«Ma, alla fine, mi parve di avere compreso perché l’uomo sia il più felice degli esseri animati e degno perciò di ogni ammirazione e quale sia, infine, quella sorte che, toccatagli nell’ordine universale, è invidiabile non solo ai bruti, ma agli astri e agli spiriti oltremondani. Cosa incredibile e meravigliosa! E come altrimenti, se è per essa che giustamente l’uomo vien proclamato e ritenuto un grande miracolo e meraviglia fra i viventi!».[1]
Sono espressioni dell’umanista Giovanni Pico della Mirandola, che tratteggiavano, alle soglie della modernità, la persona umana quale “proteo dalle mille forme” e “divino camaleonte”.
Come notava la compianta filosofa Clementina Gily Reda, in tal modo «l’interpretazione originale e coraggiosa delle istanze umanistiche» venivano «fatte proprie dal ventitreenne Pico, che, nel mentre illustra, spiega ragioni significati procedimenti di elaborazione, si fa carico di annunciare il grande progetto, che era nelle aspirazioni del Ficino e negli auspici di tanti nobili spiriti di quel tempo, di una concordia generale sui temi scottanti della possibilità di accordare le nuove tendenze della cultura con la tradizione, la libertà dell’individuo con l’autorità della Chiesa, i valori della civiltà pagana con quelli del cristianesimo».[2]
Il proteo dalle mille forme, il divino camaleonte
Teorizzando un ancora possibile accordo tra le teorie e le pratiche magiche, cui non pochi spiriti speculativi e contemplativi dell’Umanesimo-Rinascimento si volgevano allora – per soddisfare l’umano bisogno di conoscenza e verità – con l’ansia religiosa di glorificazione dell’opera meravigliosa della Creazione (secondo i dettami della Scrittura e il Magistero della Chiesa), l’uomo moderno vedeva, insomma, delle consonanze.
Esisterebbe un’armonia, perfino, tra la prisca sapienza dei filosofi italici, il santo teurgo Ermete Trismegisto, l’egiziano, con il mitico poeta e cantore Orfeo, «dei cui inni nulla c’è di più efficace per le operazioni di magia, sempre che si applichino la dovuta musica, le giuste disposizioni d’animo e tutte le altre condizioni che i sapienti conoscono», senza dimenticare mai le convergenze con la dottrina del Primo e del Nuovo Testamento.
Il Discorso sulla dignità dell’uomo, scritto nel 1486, metteva, del resto, sulle labbra del Creatore stesso queste parole di giustificazione di tale visione armonica: «Non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto tuo proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto appunto, secondo il tuo voto e il tuo consiglio, ottenga e conservi. La natura determinata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai, da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo, perché di là tu meglio scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che tu avessi prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine».
I rischi (valutati) dell’antropocentrismo
Anche se la discussione, prima femminista e poi etica, criticherà siffatto esasperato antropocentrismo moderno, non era questo l’unico esito possibile di tale impostazione omologa alla cosiddetta modernità.
Non è un caso che, ormai nella stagione ultramoderna, esattamente nel 2015, sarà un papa – cf. Laudato si’ – ad avvertirci, in nome del nuovo precetto della cura della casa comune, che tutto il procedere scientifico e tecnologico, anzi tecnoscientifico, non dovrebbe mai implicare un antropocentrismo dispotico, o anche, come testualmente lo chiamò allora il papa, un antropocentrismo deviato: «Questa responsabilità di fronte ad una terra che è di Dio, implica che l’essere umano, dotato di intelligenza, rispetti le leggi della natura e i delicati equilibri tra gli esseri di questo mondo, perché “al suo comando sono stati creati. Li ha resi stabili nei secoli per sempre; ha fissato un decreto che non passerà” (Sal 148,5b-6).
