A 101 anni, Edgard Morin ha appena firmato un gran bel libro, leggibile in poche ore, tutto d’un fiato, senza ostacoli logici o semantici. È intitolato Di guerra in guerra, Raffaello Cortina editore.
Si può dire che sia un libro contro la nuova pandemia: quel tragico contagio che ci rende tutti affetti da isteria estremista. Lui parla di radicalizzazione, mentre papa Francesco sceglie il vocabolo polarizzazione: è la stessa malattia alimentata dalla guerra, il grande male che vede solo un buono e un cattivo, senza nulla in mezzo.
Scrivere un libro del genere – asciutto e duro come una pietra – non era facile e non poteva che partire dalla Seconda Guerra Mondiale, l’esempio più forte del “bene assoluto”, almeno secondo la nostra tradizione storiografica. Ebbene, Morin ci ricorda, da subito, che, se il primo bombardamento aereo in Europa, per terrorizzare le popolazioni civili, fu quello tedesco che annientò Rotterdam nel maggio del 1940, poi giunse quello di Pforzheim, spianata al suolo da 367 bombardieri della Royal Air Force: 17.000 civili uccisi, cioè un terzo della popolazione, solo tre mesi prima della capitolazione di un Paese già vinto. Morin ci dice di aver appreso solo dopo di Dresda – città demilitarizzata – ove 1.300 bombardieri scaricarono 2.400 tonnellate di bombe incendiarie causando oltre 300.000 morti.
Ovviamente l’obiettivo di Morin non è mettere in discussione la giusta scelta di combattere radicalmente il nazismo, bensì recuperare la consapevolezza della barbarie, anche quando questa è rivolta contro la barbarie.
Giunto a più di cent’anni di vita e quindi di ricordi personali, ancora assai vivi, Edgard Morin ha inteso, con questo libro, aprire gli occhi dei contemporanei, per consentire di vedere ciò che ha impedito, sino ad oggi, di vedere veramente certi fatti e certe cose. Ciascuno ha, infatti, i suoi “paraocchi”: con grande senso critico e autocritico, Morin non tace di mostrare a tutti pure quelli che ha indossato lui.
Depolarizzare
Il lavoro di de-polarizzazione è fondamentale. Lui lo sviluppa ripercorrendo tutte le guerre che hanno accompagnato la sua vita, per un secolo, appunto. Tanto è convinto dell’importanza di questo lavoro, da ricordarci, poche pagine dopo l’inizio folgorante, che quando si introdusse, dopo la II guerra mondiale, la nozione di crimini di guerra, li si distinse in crimini occasionali – compiuti da singoli o gruppi senza istruzioni -, strutturali – compiuti da singoli o gruppi per ordini dei superiori – e sistemici – quelli appartenenti alla strategia bellica governativa.
I più gravi crimini sistemici furono quelli compiuti contro ebrei, zingari e popolazioni civili prese in ostaggio dai nazisti. «Ma non ci si può impedire di pensare che i massicci bombardamenti di città tedesche e della loro popolazione civile fuori da obiettivi militari precisi costituiscano retrospettivamente dei crimini di guerra sistemici». Detto questo, può dire che il nazismo fu criminale per natura e denunciare «la sua natura razzista e dispotica»: cosa che non si può dire delle democrazie alleate; benché si possa e si debba dire che queste «durante le loro conquiste coloniali e nelle repressioni contro i colonizzati, abbiano commesso ciò che, a posteriori, bisogna definire crimini di guerra».
Morin non dimentica né il contributo sovietico alla sconfitta del nazismo, né i gulag staliniani, convenendo con Vasilij Grossman per il quale Stalingrado fu «la più grande vittoria e la più grande disfatta dell’umanità».
Afferma, quindi, in prima persona: «Abbiamo condotto una guerra contro un sistema ignobile, ma io fui tra coloro che credettero che i crimini staliniani appartenessero al passato e che l’URSS stesse andando verso un avvenire radioso. Noi, ferventi delle vittorie dell’URSS, abbiamo dimenticato tutto ciò che ha significato il patto germano-sovietico del 1939, che generò lo smembramento della Polonia e la consegna a Hitler, da parte di Stalin, dei comunisti tedeschi che avevano trovato rifugio in URSS. C’è stato bisogno che passassero decenni perché diventasse chiaro che, per quanto giusta fosse la resistenza al nazismo, la guerra del Bene comporta in sé il Male».
