nella COP26 è l’impiego del carbone, per promuoverne una decisa riduzione di impiego. Perché?
Ogni chimico sa che la combustione di una “mole” di carbonio produce la stessa quantità di energia e di CO2, sia che provenga dal carbone o che sia contenuto nel gas metano. Il problema è di efficienza degli impianti che impiegano il carbone – ad esempio la lignite – piuttosto che il gas metano: l’efficienza degli impianti a carbone è del 35%, quella del gas metano del 60%.
Questo vuol dire che per ogni chilowattora di energia dal carbone si devono emettere 1,2 chilogrammi di CO2, mentre per generare lo stesso Kwh col gas metano si emettono 0,33 Kg di CO2. È chiaro che i Paesi che dispongono di giacimenti di carbone in abbondanza e a costi contenuti non vogliono in questo momento rinunciarvi.
- Quali condizioni di possibilità dovranno determinare il superamento dell’impiego dei combustibili fossili?
Fare assolutamente a meno dei combustibili fossili non sarà per nulla facile. Dobbiamo prendere atto che, a tutt’oggi, non abbiamo nulla di potenzialità equivalente ai combustibili fossili, ossia non abbiamo nulla che abbia la stessa concentrazione di energia per unità di volume. Detto in altri termini, i combustibili fossili – pur sempre un gran dono della natura – ci offrono una impareggiabile quantità di energia per unità di volume: esempio ne sia che con un pieno di benzina possiamo fare sino 400-500 chilometri di strada con la nostra macchina.
Certamente dobbiamo cercare di sostituire la benzina – pensando alle auto – con l’energia elettrica e/o con l’idrogeno. Già ci si sta muovendo in quella direzione. Ma – ripeto – non sarà per nulla facile, tanto meno immediato, fare a meno dei combustibili fossili.
Le previsioni che possediamo oggi rispetto al 2040 ci dicono che assisteremo ancora ad un incremento del consumo di gas naturale così come di altri prodotti petroliferi, sia pure in maniera contenuta; solo del consumo di carbone è prevista la diminuzione. Nel mentre aumenterà in maniera assai significativa – ne siamo certi – l’energia prodotta da fonti rinnovabili. Ma pensare di azzerare il consumo dei fossili da ora al 2050 è un obiettivo molto, molto difficile da raggiungere. Dobbiamo darcelo. È giusto darcelo, ma non sarà per niente facile raggiungerlo.
- Potranno darsi – nel mentre – importanti sviluppi della ricerca scientifica e tecnologica sulle fonti alternative, specie se questa verrà adeguatamente finanziata?
Io sono un fautore della ricerca. Ma è bene essere realisti. È bene dire subito che non si potrà affrontare e risolvere questo problema con una sola soluzione o scoperta scientifica rivoluzionaria. Mentre è giusto e doveroso dire che potremo affrontarlo con diversi approcci e diverse tecnologie su cui si sta già intensamente lavorando. I risultati dovremo misurarli nell’arco di decenni. Non basterà qualche anno. È bene darsi degli obiettivi ambiziosi, ma questi devono essere concreti, ossia fondati sulle conoscenze e le tecnologie che oggi abbiamo a disposizione.
Non dimentichiamo poi che gli investimenti più importanti sulla transizione energetica sono fatti da compagnie private. In Italia questo vuol dire ENI, ENEL, Edison e, nel mondo, le più grandi e più note compagnie multinazionali. I privati – negli investimenti che fanno – devono trovare sempre margini di profitto e redditività. La velocità della transizione energetica non dipenderà quindi soltanto dai risultati della ricerca, ma anche dalla finanza, dall’economia generale, naturalmente anche dalla politica. Certamente in un mondo diverso e migliore – più giusto e governato più rettamente – sarebbe più facile. Ma questo è. Dobbiamo essere realisti.
Nuove tecnologie
- Quali sono le tecnologie su cui attualmente puntare per la transizione energetica e per iniziare a ridurre il ritmo delle emissioni?
Abbiamo già a disposizione la tecnologia fotovoltaica per catturare direttamente l’energia del sole per farne energia elettrica. Questa ha fatto passi da gigante. Sino a soli dieci anni fa questa tecnologia non era ancora economica, per via del costo dei pannelli solari al silicio: ora i prezzi sono calati e di molto.