Ne consegue il fatto che la legislazione biblica si soffermi a proporre all’essere umano diverse norme, non solo in relazione agli altri esseri umani, ma anche in relazione agli altri esseri viventi: “Se vedi l’asino di tuo fratello o il suo bue caduto lungo la strada, non fingerai di non averli scorti […]. Quando, cammin facendo, troverai sopra un albero o per terra un nido d’uccelli con uccellini o uova e la madre che sta covando gli uccellini o le uova, non prenderai la madre che è con i figli” (Dt 22,4.6). In questa linea, il riposo del settimo giorno non è proposto solo per l’essere umano, ma anche “perché possano godere quiete il tuo bue e il tuo asino” (Es 23,12). Così ci rendiamo conto che la Bibbia non dà adito ad un antropocentrismo dispotico che non si interessi delle altre creature» (n. 68).
Quando la ragione moderna diviene ragione tecnica, insomma, l’unico esito non dovrebbe per forza essere – come suggeriva, primo tra gli altri, H. Bergson nel 1932 – quello del macchinismo. Tale esito, infatti, sarebbe comunque una deviazione, soprattutto se non fosse correlato, suggeriva il pensatore francese, con gli aspetti spirituali e, perfino, mistici: «Senza contestare i servizi resi all’uomo dall’enorme sviluppo dei mezzi richiesti per soddisfare i bisogni reali, noi gli rimproveriamo di aver incoraggiato quelli troppo artificiali, di aver spinto al lusso, di aver favorito la città a detrimento della campagna, infine, di aver allargato la distanza nei rapporti tra padrone e operaio, capitale e lavoro».[3]
Certo, com’è stato osservato, «la diffidenza di Bergson nei confronti del macchinismo che caratterizza i suoi anni giovanili va incontro […] a profondi aggiornamenti e rielaborazioni, che trovano spiegazione nell’andamento interno del suo pensiero ma che dipendono anche in parte da eventi legati al suo tempo e alla sua biografia, in primo luogo dallo sviluppo dell’industrialismo e dalla Grande Guerra».[4] E tuttavia, il pensatore francese non aveva mai messo sotto accusa la macchina in quanto tale, cedendo a suggestioni ora manichee, ora moralistiche o apocalittiche.
Il più recente prodotto dell’intelligenza umana: l’Artificial Intelligence
Bergson non viene citato dall’enciclica Fides et ratio (pubblicata da papa san Giovanni Paolo II il 14.9.1998) quale esempio del pur sempre possibile fecondo rapporto tra filosofia, scienze e parola di Dio. Difatti, quel sommo pontefice inventariò soltanto «per l’ambito occidentale, personalità come John Henry Newman, Antonio Rosmini, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Edith Stein e, per quello orientale, studiosi della statura di Vladimir S. Solov’ev, Pavel A. Florenskij, Petr J. Caadaev, Vladimir N. Lossky» (n. 74).
E tuttavia, a riprova dei legami intrinseci tra fede e ragione, quel medesimo testo papale riconosceva, significativamente, sia gli innumerevoli, anzi, testualmente, straordinari (n. 69 di Fides et ratio) risultati delle scienze, su cui la vita oggi si fonda; ma ribadiva, altresì, la necessaria autonomia di cui le scienze (sia quelle empiriche o positive, che le “scienze umane” ed “ermeneutiche”) avevano ed hanno bisogno, se vogliono “applicarsi” efficacemente ai propri campi di ricerca. Come a dire, no all’antitesi di principio tra macchine e persona umana, tra artificio prodotto dall’intelligenza e potenzialità intellettiva umana; sì, invece al raccordo e alla collaborazione, particolarmente nel caso in cui – quello che sta accadendo ormai da circa un secolo – è la stessa intelligenza umana a inventare e a produrre delle vere e proprie terminazioni informatiche e digitali, che la vulgata anglofona denomina correntemente AI (Artificial Intelligence).
