Oggi, giustamente, non si parla solo di tossicodipendenza, ma di dipendenze patologiche.
Le dipendenze patologiche sono impellenze che bloccano o condizionano gravemente la realizzazione di sé e, di conseguenza, la relazione con gli altri.
Per comprendere la gravità delle dipendenze, potrebbe essere utile una veloce riflessione sul valore della libertà. Non come massimo sistema, ma come vita quotidiana e progetto di vita.
Giorgio Gaber diceva: l’unica cosa che non sono riuscito a fare è liberarmi dalla libertà. E con il ritornello “libertà è partecipazione” non intendeva solo quella politica, ma anche libertà di volare incontro al vento, elaborare un pensiero convincente anche se difforme, abbracciare senza ritegno, credere facendo fatica a credere, dubitare senza spaventarsi, guardare con meraviglia un uomo e una donna che si tengono per mano da sessantacinque anni, lottare con rabbia per ogni sfruttamento e percepirsi unici in mezzo alla folla che ascolta la musica che piace.
Libertà è esserci in tutte le cose che si vivono e accettare di aver sbagliato, senza sentirsi umiliati o percepirsi sbagliati.
Le dipendenze bloccano tutto questo… e tanto altro.
Le storie
Quando sostanze e/o comportamenti annientano, riducono o confondono gli spazi della libertà, fanno dimenticare i connotati del Sé. Le persone diventano impossibilitate a vivere la propria identità e le responsabilità che ne derivano.
Sarebbe semplicistico affermare che sono i viziosi a cercare le sostanze e/o i comportamenti che alterano la consapevolezza, come sarebbe altrettanto semplicistico affermare che tutto questo è il risultato del contesto alienante.
Indubbiamente, i condizionamenti ambientali contribuiscono a rendere maggiormente faticosa la libertà interiore. Le potenzialità umane, però, sono sufficienti per seguire l’evolversi positivo della storia di ognuno.
Fondamentale prendere atto che le dipendenze patologiche sono quasi sempre sintomi di qualcosa di più profondo. L’“oggetto patogeno” non sta nella dipendenza. La dipendenza nasconde, illude, allontana da.
Le persone che entrano nelle comunità hanno storie di grave insignificanza.
Se non sei importante per nessuno, tanto vale! Non si riesce a individuare il valore di sé, e quindi i pensieri, i sentimenti, le mozioni e i desideri propri. Persino i bisogni.
Entrano in comunità persone che hanno alle spalle abbandoni, violenze, traumi significativi.
Nella percezione del niente di sé s’incunea il desiderio di soffrire meno o di esaltarsi il più possibile per essere all’altezza.
Così si destruttura quel minimo di unicità, indispensabile per trovare “il senso di sé”, come direbbe Victor Frankl.
La non appartenenza, la vita di strada, la povertà economica, l’assenza o l’incapacità di tenuta al lavoro bloccano le prospettive di qualsiasi tipo.
Accogliere per prendersi cura
Chi entra in comunità chiede di essere aiutato. All’inizio, spesso è spinto da circostanze impellenti. Fondamentale l’accompagnamento al riconoscimento del bisogno di essere aiutato
Le comunità non accolgono tossicodipendenti, ma persone con problematiche complesse.
«Dentro ogni paziente, e in ogni situazione clinica c’è la crisalide di un profondo damma umano» (da Il senso della vita di Irvin Yalom).
Il dramma della dipendenza patologica sta nell’“essere squinternati”, e il processo di cambiamento avviene attraverso relazioni che valorizzano, facendo ritrovare le coordinate personalizzate necessarie per vivere.
Queste variano secondo la realtà di ogni persona.
Le persone accolte portano bisogni molteplici e variegati. Diversificati quindi debbono essere le opportunità e le competenze da mettere in gioco.
Nell’équipe ogni operatore mette a disposizione la sua professionalità e le sue caratteristiche personali. Le varietà, se valorizzate, diventano utili alle diverse esigenze relazionali dei singoli ospiti.
L’armonizzazione dei compiti, la valorizzazione delle competenze e delle caratteristiche personali compongono il sistema di relazioni efficaci.
Tra chi si prende cura e chi chiede aiuto non esiste differenza di natura, ma di competenza e le relazioni che ne conseguono esigono valorizzazione e rispetto.
Analizzate le storie e percepite le ragioni dell’insignificanza, l’accompagnamento deve mettere al centro la conoscenza di sé, un protagonismo che valorizza, anche attraverso l’esperienza comunitaria in cui si viene accolti.
Percepire un’appartenenza positiva è fondamentale per chi ha vissuto di solitudine e di strada.
Una sana appartenenza è sempre accompagnamento verso una vita autonoma fuori dalla struttura. I tempi lunghi e la standardizzazione dei comportamenti favoriscono deprimenti istituzionalizzazioni.
Ultima osservazione, ma non di secondaria importanza: fa parte del prendersi cura anche il prendere atto dei limiti e del bisogno di essere aiutati per non moltiplicare i danni.
Capacità di fare rete
La presunzione di fare tutto è nettamente in contrasto con i bisogni molteplici delle persone accolte. Indispensabile, quindi, definire le forze interne e integrarsi con le opportunità del territorio.
Per chi è accolto, l’accreditamento è garanzia di professionalità e integrazione di risposte.
Ben venga tutto ciò che un territorio può offrire per aiutare le persone in difficoltà. Non necessariamente hanno bisogno di un accreditamento istituzionale, ma è fatto obbligo il riconoscimento e il rispetto della richiesta di aiuto e l’adeguatezza delle risposte.
Per essere credibile, l’istituzione che accoglie deve essere chiara e trasparente nel rendere pubblica la provenienza dei soldi.
Criteri valutativi
Indiscutibile la deontologia professionale. Nello stesso tempo, non vanno dimenticati i criteri del buon senso civico.
Tutto ciò che non è penale non necessariamente è lecito. Argomento delicato, ma fondamentale quando si parla di servizi alle persone in difficoltà.
La conoscenza della tipologia del dolore delle persone che stanno chiedendo aiuto è indispensabile per operare in coerenza.
Tra chi presta aiuto e chi lo chiede non esiste differenza di natura, ma di ruolo.
Chi presta aiuto rispetta, cerca di capire, mette in atto la sua professionalità integrandosi con le altre in gioco, opera per promuovere autonomie valorizzanti, cerca di capire e di rispettare i tempi. Sa anche chiedere scusa, quando si è reso conto di aver sbagliato.
Non è terapeutico il semplice contenimento come sono assurdi, controsenso e drammaticamente incoerenti atti violenti, linguaggi irrispettosi e l’induzione a comportamenti umilianti che ledono la dignità. Assurdo anche immaginare aiuti personalizzati in “comunità affollate”.
Fondamentale invece mettersi nella visione relazionale suggerita da Irvin Yalom in Diventare sé stessi: «Evitate le diagnosi. Lasciate che il paziente sia importante per voi… Empatia: guardare dal finestrino del paziente… In terapia, la forza del cambiamento non è un’intuizione intellettuale, non è un’interpretazione, ma è invece un incontro profondo e autentico tra due persone».
In questo senso, il prendersi cura – oltre che essere una gioiosa avventura – fa crescere anche chi presta aiuto con competenza.