Dal Regno Unito una lezione per l’Italia

di:
proteste antirazziste

Photo by Justin Tallis/AFP

Oscurati dalle notizie che venivano dalle Olimpiadi, dal Medio Oriente e dalla guerra in Ucraina, sono passati quasi inosservati, agli occhi dell’opinione pubblica italiana, i gravi disordini che, dalla fine di luglio, hanno sconvolto il Regno Unito. Eppure, come vedremo, ciò che sta accadendo là riguarda da vicino anche il nostro paese.

Un’ondata di rabbia contro musulmani e migranti

Ma cominciamo dai fatti. Tutto è cominciato a Southport, una città dell’area metropolitana di Liverpool, durante un corso di yoga e danza frequentato da donne incinte, neo mamme e bambini, dove un ragazzo si è presentato armato di coltello e ha ucciso tre bambine di 6, 7 e 9 anni, ferendone altre otto.

L’assassino, subito arrestato, è stato identificato alla polizia come Axel Rudakubana, 17 anni, inglese, nato a Cardiff da genitori originari del Ruanda, e i motivi del suo gesto, probabilmente dovuto a un raptus, sono apparsi comunque subito estranei sia alla matrice terroristica che a quella religiosa.

Su queste invece, attraverso una sistematica opera di disinformazione da parte della destra – in particolare dell’English Defence League (EDL) –, hanno puntato le fake news sull’identità dell’assassino, indicato come Ali Al-Shakati, musulmano, vicino all’estremismo islamico, arrivato nel Regno Unito su un barcone e già considerato sospetto dalla polizia.

Si è scatenato un inferno. Centinaia di persone, in molte città inglesi, hanno dato l’assalto a moschee e centri culturali islamici, perfino – è accaduto a Liverpool – a una biblioteca per bambini –, ma anche a centri per migranti, urlando la propria rabbia. Negozi saccheggiati, automobili date alle fiamme. Inevitabili gli scontri con le forze dell’ordine: i feriti sono stati decine, gli arresti centinaia.

Alla radice di questa reazione non c’è stata solo l’islamofobia. A Middlesborough un gruppo di dimostranti ha iniziato a fermare le macchine per chiedere a ogni autista: «Sei bianco? Sei inglese?». Da tempo, nel Regno Unito, è vivissimo il problema dell’aumento delle richieste d’asilo da parte di migranti irregolari. Il numero di persone che, in questi primi mesi del 2024, sono arrivate nel Regno Unito attraversando illegalmente la Manica ha infatti raggiunto un nuovo record.

Di fronte a questo fenomeno c’è in Inghilterra, come in Italia, una fascia consistente di popolazione bianca, economicamente e socialmente svantaggiata, che si sente minacciata da questa crescita esponenziale di stranieri, in cui vede dei potenziali concorrenti sia per quanto riguarda i posti di lavoro, sia nella fruizione dei servizi pubblici.

E c’è in Inghilterra, come in Italia, una destra che si sforza di dirottare la protesta sociale dei più poveri, che dovrebbe rivolgersi contro i privilegi di una minoranza di ricchi, facendola deviare sul falso bersaglio di un’immaginaria rapina di risorse da parte degli immigrati. È il risvolto sociale della furibonda aggressione contro moschee e centri per l’immigrazione dei giorni scorsi.

Il gemellaggio tra Sunak e Meloni

Su questa linea si era mosso il primo ministro uscente, il tory Rishi Sunak, il quale – poco prima delle elezioni anticipate del 4 luglio scorso, che ne avrebbero determinato la caduta – aveva fatto approvare dal parlamento un provvedimento che prevedeva la deportazione in Ruanda dei richiedenti asilo giunti illegalmente nel Regno Unito. Lo stesso Sunak aveva celebrato l’approvazione della legge come «una svolta destinata a cambiare l’equazione globale dell’immigrazione». I primi voli per la capitale ruandese erano previsti già a partire da luglio.

In questa prospettiva si era creata una significativa convergenza con l’Italia. Il 16 dicembre scorso Giorgia Meloni aveva incontrato congiuntamente a Palazzo Chigi il premier inglese e il primo ministro della Repubblica di Albania, Edi Rama, che poi avevano partecipato entrambi al raduno di Fratelli d’Italia ad Atreju.