Non tanto un prodotto materiale e un artificio, bensì addirittura una realtà non riducibile a cosa. Forse, come suggeriscono degli studiosi giapponesi, una realtà «spirituale», certamente in analogia con le dimensioni psicospirituali del suo inventore. Del resto, non è ormai verificato che l’attuale partnership Giappone-USA nel campo dell’AI si concentri oggi nello sviluppo delle scienze della vita (nei settori della cosiddetta macchina-badante per persone non autosufficienti), della medicina, nonché dei nuovi materiali?
Tutto questo è ormai a disposizione di aziende e università, quindi pure della gente comune e dei suoi bisogni immateriali e spirituali, per rafforzare la competitività industriale.
Come si vede nel caso di Replika, la nuova intelligenza serve, ormai, a trovare un compagno di chatbot numero 1, basato sull’intelligenza artificiale, che viene in aiuto a chiunque desideri un amico, senza però che esso emetta dei giudizi sulle proprie condotte, generando drammi o ansia sociale.
Se la AI è in grado di creare una vera connessione emotiva col soggetto personale, se può perfino condividere una risata, o diventare buona al punto da sembrare quasi umana, perché continuare a denominarla “artificio”?
Le più recenti tecniche di xAI (explainable Artificial Intelligence) ci fanno disporre di un modello AI, che non si limita a fornire delle soluzioni basate sui dati, ma fornisce anche delle indicazioni su come esso sia pervenuto al risultato offerto (detto altrimenti, “giustifica” le proprie procedure).
Di conseguenza, come avverte N. Grandis, la questione non è oggi soltanto quella di chiedersi se gli algoritmi restino comunque dei prodotti umani-macchinici, si potrebbe dire ri-adattando Bergson all’oggi–-; bensì di domandarsi chi ne siano i possessori (certamente pochi, troppo pochi!). Di chi sono, per esempio, tutti quei dati, che vengono comunque utilizzati in qualunque esercizio dell’intelligenza competitiva per il training dell’AI?
E così, mentre una tecnologia – che ormai già domina il pianeta e su cui gli stessi inventori hanno ormai costruito degli imperi finanziari ed economici, differenziati tra Oriente e Occidente – procede e avanza, la vera discriminante (anche teoreticamente discriminante) diviene sempre più quella dell’uso che se ne fa, o se ne potrà fare.
Se le intelligenze artificiali, soprattutto quelle generative, continuano a non essere dotate di coscienza (quindi, neppure di etica); se sono soltanto un complesso agglomerato di formule matematiche, davvero sta all’essere umano e alla sua consapevolezza psicologica e morale, stabilire dei limiti e delle regole?
La prima legge (europea) del mondo sulla AI
Il 20 marzo 2024 i deputati del Parlamento europeo, primi al mondo in un consesso parlamentare, hanno approvato il Regolamento sulla AI, frutto dell’accordo raggiunto con gli Stati membri nel dicembre 2023, con 523 voti favorevoli, 46 contrari e 49 astensioni.
Il testo approvato si muove – com’è tipico di chi ha intenzioni non solo di guadagnare un prima globale nel controllo, ma anche di regolamentazione dell’esistente, nonché di tutela dei diritti dei cittadini – stabilendo degli obblighi per l’AI. Ovviamente, il tutto sulla base dei possibili rischi e del livello d’impatto.
Grande appare la cautela europea verso quei sistemi di AI che potrebbero arrecare danni significativi alla salute, alla sicurezza, ai diritti fondamentali, all’ambiente, alla democrazia e allo Stato di diritto; ovvero, a tutto quanto la modernità aveva già conquistato lungo il corso dei secoli, che Bergson aveva già definito macchinici.
Il testo approvato dal Parlamento europeo dichiara, tra l’altro, di «voler promuovere la diffusione di un’intelligenza artificiale (IA) antropocentrica e affidabile, garantendo, nel contempo, un livello elevato di protezione della salute, della sicurezza e dei diritti fondamentali sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (la “Carta”), compresi la democrazia, lo Stato di diritto e la protezione dell’ambiente, contro gli effetti nocivi dei sistemi di IA nell’Unione nonché promuovere l’innovazione» (n. 1: ciò che è in corsivo, è testo nuovo del Parlamento, rispetto a quello proposto dalla Commissione).