Se riuscissimo a realizzare la reazione di fusione nucleare – non di fissione nucleare – questa potrebbe fornire grandi quantità di energia. Da cinquanta anni ci si sta lavorando, ma i risultati sono ancora di molto inferiori alle aspettative. La tecnologia al riguardo è assai complessa. Gli impianti che si prefigurano sono enormi, quanto gli investimenti. I risultati – se arriveranno – arriveranno tra molti anni.
Specie in Italia dobbiamo ora guardare soprattutto alle tecnologie per lo sfruttamento dell’energia del sole, col fotovoltaico, appunto, ma anche all’energia dal vento, con l’eolico. Restano il geotermico e l’idroelettrico che tuttavia sono risorse già piuttosto sfruttate nel nostro Paese.
Dobbiamo poi pensare a importare, anziché combustibili fossili dai Paesi del nord Africa, energia elettrica prodotta da grandi impianti fotovoltaici installati nei deserti e in zone di forte insolazione per lunghi periodi dell’anno in quegli stessi Paesi. Sarà possibile trasportare questa energia con cavi sottomarini. La tecnologia è già sostanzialmente a disposizione. Non è fantascienza.
Ribadisco che non dobbiamo guardare a una sola soluzione. Il Santo Graal dell’energia non c’è e non ci sarà. Dobbiamo guardare a tante soluzioni, messe insieme.
- Visto che ha sfiorato l’argomento, vuole dire qual è la sua personale posizione riguardo al nucleare: potrà facilitare la transizione energetica in Italia o no?
Della fusione nucleare ho detto. Altra cosa è la fissione nucleare, quella di cui si è ritornati a parlare. Io non ho pregiudizi rispetto alla fissione nucleare in sé, ma, per più di una ragione, non la ritengo una strada praticabile e opportuna in Italia. Quale Presidente di regione o Sindaco italiano, con la propria comunità, si direbbe disponibile ad ospitare una centrale a fissione nucleare? Rendiamoci conto poi che si tratterebbe di realizzare progetti di lunghissima durata, con investimenti pesantissimi: per concepirli e portarli a termine – dopo 15 o 20 anni – serve una volontà politica stabile che non è certo una delle caratteristiche della politica italiana. Non possiamo permetterci di buttare via dei soldi.
Ci sono poi obiezioni molto serie. Il territorio italiano è in larga misura a rischio idrogeologico: si tratterebbe, pur con tutta la tecnologia, di correre comunque dei rischi. Non da ultimo resta il problema dei problemi della fissione nucleare: le scorie radioattive. Ricordo che nel nostro Paese non è stata ancora raggiunta una intesa sui siti in cui stoccare le scorie delle quattro centrali che avevano iniziato a funzionare tra gli anni ’60 e ’70, per essere poi dismesse. Non ritengo pertanto il nucleare la strada da percorrere, specie, appunto, in Italia.
- Un altro tema oggi molto in discussione è quello delle auto a propulsione elettrica. COP26 mira alla messa al bando di auto e furgoni a combustione interna entro il 2035.
Per andare nella direzione della sostituzione dei combustibili fossili nelle auto, certamente l’energia elettrica rappresenta già una alternativa, ma solo a patto che questa energia sia prodotta da fonti rinnovabili: se viene ancora prodotta, a monte, da combustibili fossili, siamo, ovviamente, daccapo. L’obiettivo deve essere quello di ricaricare le auto a motore elettrico senza ulteriori emissioni di CO2. Chiaro. Ma dobbiamo pur dirci che questo discorso sta in piedi solo se si troveranno le materie prime per produrre le batterie per tutte le auto del pianeta e l’energia per caricarle da fonti rinnovabili. Il “parco auto” è attualmente costituito da un miliardo e quattrocento milioni di unità!
Auto a motore elettrico vuol dire poi che queste devono essere equipaggiate con pesanti batterie. Per costruirle serve un elemento chimico – il litio – che, come ione litio, conduce la corrente. Ebbene, per fare milioni di batterie, servono, oggi, grandi quantità di questo elemento, mentre le fonti di litio sono limitate. Serve anche il cobalto, ma qualche azienda sta producendo già batterie senza cobalto. Le cosiddette “terre rare” servono poi per realizzare i dispositivi elettronici per far funzionare le auto e ormai tutte le macchine di ogni tipo con dispositivi elettronici. Ancora una volta abbiamo a che fare con risorse finite, non illimitate.