La calorosa sintonia umana fra Meloni e Sunak – ribadita poi in occasione del G7, a metà giugno – aveva la sua base politica nell’analogia tra i loro rispettivi piani di trasferimento all’estero – in Ruanda Sunak, in Albania Meloni – dei richiedenti asilo irregolari, in attesa di verificare la loro posizione.

In realtà, i due progetti hanno avuto esiti molto diversi. Il primo ha avuto un brusco blocco d’arresto per la caduta del governo tory. Il nuovo primo ministro inglese, il laburista Keir Starmer, insediato da meno di un mese, pur preannunciando delle restrizioni alla politica migratoria, ha subito dichiarato di non voler dare corso alla legge sul trasferimento in Ruanda dei richiedenti asilo.

Il progetto della Meloni, invece, proprio in questi giorni è in procinto di diventare operativo, con l’apertura dei centri albanesi. In futuro, se un gruppo di migranti alla deriva nel Mediterraneo verrà soccorso e preso a bordo da una nave della marina italiana, questa nave dovrà dirigersi verso il porto di Shëngjin, nel nord dell’Albania.

I soggetti particolarmente vulnerabili – donne, minori – rimarranno a bordo della nave per essere condotti in Italia. Gli altri saranno portati in un centro recintato e sorvegliato in attesa che le loro richieste d’asilo vengano vagliate.

Il detto e il non detto

Non mancano le criticità. Le navi di soccorso saranno costrette a diversi giorni di viaggio per raggiungere un porto dell’Albania settentrionale, violando la norma del diritto del mare secondo la quale le vittime di naufragio vanno condotte il prima possibile in un vicino porto sicuro. E lo sbarco posticipato sarà particolarmente deleterio per le categorie vulnerabili, che dovranno raggiungere prima il porto di Shëngjin e successivamente un porto italiano.

Inoltre, i centri d’accoglienza albanesi saranno strutture chiuse, provviste di tutte le misure coercitive e tutti i mezzi tecnici atti ad impedire la fuga. Ora, la normativa europea proibisce la detenzione generalizzata delle/dei richiedenti asilo per il solo fatto di aver presentato richiesta d’asilo e prescrive che, per ogni singolo caso, si vagli la possibilità di applicare una misura meno invasiva, alternativa alla detenzione.

Da parte del nostro governo, si continua a ripetere che si tratta solo di una questione di rispetto della legalità. Non è in discussione, si dice, la regola fondamentale del diritto internazionale che garantisce l’accoglienza ai rifugiati. Queste misure valgono solo per quelli «irregolari» (meglio noti come «clandestini»).

Ciò che non si dice è che, per una persona richiedente asilo, è impossibile arrivare legalmente in Europa. Chi lo chiede arriva da paesi dove i visti non vengono rilasciati o perché i migranti non hanno le condizioni economiche per potere ottenerli o perché si tratta di zone di conflitto, in cui le ambasciate sono chiuse.

Un altro slogan molto diffuso è quello che invoca la lotta senza quartiere ai «trafficanti di esseri umani», gli scafisti. Ciò che non si dice è che, se esistono questi trafficanti, è perché il nemico dichiarato del nostro governo è già chi vuole venire in Italia, per salvare la propria vita o per averne una migliore, considerato un «invasore».

Uno dei punti del programma elettorale della destra poneva come obiettivo la «difesa dei confini nazionali ed europei (…) con controllo delle frontiere e blocco degli sbarchi per fermare, in accordo con le autorità del nord Africa, la tratta degli esseri umani» (n. 6).

A proposito di Nord Africa. In questi giorni i quotidiani allineati al governo hanno sottolineato con esultanza che gli sbarchi in questi ultimi mesi, dopo gli accordi stretti da Meloni con la Libia e la Tunisia, hanno avuto una forte diminuzione. Un bel successo della politica migratoria di questo governo.

