Dal 6 al 18 novembre si è svolta a Sharm el-Sheikh, in Egitto, la 27esima Conferenza delle Parti sul clima, meglio nota come COP27. Da molti osservatori l’esito del convegno è stato giudicato piuttosto deludente: ancora una volta si è trattato di un incontro interlocutorio, che lascia irrisolti gran parte dei problemi che l’emergenza climatica mette in evidenza.
Ma un risultato positivo è stato raggiunto, in extremis, il 20 novembre, a conferenza conclusa: la creazione immediata di un fondo internazionale per far fronte a perdite e danni (loss and damage) subiti dai Paesi più fragili a causa dei cambiamenti climatici. In base ad esso i Paesi più ricchi si impegnano a risarcire quelli più colpiti dai danni. Un Comitato transitorio dovrà preparare un progetto da presentare alla prossima COP28 del 2023 negli Emirati Arabi Uniti per rendere operativo il fondo.
Tra i paesi più danneggiati si possono citare il Pakistan, colpito quest’anno da una catastrofica alluvione che ha devastato un terzo del Paese; o i paesi del Corno d’Africa, messi in ginocchio da una siccità ormai cronica.
Posizioni diverse
L’accordo di Sharm riprende il Climate Finance Pledge della COP15 del 2009 a Copenaghen, secondo il quale avrebbero dovuto essere stanziati dai Paesi firmatari 100 miliardi di dollari entro il 2020 per far fronte ai danni climatici; in realtà – e siamo a fine 2022 – i versamenti sono fermi a circa 85 miliardi. Da parte sua, l’Italia prevede di versare in un fondo italiano per il clima la somma di 840 milioni di euro all’anno, dal 2022 al 2026.
Altri Paesi adottano strategie diverse e vi sono ancora divergenze di vedute: la Cina e l’India ritengono che l’Occidente debba farsi carico del fondo e i rappresentanti di molti Paesi del Sud del mondo (G77) non sono soddisfatti di questo accordo, ritenendo che i Paesi poveri paghino e pagheranno un prezzo troppo alto in termini di vite perdute e di alterazione dell’ambiente.
Posizioni critiche erano state espresse anche dal vicepresidente della Commissione europea Franz Timmermans che ha dichiarato che la UE avrebbe lasciato il negoziato se non si fosse arrivati ad un accordo accettabile.
Si è discusso su chi siano i destinari prioritari dei ristori e si è convenuto di intendere per “Paesi particolarmente vulnerabili” quelli che sono più colpiti dal climate change, ma che hanno anche meno mezzi per mitigarlo. Stati come la Cina o i Paesi Arabi, anche se formalmente rientrano ancora nel G77, hanno mezzi adeguati a far fronte ai danni ecologici e devono fare, loro malgrado, dei donatori del fondo.
Controllo delle emissioni
Nonostante le divergenze, l’accordo è arrivato e il 20 novembre il presidente dell’ONU Antonio Guterres poteva dichiarare in proposito: «Accolgo con favore la decisione di istituire un fondo per le perdite e i danni e di renderlo operativo per il prossimo periodo. Chiaramente questo non sarà sufficiente, ma è un segnale politico necessario per ricostruire fiducia. Le voci di coloro che sono in prima linea nella crisi climatica devono essere ascoltate».
Ma che cosa è cambiato per il controllo delle emissioni e per mitigare il cambiamento climatico? La COP27 ha ribadito il proposito comunemente espresso di mantenere l’aumento medio della temperatura terrestre sotto 1,5°C, come caldamente raccomandato dagli scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change). Ma come arrivarci?
A Sharm si dovevano concretizzare i buoni propositi espressi dalla COP26 del 2021 a Glasgow, ma ciò non è avvenuto. Per mitigare validamente il cambiamento climatico è noto che occorre intraprendere da subito e decisamente la decarbonizzazione dell’economia mondiale: entro il 2030 occorre tagliare le emissioni di almeno il 43% e arrivare ad emissioni zero entro il 2050.
Per farlo occorre ridurre drasticamente l’uso delle fonti fossili (carbone, petrolio, gas) e incrementare al massimo quello dalle rinnovabili (eolico, fotovoltaico, solare termico, idroelettrico). Ma anche a Sharm, come nelle precedenti edizioni della COP, lobbisti e grandi esportatori di petrolio e gas come Russia e Arabia Saudita hanno fatto sì che si evitasse di additare nei combustibili fossili i maggiori responsabili della crisi climatica, con la scusa di concentrarsi sulle emissioni e non sulle loro fonti.
In definitiva, l’accordo finale di COP27, ricalcando sostanzialmente quello di COP26, si accontenta di chiedere la riduzione dell’uso del solo carbone e pure solo di quello impiegato senza tecnologie per l’abbattimento delle emissioni. I sussidi statali sono eliminati solo per le fossili usate in modo inefficiente. Non appare nell’accordo neppure l’impegno a raggiungere nel 2025 il picco delle emissioni. E si lascia ai singoli stati la possibilità di ridurre a proprio piacimento la carbonizzazione.
Si tratta di una conclusione per molti versi insoddisfacente: si riconosce la gravità della crisi climatica e si cerca di porre rimedio ai danni – questo sì – ma senza intervenire efficacemente sulle cause che li hanno prodotti.
Un cammino a ritroso
Tutto ciò è molto diverso da quanto si intravvedeva negli storici Accordi di Parigi alla COP21 del 2015, in quello stesso anno in cui usciva l’Agenda 2030 e l’enciclica Laudato Si’ di papa Francesco. Lo spirito di quell’enciclica è sempre vivo in molte comunità che cercano di attuare quella che il papa chiama la “conversione ecologica”.
In particolare, il Movimento Laudato Si’, nato nel 2015, «riunisce una vasta gamma di organizzazioni cattoliche e membri di base provenienti da tutto il mondo. Questi membri camminano insieme nella sinodalità e nella comunione con la Chiesa universale in un cammino di conversione ecologica. Cercando l’unità nella diversità, le organizzazioni aderenti ed i membri di base si riuniscono per pregare, collaborare e mobilitarsi in risposta al “grido della terra e al grido dei poveri.
Guidati da uno spirito di sussidiarietà, quando il momento ed il contesto lo permettono, insieme creano o interagiscono con i circoli e i capitoli locali della Laudato Si’ e si collegano con il movimento globale in una vasta gamma di iniziative per dare vita alla Laudato Si’.»
In questo periodo, tra le altre iniziative, il Movimento propone la visione del film The Letter. A Message for Our Earth (qui), una buona opportunità per riflettere sui cambiamenti climatici e sul nostro impegno per mitigarli.