Tecniche di manipolazione delle informazioni, creazione del consenso, propaganda e contro propaganda: quanto siamo in grado di evitarle nella nostra fruizione quotidiana dei contenuti web? E attraverso i social quale forma di democrazia si va costruendo?
Quanto siamo manipolati?
L’errore più comune che si può commettere oggi, in una società dove il digitale è sempre più integrato con le nostre abitudini di vita, è pensare che l’accesso a una grande mole di informazioni e dati sia automaticamente sinonimo di maggiore libertà e democrazia. Dimenticando «the dark side of the moon», quella parte cioè dedicata alla costruzione di consenso che noi non vediamo ma di cui, spesso, siamo inconsapevoli vittime.
Grazie ai propri strumenti culturali e capacità di discernimento, ognuno di noi, navigando sul web, crede di essere al riparo da un’informazione guidata e da meccanismi di condizionamento occulto che invece caratterizzano la società digitale. Ed è anche in queste dinamiche che si disegna oggi un nuovo modello di democrazia. Proprio di questi temi si è parlato di recente al convegno «La democrazia alla sfida dei social network», promosso da ASGI (Associazione studi giuridici sull’immigrazione), Costituzione Beni comuni, Gruppo consiliare Milano in comune.
Per capire quanto ognuno di noi rischia di essere il prodotto di un processo di manipolazione, basta guardare alle tecniche di digital reputation oggi attuate attraverso l’uso estensivo degli algoritmi. I pregiudizi cognitivi della persona vengono sollecitati basandosi sull’utilizzo diffuso e quotidiano che ognuno di noi fa del web per informarsi, acquistare, esprimere il proprio pensiero e la propria azione.
Secondo un recente studio dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, il 95 per cento degli italiani accede a Internet almeno una volta al giorno; il 62 per cento usa la rete come primo veicolo per formarsi una rappresentazione della realtà; l’81 per cento dei consumatori, secondo l’Internet Consumer Report 2019, si informa on line prima di prendere decisioni anche importanti; tuttavia, l’82 per cento dice di non saper riconoscere una fake news; il 62 per cento legge soprattutto i titoli degli articoli dei social networks; l’85 per cento si fida dei giudizi on line. Tutto questo la dice lunga sulla superficialità con cui oggi si reperiscono informazioni sul web.
Fabbriche di creazione del consenso
Innanzitutto, non è sempre così chiaro a tutti che news, tweet e altri tipi di informazione digitale possano essere «fake», false. E non è nemmeno molto noto che esistano vere e proprie «fabbriche» automatizzate per la creazione di notizie false, condizionamento di pensiero, creazione di consenso.
Ad esempio, i paesi dell’Est europeo, Polonia, Russia e Ucraina su tutti, stanno sviluppando una vera e propria «economia della propaganda» su web, montando strategie di consenso o di demonizzazione destinate a campagne elettorali in tutto il mondo. Oggi, in Venezuela, ci sono «fabbriche» di migliaia di persone, pagate con buoni pasto, per radicalizzare via Twitter i dibattiti e creare la percezione nel singolo di muoversi in un contesto di pensiero a lui allineato.
Elezioni politiche americane (Donald Trump con America First) e brasiliane (dove WhatsApp è stato massicciamente usato nella campagna elettorale di Jair Bolsonaro), vaccini (con la disinformazione sulle multinazionali del farmaco), Ong (ipotesi di loro coinvolgimento con il sistema degli scafisti), Brexit e tanti altri temi sono stati trattati da bot (sistemi automatici che sfruttano i social per la comunicazione massiva e ripetitiva di messaggi) e trolls (tecniche automatiche di comunicazione provocatoria/estrema) programmati con il preciso scopo di influenzare l’opinione pubblica.
A ciò si aggiungono raffinatissime tecniche di data analysis dei profili di «navigazione web» di milioni di persone alle quali inviare messaggi che hanno così un’alta percentuale di accettazione.
C’è quindi il rischio che si sviluppi una «democrazia malata», frutto di pensieri collettivi guidati, sfruttando pregiudizi cognitivi basati su almeno quattro motivi:
– un’enorme disponibilità di informazioni che rende difficile la ricerca;
– una mancanza di ricerca del significato: si sta perdendo la capacità di approfondimento, di ricerca di fonti alternative per la costruzione di un pensiero autonomo al di fuori della rete;
– una mancanza di tempo: serve agire velocemente;
– una memorizzazione rapida per macro punti, senza un ragionamento articolato.
Tutto questo porta ogni persona immersa nel web ad attuare meccanismi cognitivi consolidati e sfruttabili: se la notizia si conforma ai miei pregiudizi, tendo a credere che sia vera, costruendomi delle «bolle di contenuto» dalle quali mi risulta scomodo uscire. Si tratta di tecniche da sempre usate nella comunicazione. La differenza è che oggi vengono modellizzate in algoritmi, i quali, in un futuro molto prossimo, svilupperanno capacità di autoapprendimento (intelligenza artificiale) e di ottimizzazione cognitiva sempre più sofisticate. È l’arte di «programmare gli esseri umani».
Il linguaggio digitale per un pensiero progressista
In questa fase, i meccanismi di condizionamento affondano le proprie radici nella domanda di sicurezza che proviene dalla società, dove esiste un senso diffuso di precarietà determinato da incertezze economiche e di lavoro futuro, dall’ampliarsi delle disuguaglianze sociali, flussi migratori da gestire, terrorismo e criminalità da combattere.
I movimenti conservatori e di destra hanno cavalcato la questione sociale della protezione e della redistribuzione di ricchezza alle classi più deboli come propri temi di riferimento politico da spingere con messaggi semplici, improntati a un sentimento di nazionalismo, amplificati poi su ogni tipo di media, incluso il web.
La sinistra ha invece deciso che su questi temi non si vincevano le elezioni, da un lato perdendo di vista il disagio delle fasce popolari e dall’altro non riuscendo a declinare il messaggio politico via social. Non è riuscita, in pratica, a trovare una corretta declinazione di immediatezza di messaggio, per coinvolgere con efficacia nel dibattito e nell’azione giovani e meno giovani, ma ha seguito il proprio tradizionale modello politico basato sull’analisi della complessità delle varie tematiche, dell’articolazione organizzativa, culturale ed economica provando a costruire attorno a questa un’idea condivisa da diffondere. Un modello rivelatosi complesso da recepire, perdente alla prova elettorale e poco adatto ai social network dove i messaggi sono molto semplici, brevi e immediati nel loro obiettivo di formazione di opinione.
Oggi, tra le grandi sfide di un’idea progressista vi è senz’altro quella di trovare il giusto linguaggio comunicativo che valorizzi il tema del contrasto alle disuguaglianze sociali, della sostenibilità ambientale, di una prospettiva di lavoro per le nuove generazioni. Sono temi attorno ai quali, nel mondo, si sta consolidando un movimento di opinione importante (accade oggi proprio nell’America di Trump).
Servirà entrare a pieno titolo nella dialettica digitale, semplificando, senza personalismi, il messaggio, per aiutare le persone a sviluppare un nuovo senso critico e per trasformare le loro informazioni in vera conoscenza; sfruttando quelle piattaforme on line (come Google, Facebook, Twitter, Instagram) dove oggi si genera il consenso e dove si contribuisce a sviluppare un dibattito sugli elementi di impostazione economica e sociale dei prossimi decenni.
www.lavoce.info, 14 maggio 2019.