Confesso di non essere dotata di strumentazioni adeguate a sviluppare analisi geopolitiche approfondite sulla contemporaneità. Che le elezioni americane le avrebbe vinte Donald Trump mi sono ritrovata a pensarlo semplicemente tornando a riflettere su alcune pagine illuminanti di Régine Pernoud.
La grande medievista francese, autrice di saggi che hanno contribuito in misura decisiva a scardinare l’idea del Medioevo come un’epoca arretrata e oscura, in tutti i suoi lavori, a partire da quello forse più conosciuto – La donna al tempo delle cattedrali – ha sfatato molti miti negativi sull’età di mezzo e, in particolare, ha portato ad evidenza il legame profondo che, in età medievale, teneva unite regalità e autorevolezza femminile.
Dal momento che la regalità si dà per nascita e non per merito, nel Medioevo le figlie dei nobili e dei sovrani venivano considerate per natura superiori a qualsiasi uomo non nobile, ricco o colto che fosse; proprio questo assunto, ci dice Pernoud, spiega la straordinaria ricchezza di figure femminili autorevoli dell’epoca medievale: regine, badesse, sante – donne che, in forza della nobiltà dei loro natali, esercitarono un incontestato potere politico e religioso.
Pernoud ci ha anche messo in guardia rispetto a quelle che siamo soliti considerare come conquiste della modernità tout court, portandoci a riflettere sul fatto che le istanze democratiche, sorte in età moderna con l’obiettivo primario di scalzare i privilegi nobiliari, nel momento in cui hanno azzerato i benefici che, per nascita, conferivano solo ad alcune la possibilità di assumere ruoli di potere, si sono però ben guardate dal promuovere l’accesso ai diritti per tutte.
La democrazia non si addice alle donne – come dimostra la ghigliottina che, il 3 novembre 1793, a distanza di una manciata di anni soltanto dalla presa della Bastiglia, calò sulla testa di Olympe de Gouges, autrice della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina.
Il modello democratico che guidava gli assalitori della Bastiglia riproponeva, sostanzialmente, lo stesso schema dell’Atene classica: una democrazia esclusivamente per cittadini maschi, non per gli stranieri, non per gli schiavi, e per le donne men che meno.
D’altro canto, a rendere più efficace il concetto ci avrebbe pensato, di lì a dieci anni, quel granduomo di Napoleone con il suo Codice Civile, che veniva a sancire per via giuridica l’inferiorità delle donne all’interno della struttura familiare e ne soffocava ogni aspirazione col capestro della potestà maritale.
La nascita delle moderne democrazie non si è tradotta in una concomitante e paritaria condivisione di prerogative e funzioni fra uomini e donne, anzi, per le donne l’impervio sentiero che ha condotto alla conquista dei diritti si è dischiuso a fatica, tra la riluttanza dei maschi ma anche delle donne stesse: pensare le donne come soggette accreditate ad esercitare diritti allo stesso modo degli uomini chiede un cambio di paradigma non indolore, la cui realizzazione non può dirsi ancora compiuta.
L’abitudine, anche solo mentale, crea zone confortevoli, uscire dalle quali costa sforzo e fatica – un prezzo troppo alto da pagare per molte persone.
E così, mentre con gli occhi ci sembra di guardare in avanti, i nostri piedi rimangono saldamente fissati alle strutture di un simbolico che prevede come unico e accettabile ruolo autorevole per le donne quello di regina della casa: la società borghese moderna, alimentata dal soffio delle idealità illuministe ma cresciuta in simbiosi con il capitalismo, anziché promuovere una vera e profonda liberazione delle donne, le ha soffocate con i lacci feroci della mistica della femminilità.
Certo, formalmente le democrazie contemporanee hanno assunto la sfida di pensarsi come societas in cui «tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali», secondo quanto afferma con chiarezza assoluta l’articolo 3 della nostra Costituzione. Ma le strutture simboliche hanno fondamenta, pareti e tetto più resistenti di ogni pur chiaro dettato legislativo, e tutte le volte che una donna si avvicina con passo deciso a quelle pareti e a quel soffitto di cristallo sente frusciare dietro di sé l’ombra di Olympe de Gouges.
Oggi, però – mi obbietterete –, il nostro presidente del Consiglio dei ministri è una donna. Infatti. Il presidente, non la presidente. La scelta di mantenere al maschile un nome comune che, secondo le più elementari regole della grammatica italiana, può essere declinato al femminile senza alcuna difficoltà, semplicemente sostituendo l’articolo maschile con l’articolo femminile, la dice lunga sulle fatiche della democrazia ad assumere la presenza delle donne come costitutiva della democrazia in sé e della democrazia per sé.
Nel suo primo discorso ufficiale da premier, ad ottobre 2022, Giorgia Meloni citò esplicitamente il nome di sedici donne italiane che, «con le assi del proprio esempio», avevano realizzato la scala che le aveva permesso di salire fino alla presidenza del governo.[1]
Attraverso quella catena di nomi femminili Meloni, probabilmente senza saperlo, stava mettendo in atto la pratica femminista della (ri)nominazione, per la quale “dare nome” non si pone mai come mero esercizio superficiale, limitato alla semplice ad-posizione di parole, giacché è proprio la parola-che-nomina a permettere a ciò-che-è-nominato di “prendere luogo”.
Per noi donne, in particolare, nominare con riconoscenza altre donne che, con la loro storia e la loro esperienza, ci hanno “ri-messo al mondo”, aprendoci strade altrimenti impercorribili, dare cioè ospitalità ad una genealogia femminile, ci permette il riconoscimento della filiazione da altre della nostra stessa personale auctoritas.