Ancora una volta, però, c’è un non detto. Ed è che quanto successo è dovuto al fatto che le autorità libiche e quelle tunisine, con i soldi e i mezzi dati dall’Italia, trattengono le migliaia di persone che giungono dalle più diverse località dell’Africa, nella speranza di partire per l’Europa e avere condizioni di vita più umane, in veri e propri campi di concentramento, dove, secondo i rapporti dell’ONU e di tutte le organizzazioni umanitarie internazionali, sono sottoposte ad abusi e sevizie inimmaginabili.

Non per i soldi, ma per l’ide(ologi)a

Tutto questo, per quanto possa sembrare strano, non è fatto in nome di vantaggi economici – che non giustificherebbero, ma renderebbero almeno comprensibile questo cinismo –. Costruire e gestire dei centri di detenzione all’estero serve simbolicamente a mantenere integre le nostre frontiere, ma costa assai più che farlo in Italia.

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani, in partenza, aveva detto che, alla fine, per questo progetto, sarebbero bastati «meno di 200 milioni». Secondo il bando pubblicato a giugno, in realtà, i milioni previsti ufficialmente sono 653! E c’è chi prevede che si arriverà, di fatto, al miliardo.

Ma che questa sia una politica autolesionista lo diceva, ancora più chiaramente, l’intervista rilasciata l’aprile scorso a La Stampa dal presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, dove egli spiegava che, con l’attuale andamento demografico, dopo il 2040 non si potranno più pagare le pensioni e indicava come unica soluzione l’apertura all’ingresso degli stranieri: «Le economie ricche – spiegava il presidente dell’INPS – hanno tutte molti migranti».

E, facendosi interprete delle pressanti richieste degli imprenditori, che da tempo chiedono l’allentamento delle restrizioni all’ingresso di lavoratori stranieri, aggiungeva: «Anche noi abbiamo l’esigenza di coprire lavori medio-bassi da Nord a Sud con gli stranieri. La soluzione non può che essere l’accesso di immigrazione regolare e fluida». Con un’accoglienza non certo indiscriminata, ma volta alla reale integrazione culturale e materiale degli stranieri.

Qualcosa che finora non è stato mai organicamente perseguito dai governi precedenti ed esattamente il contrario di ciò che quello attuale sta cercando di realizzare. Ma gli italiani non sembrano rendersene conto e continuano a guardare ai migranti come a una minaccia.

proteste antirazziste

Photo by Burak Bir/Anadolu/picture alliance

Un segno di speranza

Un segno di speranza, paradossalmente, viene proprio dal Regno Unito, che fino a poco più di un mese fa era il nostro più stretto partner in questo progetto di esclusione. Decisiva non è solo la svolta da parte del nuovo premer.

È stata la gente a reagire. Sull’onda della protesta rabbiosa contro gli «invasori», gruppi di ultradestra avevano fissato per la sera di mercoledì 7 agosto un appuntamento per colpire in più di trenta località degli obiettivi «sensibili»: moschee, centri per migranti… La polizia si era preparata per quella che sembrava destinata ad assumere le proporzioni di una battaglia di vaste proporzioni. E invece è accaduto che, in tutto il Regno Unito, sono stati i cittadini a scendere prevalentemente in piazza per dire il loro deciso «no» all’odio e alla paura nei confronti di musulmani e migranti.

A Liverpool, ha riportato il Guardian, centinaia di loro hanno formato uno scudo umano attorno a una chiesa presa di mira per il suo centro di consulenza sull’immigrazione. A Brighton i pochi manifestanti anti-immigrazione erano così in inferiorità numerica rispetto ai contro-manifestanti che la polizia locale li ha circondati per proteggerli. A Walthamstow, nella zona est di Londra, una fiumana di persone è scesa in strada pacificamente intasando le arterie principali.

Una lezione di civiltà e – contro la sistematica disinformazione che su questo tema imperversa – di verità. Rivolta a tutta l’Europa, ma soprattutto a noi italiani, che forse – alla luce della nostra tradizione cattolica – avremmo ancora maggiori motivi per scendere in piazza e obbligare chi ci governa a rispettare e accogliere lo straniero.

  • Dal sito della Pastorale della cultura della diocesi di Palermo (tuttavia.eu), 9 agosto 2024
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3 Commenti

  1. Romano Piras 12 agosto 2024
  2. Cristina 12 agosto 2024
  3. Cristina 12 agosto 2024

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