Sinora l’umanità ha fatto “man bassa” di tutte le risorse senza preoccuparsi dei limiti e delle conseguenze. Questo tempo è decisamente finito. Questa tecnologia, come ogni altra tecnologia, deve ora, perciò, essere ripensata, dall’origine, in maniera diversa, ossia in maniera “circolare”. Bisogna impostare di nuovo tutto sul concetto di circolarità e di recupero delle materie prime. La via della discarica “a perdere” non è più ammissibile.
Quindi: l’auto elettrica, a certe condizioni, è una tecnologia da usare, ma non è certo, da sé, la soluzione di tutti i problemi.
Ripulire l’aria
- Vuole allargare il concetto di economia “circolare”?
Questo concetto non comprende soltanto il recupero di materiali dalla raccolta differenziata e da rifiuti. Questa resta un’acquisizione importante, ma non basta. Sono stati fatti passi notevoli. Quarant’anni fa non si parlava affatto di raccolta e di recupero, vent’anni fa ancora troppo poco. Oggi l’Italia è tra i Paesi che più tendono al recupero dei materiali usati, benché con differenze geografiche significative al nostro interno. Ma questa non è ancora l’economia circolare.
Questa altresì significa prevedere nel momento del progetto e quindi della produzione quale sarà la “vita” – quanto più lunga – del prodotto e quale sarà il suo recupero a fine ciclo. Questa è una vera rivoluzione concettuale. Le aziende si stanno attrezzando sempre più per realizzarla. Ma siamo appena all’inizio. Crescente è la consapevolezza che questa è l’unica strada percorribile per l’economia mondiale, per sfamare e soddisfare le esigenze di una umanità crescente nei numeri e in un pianeta dalle risorse limitate.
- Nel frattempo, la quantità di CO2 continuerà ad aumentare determinando il continuo incremento delle temperature. C’è altro che si possa fare?
Sì. Io penso che non basti abbattere le emissioni e si tratti ormai di pensare a come catturare la CO2 direttamente dall’atmosfera, ossia a “ripulire” l’aria dalla CO2, per intenderci. Le tecnologie per questo esistono, ma non possiamo certo dire che siano economiche. Si tratta di far circolare l’aria su “filtri” in grado di trattenere la CO2. Ma, ovviamente, per far questo, servono grandi quantità di energia.
Vuol dire trattare grandi volumi di aria in cui la CO2 – benché, come ho detto, produca un sicuro effetto termico – è presente solo per “parti per milione”, ossia è molto diluita. Dobbiamo quindi porci l’obiettivo di produrre energia da fonti rinnovabili in misura adeguata, sia per usarla nella “cattura” della CO2, sia per produrre idrogeno – H2 – per elettrolisi dell’acqua. A quel punto potremo combinare CO2 e H2 per ottenere sostanze “combustibili solari”, ossia sostanze prodotte a imitazione dei processi naturali e quindi senza nuovi apporti di CO2.
- Visto che dobbiamo imitare la natura, non è più semplice avvalerci della sola natura, piantumando un gran numero di alberi?
Certo, il concetto è giustissimo! Questa “soluzione” è naturalmente compresa nelle conclusioni di COP26. Ma – ripeto – ci troviamo di fronte ad un problema così grande da doverlo affrontare col maggior numero di soluzioni oggi a disposizione e nel minor tempo possibile. È evidente che gli alberi, i boschi e le foreste fanno bene al sistema. Cominciamo intanto a smettere, in tutto il mondo, di deforestare! Mettiamo pure tanti alberi. Si parla di un miliardo di nuovi alberi. Si tratta di un numero enorme.
Non so se sarà possibile realizzare un tale proposito – non sono un botanico -, ma è senz’altro giusto porsi l’obiettivo. Sappiamo tuttavia che un alberello piantato oggi raggiungerà il massimo della sua attività fotosintetica tra diversi anni. E dobbiamo sapere che l’efficienza della conversione della energia solare in energia chimica in forma di carboidrati, attraverso le piante, è inferiore all’1%. Così come dobbiamo sapere che il pianeta ha mantenuto per secoli livelli costanti di CO2 grazie ad una enorme quantità di biomassa di cui gli alberi hanno costituito e costituiscono una parte minore: la parte di gran lunga preponderante è “nascosta”, ossia si trova negli oceani e nei mari in forma di alghe e microrganismi. Sono gli oceani a fissare gran parte della CO2. Incrementare quanto più possibile il numero di alberi farà bene, ma non risolverà, da sé, il problema.