E, sempre nelle novità apportate, è sintomatica, e di principio, l’affermazione: «Il presente regolamento dovrebbe essere applicato conformemente ai valori dell’Unione sanciti dalla Carta agevolando la protezione delle persone fisiche, delle imprese, della democrazia e dello Stato di diritto e la protezione dell’ambiente, promuovendo nel contempo l’innovazione e l’occupazione e rendendo l’Unione un leader nell’adozione di un’IA affidabile» (n. 2).
Quel condizionale di esordio – dovrebbe – non ricorda soltanto quanto viene previsto per la recezione da parte dei singoli Stati dell’Unione, ma è, mi sembra, un vero e proprio lapsus di auspicio. Quasi un indiretto riconoscimento delle difficoltà a concordare sui valori (etici, sociali, culturali, politici) di un contesto avanzato, qual è appunto quello europeo. Esso ha ormai oltrepassato le esigenze di una modernità, che concordava su un antropocentrismo equilibrato, o almeno coordinato, con le esigenze e i diritti del pianeta e, soprattutto, dei futuri abitanti di esso.
Si ricordi che, nel testo europeo, risulta ricorrente l’aggettivo affidabile (con il suo sostantivo originante: affidabilità). Affidabile sarà, come si legge, una AI che sarà organizzata valutando i rischi delle persone fisiche nelle attività di contrasto e nell’uso dei sistemi di IA di categorizzazione biometrica; oppure affidabile sarà l’opera di promuovere tale intelligenza nel rispetto dei cosiddetti valori europei comuni, quali, ad esempio, la sicurezza alimentare, l’istruzione e formazione, i media, sport, cultura, la gestione delle infrastrutture, l’energia, i trasporti e la logistica, i servizi pubblici, la sicurezza, la giustizia, l’efficienza dal punto di vista energetico e delle risorse, il monitoraggio ambientale, la conservazione e il ripristino della biodiversità e degli ecosistemi.
È un piccolo elenco dei diritti umani da tutelare comunque in Europa, anche e nonostante le nuove forme di AI. Affidabile, insomma, sarà quella AI che non comporti pregiudizi per la persona umana (è chiaro, anche testualmente, un approccio antropocentrico), compresi il pregiudizio fisico, psicologico, sociale o economico.
Affidabili, continua il testo europeo, saranno, tuttavia, le norme, se esse saranno «chiare e solide nel tutelare i diritti fondamentali, sostenere nuove soluzioni innovative e consentire un ecosistema europeo di attori pubblici e privati che creino sistemi di IA in linea con i valori dell’Unione e sblocchino il potenziale della trasformazione digitale in tutte le regioni dell’Unione. Stabilendo tali regole nonché le misure a sostegno dell’innovazione, con particolare attenzione alle piccole e medie imprese (PMI), comprese le start-up».
Approccio antropocentrico e rilevanza di un “occhio” antropologico-religioso
Nello AI Act europeo si fa testuale riferimento alla persona, in senso fisico e giuridico. Lo si legge, per esempio in rapporto all’intelligenza artificiale utilizzata per la verifica biometrica, cioè in ordine al «riconoscimento automatico di caratteristiche fisiche, fisiologiche e comportamentali di una persona, quali il volto, il movimento degli occhi, la forma del corpo, la voce, la prosodia, l’andatura, la postura, la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna, l’odore, la pressione esercitata sui tasti, allo scopo di determinare l’identità di una persona confrontando i suoi dati biometrici con quelli di altri individui memorizzati in una banca dati di riferimento, indipendentemente dal fatto che la persona abbia fornito il proprio consenso» (n. 15).