«La propaganda di guerra comporta sempre delle menzogne», prosegue Morin, e ciò, a mio avviso, dovrebbe aprirci gli occhi non solo sulla guerra in sé, ma anche su tutti gli epifenomeni prodotti dalla isteria da guerra, ossia dalla radicalizzazione o polarizzazione che dir si voglia.
Con grande merito, Morin ci ricorda che c’è voluto Gorbaciov per riconoscere che la strage di Katyn’ – 20.000 polacchi massacrati – fu ordinata da Stalin, non dai nazisti. Ricorda che lui stesso organizzò una mostra sui crimini hitleriani, nel 1944, con un voluminoso dossier predisposto dall’ambasciata sovietica che riportava le testimonianze dei contadini del posto che confermavano – a beneficio della propaganda sovietica – la responsabilità nazista: solo nel ’56 alcuni suoi amici polacchi gli dissero che le cose non stavano proprio così; e lui, oggi, coraggiosamente, lo scrive.
Belligeranti ovunque
Questa emozionante prima parte del volume mi ha mostrato il virus mortale della guerra: come l’isteria bellica si trasferisca, contagiosa, ad altri campi della discussione, radendo ogni filo d’erba sotto i piedi di chiunque cerchi di sostare su di un piano razionale di lettura della realtà e quindi di relazione tra parti avverse. Il clima bellico avvelena con la propaganda il confronto e facilita il lavoro degli opposti estremismi, in tutti i campi.
Morin mantiene la sua lettura rigorosa sui fatti bellici, affondando nelle guerre che maggiormente lo hanno toccato: dall’Algeria ai Balcani, sino al conflitto in Ucraina. Riconosce ogni pezzo dell’isteria.
Anche lui, fatalmente, a mio giudizio, a volte si piega a letture di maniera, per non aver visto tutta la complessità dei casi, dal di dentro: circa la lotta al terrorismo internazionale islamista, ad esempio. Ma il suo sguardo è sempre nobile: non vede mai in bianco e nero, senza i colori e le sfumature di colore. Questo è l’importante.
Emerge un passaggio scritto da pacifista. Penso sia molto importante per il pacifismo contemporaneo riportarlo circa la guerra in atto in Ucraina: «L’idea stessa di pace è condannata dai media occidentali come “putiniana” alla stregua della capitolazione di Monaco. Ora, non si può avere capitolazione se non con un esercito irrimediabilmente vinto, come fu per l’esercito francese nel 1871 e nel 1940. Ma per quanto concerne la guerra attuale, rimane un relativo equilibrio delle forze, che crea le condizioni oggettive di un compromesso». Dunque, Morin è pacifista alla maniera di Habermas: armare l’Ucraina è indispensabile per la pace e deve essere fatto, non nella prospettiva di chissà quale “vittoria”, bensì di una “non capitolazione”, perché la capitolazione avrebbe impedito in radice ogni compromesso e quindi ogni negoziato.
Per arrivare a quel difficile punto occorre rinunciare – da tutte le parti – ai propositi imperialisti e a propagande ideologiche che credono alla pace solo attraverso la sopraffazione militare oppure, all’opposto, solo nella rinuncia unilaterale alla difesa del Paese aggredito.
Negoziare
Recuperare una visione alta, onesta, coraggiosa della realtà è il grande merito di questo volume. È all’onestà più profonda che, in momenti come questo, siamo, infatti, tutti chiamati quale genere umano.
Quanto all’idea di negoziare pure con Putin, osserva giustamente: «Il suo crudele dispotismo ereditato dai dispotismi precedenti è sufficiente a stigmatizzarlo. È impossibile negoziare con un despota? L’Occidente ha negoziato con Stalin e Mao, negozia con Xi Jinping». Non è forse vero?
L’opera prosegue con proposte pratiche di possibili terreni di discussione diplomatica. Il punto altro e alto è questo: «questa guerra provoca una crisi considerevole che aggrava e aggraverà tutte le enormi crisi del secolo subite dall’umanità, come la crisi ecologica, la crisi economica, la crisi delle civiltà, la crisi del pensiero. Nel 2017 c’erano ottanta milioni di esseri umani sull’orlo della carestia. Poi, dopo la pandemia, duecentosettantasei milioni, attualmente trecentoquarantacinque milioni».
In questi frangenti guardare con un occhio solo – qualunque sia dei due – è un errore storico: imperdonabile!