Risparmio energetico
- Il “semplice” risparmio di energia in quale misura può contribuire alla riduzione delle emissioni?
Certamente sì: dobbiamo risparmiare! È possibile risparmiare grandi quantità di energia e quindi evitare tanta parte delle emissioni di CO2 in atmosfera. Cerco di mostrarlo con un dato: negli Stati Uniti i consumi di energia dal 2000 ad oggi – quindi negli ultimi venti anni – sono rimasti pressoché inalterati, benché l’economia sia cresciuta ben del 30%.
Tra crescita economica e consumo di energia c’è naturalmente proporzionalità. Il risultato è stato quindi conseguito solo grazie al risparmio energetico. Pare che il risparmio energetico abbia contribuito negli ultimi quarant’anni sul bilancio nazionale degli Stati Uniti più di ogni altra fonte di energia. Ciò dimostra che il risparmio può essere la prima e, per certi versi, la più immediata, fonte di nuova energia, anche in Europa e ovunque.
- Come è concretamente possibile risparmiare energia?
Certamente alcune soluzioni richiedono investimenti, impiego di nuovi materiali e tecnologie. Si tratta di rendere quanto più efficienti dal punto di vista energetico le case e gli ambienti in cui viviamo. Ma non è solo questo. Molto più possono risultare efficaci tantissimi comportamenti individuali, familiari e di gruppo.
Sappiamo da tempo cosa dovremmo fare e cosa dovremmo metterci tutti in testa di fare: ad esempio, essere tutti molto più attenti alle temperature degli ambienti in cui viviamo d’inverno e d’estate, evitando di riscaldare troppo oppure di raffrescare troppo, limitare l’uso della nostra auto privilegiando i trasporti pubblici o la bicicletta, limitare il consumo di carne nell’alimentazione ecc. Ci sono milioni e miliardi di situazioni in cui ciascuno può dare il proprio consapevole contributo.
- Quale valutazione si sente di esprimere dell’esito di COP26?
Io direi positiva. Pensiamo solo se questa Conferenza non si fosse semplicemente svolta! COP26 ha mostrato quanto sia ormai forte la consapevolezza della politica mondiale riguardo al problema. C’è stato un confronto molto acceso tra gli Stati, ma anche un dibattito molto ampio, franco, realistico. Onestamente penso non si potesse ottenere di più.
La posizione dei movimenti ambientalisti – che vorrebbero “tutto è subito” – è risultata molto importante per dare impulso alla Conferenza, ed è critica ora. Ma il “tutto e subito” non è purtroppo di questo mondo. I giovani hanno ragione: hanno di fronte il problema più grande che l’umanità in quanto tale si sia mai trovata sulla strada del futuro.
Ma si è avviato un percorso molto serio. E non si tornerà indietro. Si andrà avanti. Si dovrà andare avanti con molto impegno, da parte di tutti, collettivamente e individualmente, ciascuno per la propria parte. Nessun cittadino deve essere escluso dalla consapevolezza ed esentato dall’offrire il proprio contributo etico e razionale.
Dobbiamo poi pensare a importare, anziché combustibili fossili dai Paesi del nord Africa, energia elettrica prodotta da grandi impianti fotovoltaici installati nei deserti e in zone di forte insolazione per lunghi periodi dell’anno in quegli stessi Paesi. Sarà possibile trasportare questa energia con cavi sottomarini. La tecnologia è già sostanzialmente a disposizione. Non è fantascienza.
ho sentito per la prima volta questo progetto una quindicina di anni fa, e a quei tempi aveva senso proporla, nonostante avesse molte criticità
ora tutto il nord Africa fino al Sahel è un coacervo di guerre civili e insurrezioni, con un numero sempre crescente di milizie ben armate
far produrre l’energia in quelle zone probabilmente consegnerebbe l’interruttore d’Europa in mano all’ISIS o al-Qaeda, a meno di una protezione degli impianti in stile coloniale