Ora, l’intero dibattito, che potremmo denominare “macchine ultramoderne e persona”, potrebbe riaprirsi ricordando il nodo cristiano della persona. Come una volta si riconosceva per la satira – satura quidem tota nostra est[5] –, è proprio grazie all’orizzonte cristiano che oggi possiamo affermare persona tota nostra est. Ecco anche perché, in occasione della Giornata per la pace del 2024, papa Francesco ha scritto, nel suo tradizionale Messaggio: «I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana. Inoltre, le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti, in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente. […]
I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana. Inoltre, le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti, in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente. […]
L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come “l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità”» (n. 2).
In quest’alveo, se accettato, sarà facile segnalare il divario incolmabile che esisterà tra questi sistemi nuovi, per quanto sorprendenti e potenti, coi loro algoritmi generativi, e la persona umana. Se è vero, infatti, che l’avventura della fede e il suo incontro con le culture, già in atto da oltre duemila anni, chiede ai credenti della società informatica e digitale di porre sempre da capo la questione della verità, che è Gesù Cristo, e, in connessione con essa, di porre sempre da capo la rilevante questione della persona umana e della sua libertà, di fronte all’esigente proposta cristiana, la conseguenza diviene inevitabile.
L’attuale moltiplicata possibilità di opzioni tecnoscientifiche, veritative ed etiche, in un vero e proprio “mercato” di occasioni sempre emergenti, tendenzialmente infinito, domanderà alle persone di fede di rendersi sempre più conto che non è più fattibile trovare facili occasioni di “uscita” dal proscenio.
Occorrerà, comunque, compiere delle scelte, seppur storicamente provvisorie e opinabili. Esse, però, non potrebbero mai abbandonare il vero soggetto e il vero metodo di ogni opzione che, nella prospettiva cristiana, è, e deve restare, Dio in Gesù Cristo.[6]
La Gaudium et spes scriveva, al paragrafo 25: «Dall’indole sociale dell’uomo appare evidente come il perfezionamento della persona umana e lo sviluppo della stessa società, siano tra di loro interdipendenti. Infatti principio, soggetto e fine di tutte le istituzioni sociali è e deve essere la persona umana, come quella che, di sua natura, ha sommamente bisogno di socialità, poiché la vita sociale non è qualcosa di esterno all’uomo, l’uomo cresce in tutte le sue doti e può rispondere alla sua vocazione attraverso il rapporto con gli altri, i nostri doveri, il colloquio con i fratelli».
Nel fondo, insomma, deve rimanere il rifiuto della concezione individualistica dei diritti umani, perché ogni diritto richiede necessariamente un dovere, e questo introduce il principio fondamentale della Dottrina sociale della Chiesa, che è quello della “solidarietà”.
Per questo si fanno sempre più urgenti questioni etiche fondamentali: saremo capaci di gestire l’intelligenza artificiale con consapevolezza e saggezza? Che grado di discernimento sarà possibile trasmettere a questo tipo di intelligenza?
Vale allora sempre la regola del buon senso, per come ricorda – ad esempio – anche tra gli scienziati, l’americano Jerry Kaplan: «Alla fine lo tsunami delle nuove tecnologie diffonderà una straordinaria era di libertà, felicità e comodità, ma sarà una corsa a ostacoli se non teniamo fermamente le nostre mani sul timone del progresso».
[1] Giovanni Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate (1586).
[2] https://www.clementinagily.it/materiali/oscom/scuole/mitoorfeo/nuova_pagina_16.htm [14.3.2024].
[3] H. Bergson, Les deux sources de la morale et de la religion, Alcan, Paris 1932, 1236-37.
[4] C. Zanfi, Bergson, la tecnica, la guerra. Una rilettura delle “Due fonti”, Bononia University Press, Bologna 2009, 139.
[5] Quintiliano, Institutio oratoria, X, 1, 93-95: «Satura quidem tota nostra est, in qua primus insignem laudem adeptus Lucilius quosdam ita deditos sibi adhuc habet amatores ut eum non eiusdem modo operis auctoribus sed omnibus poetis praeferre non dubitent».
[6] Cf. A. Milano, Quale verità. Per una critica della ragione teologica, EDB, Bologna 1999.