Ma Giorgia Meloni non deve avere molta dimestichezza con le pratiche e i pensieri del femminismo o, meglio, dei femminismi. La riconoscenza che sa riconoscere filiazioni e genealogie femminili ha presto ceduto il passo a ben altre disposizioni – ne è spia significativa la categorica volontà di assumere la titolazione del proprio ruolo esclusivamente al maschile.
Anche recentemente, in occasione della chiusura della campagna elettorale in Umbria ed Emilia-Romagna, la presidente del Consiglio dei ministri non ha perso occasione per farsi beffe delle femministe, della parità e dell’in-significante pretesa di attribuire il genere femminile ai nomi delle professioni e delle funzioni (“capatrenaaaa, presidentaaaa”, ha declamato con enfasi teatrale a beneficio del suo pubblico plaudente).
Il linguaggio non è neutro. Le scelte linguistiche non sono neutre, né tanto meno neutrali. A dispetto delle apparenze, l’uso del maschile che neutralizza le differenze conferma la subordinazione e la gerarchia. Alla voce Femminilità del suo Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile,[2] Alice Ceresa scriveva:
«Femminilità. Somma delle qualità che derivano dall’essere grammaticalmente subordinati. (…) Le qualità spirituali della femminilità sono pertanto l’arrendevolezza e la soppressione grammaticale del femminile in favore del predominio dell’articolo maschile. (…) La femminilità è pertanto una assunzione totale e consenziente della subordinazione grammaticale».
Decidendo di farsi chiamare il presidente anziché la presidente, e sbeffeggiando il pensiero dei femminismi, Giorgia Meloni si pone in continuità con l’ordine simbolico maschile che propone la virilità come modello unico e parametro universale del potere. Anzi, proprio dal suo essere donna questo modello trova conferma e rinforzo.
Che l’imperialismo americano in veste di democrazia non fosse ancora pronto a riconoscersi in una donna presidente l’ho pensato così, semplicemente, intrecciando Régine Pernoud, Giorgia Meloni e l’ordine simbolico del padre.
[1] I nomi citati sono quelli di Cristina Trivulzio di Belgioioso, Rosalie Montmasson, Alfonsina Strada, Maria Montessori, Grazia Deledda, Tina Anselmi, Nilde Iotti, Rita Levi Montalcini, Oriana Fallaci, Ilaria Alpi, Mariagrazia Cutuli, Fabiola Giannotti, Marta Cartabia, Elisabetta Casellati, Samantha Cristoforetti, Chiara Corbella Petrillo. Nel testo del discorso vengono citati, per altro, i soli nomi, senza i cognomi, e anche questo dato meriterebbe una riflessione.
[2] Alice Ceresa, Piccolo dizionario dell’inuguaglianza femminile, nottetempo 2020
Il testo e’ fantastico! Vola sulle ali del tempo ed e’ illuminante per tentare una analisi prospettica. Ogni fattore socio culturale tende a modificarsi in uno scenario che puo’ essere rappresentato su un piano cartesiano. Mettendo il tempo sulle ascisse e il movimento dei diritti della donna sulle ordinate si inizia a vedere un trend. Ovviamente occorrono dati statistici ed un algoritmo per inquadrare matematicamente un fenomeno, ammesso che esista e sia esito di spinte di riscatto o di opposizione ad un ipotetico patriarcato. Un trend cosi identificato puo’ essere proiettato nel futuro e vedere dove potrebbe andare a parare entro quanti anni. Forse Anna ha in testa nuovi scenari ipotetici da realizzare e realizzabili. Forse.
Che pesantezza.
Si chiama cultura. Un fardello a volte molto pesante per alcune persone e leggero per altre
Ma figurati, ho almeno 4 libri di Judith Butler in casa e ho letto pure Foucault e Said, quindi conosco bene la fonte di tutti questi studi post-strutturali, postcoloniali, di genere e bla bla. Pero’ onestamente gia’ non sono particolarmente interessanti di loro (mi piace giusto Said e qualche cosa di Butler) ma qua stiamo allungando il brodo da 10 anni… Passi gli originali ma le copie, delle copie delle copie, che scrivono cose trite e ritrite anche basta.
Brava Anita. Ottime intuizioni. Dobbiamo fare tanta strada , ma il maschilismo ha il destino segnato e la femminilità sarà il segno del rispetto e della pace.
Questa storia della lingua è proprio forte.
Ho dovuto litigare, durante un CdA, per impedire al segretario di scrivere che “risultano present* quattro Consiglier* e, pertanto, *l* President* dichiara la seduta validamente costituita e atta a deliberare”.
Come ho fatto?
Ho preteso che “la seduta” venisse scritto al maschile “il seduto”.
In questo modo è risultato chiaro che la grammatica e la politica sono due cose distinte e separate.
Ringrazio Anita, mi sembra che tutto ciò che ci racconta abbia un respiro e una profondità che si trovano poco negli scritti attuali (ma ammetto che leggo selettivamente!) soprattutto quando una donna cristiana scrive di femminismo. Continua così, è un lavoro di riflessione che può aiutare tante di noi
Sorella, ma perché tanta frustrazione? Ci sono molti modi per essere femministe: facciamocene una ragione, senza polemiche innervosite
Rivendicazioni alquanto generiche. Generalmente siamo su un altro piano di osservazioni e di studi, più obiettivi, per esempio il “patriarcato” cosiddetto, o comunque la predominanza sociale dei maschi è più evidente in quelle società biologicamente più miste, mentre, e dalla antichità che si scriveva in latino , nelle società e nei gruppi sociali di consanguinei tende a prevarele il dominio organizzativo e politico delle femmine.
Se le cose stanno così, forse ci sono anche ragioni antropologiche