Due note a margine sull’Ultima cena delle drag queen
È stata l’Ultima cena di Leonardo o il Festino degli Dèi di van Biljert ad ispirare il tableau Festivité della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Parigi? Dopo la repentina reazione e la dura condanna dei vescovi francesi, indignati per la blasfema derisione dei contenuti religiosi del dipinto di Leonardo, il regista e direttore artistico Thomas Jolly si è affrettato a precisare che non era assolutamente nelle sue intenzioni offendere i sentimenti religiosi di chicchessia ma che, anzi, la sua volontà era quella di celebrare la dimensione gioiosa della festa in forme e modi il più possibile inclusivi.
Nella scena che ha suscitato così numerose polemiche veniva evocato un banchetto olimpico – trattandosi di Olimpiadi, ha detto Jolly, gli era sembrato doveroso celebrare gli dèi dell’Olimpo, con tanto di intervento conclusivo di Dioniso, dio del teatro e dell’ebbrezza.
Se le parole del regista hanno, in qualche modo, sgonfiato il fronte degli attacchi, a margine dell’episodio resta lo spazio per almeno un paio di riflessioni.
Indignatevi!
La prima. Che la gente si indigni è una cosa buona, perché finché c’è indignazione c’è partecipazione, e non c’è indifferenza. L’indignazione è, infatti, un sentimento che, pur prendendo le mosse da una percezione soggettiva, cioè da qualcosa che sento io, chiede di non restare chiuso nel giro ristretto della singola soggettività ma di aprirsi al piano del noi, cioè ad un piano collettivo e politico.
L’indignazione motiva a prendere parola e ad agire per cercare di cambiare le cose. Chi è indignato non può tacere, ma si sente in dovere di parlare, non solo e non tanto a nome o per conto proprio, ma per il bene di tutti, in nome, cioè, di un bene che viene percepito e sentito come bene comune.
Poco più di dieci anni fa, nel 2011, aveva riscosso grande successo editoriale un piccolo pamphlet dal perentorio titolo Indignez-vous! (Indignatevi!). L’anziano autore allora novantatreenne, Stéphane Hessel, ex partigiano ed ex diplomatico francese, con quel libricino di una ventina di pagine si rivolgeva in modo particolare ai giovani, invitandoli a guardare i mali della realtà contemporanea non con distacco, rassegnazione o indifferenza, ma alimentando in sé un forte senso di responsabilità.
Dobbiamo vigilare perché la società in cui viviamo sia una società di cui poter essere fieri, scriveva Hessel, dobbiamo stare sempre all’erta e attenti a ciò che accade attorno a noi, perché troppe cose sembrano rimettere in discussione le conquiste democratiche per cui si è battuta la Resistenza. Dobbiamo avere la forza e il coraggio di indignarci e non tacere, quando i valori della democrazia corrono il rischio di essere azzerati.
Hessel parlava dell’indignazione come di un sentimento vitale, capace di restituirci alla pienezza della nostra umanità: coltivare l’indignazione ci permette di vivere in modo empatico e ci aiuta a non scivolare nell’indifferenza o, peggio, nel cinismo.
L’indignazione è, dunque, un sentimento squisitamente politico e civile e, proprio per questo motivo, anche cristiano. Peccato che troppo spesso il sentimento di cristiana indignazione si attivi soltanto davanti a questioni legate, in modo diretto o indiretto, alla morale sessuale o alla blasfemia, cioè alle sfere deputate, in modo diverso ma complementare, a mantenere, conservare e tramandare l’impianto sacrale della religione, più che a farsi voce di Vangelo.
I vescovi francesi hanno redatto con encomiabile tempestività un bel comunicato per condannare le scene della cerimonia inaugurale delle Olimpiadi parigine che, a loro parere, hanno deriso il cristianesimo. Mi piacerebbe vedere reattività altrettanto solerti e sollecitudini altrettanto tempestive di fronte a chi ogni giorno costruisce ricchezza, consenso e potere fabbricando e vendendo armi, potenziando politiche belliciste, sfruttando, abusando e violentando vite. Questa sì, sarebbe indignazione evangelica, capace di vera profezia.
Ridere degli dèi, ridere con gli dèi
La seconda riflessione viene dalla lettura di un interessante saggio di «umorismo teologico», dal titolo Ridere degli dèi, ridere con gli dèi, firmato da Maurizio Bettini, professore di Filologia classica, Massimo Raveri, studioso di religioni e filosofie orientali, e Francesco Remotti, antropologo. In questo lavoro i tre studiosi esplorano le modalità diverse con cui le religioni monoteiste e politeiste si rapportano al fenomeno del riso e della comicità.
Mentre nelle tre religioni abramitiche – ebraismo, cristianesimo, islam – la possibilità di ridere di Dio è semplicemente impensabile, quasi vi fosse una antinomia insuperabile tra monoteismo e riso, il politeismo del mondo classico, le religioni orientali, in particolare il buddhismo zen giapponese, e le cosiddette «religioni senza nome» dell’Africa e del Nordamerica contemplano la comicità come possibile espressione del divino: gli dèi di queste religioni, che coabitano con gli uomini e vivono al loro fianco, come gli uomini e con gli uomini soffrono e ridono. E non solo gli dèi ridono e scherzano fra loro e ridono e scherzano con gli uomini, ma anche gli uomini possono ridere e scherzare dei loro dèi.
Le joking religions (religioni umoristiche) hanno con il riso un rapporto profondo, fondativo della stessa relazione con il divino. Si può ridere degli dèi e insieme agli dèi senza che venga meno il rispetto nei loro confronti e nei confronti della stessa essenza divina, perché ridere è, in primo luogo, espressione del rifiuto di assolutizzare sé stessi e di idolatrare il divino. Nemmeno del Buddha si deve fare un idolo, dicono i maestri zen. Anzi, quando incontri un Buddha, uccidilo!
Il comico ha sempre a che fare con l’umano; l’esperienza della comicità e del suo sguardo paradossale sul mondo permette di innescare una salutare opportunità di demistificazione degli eccessi che l’attribuzione di sacralità spesso porta con sé. Per questo le risate fanno paura: il riso che si prende gioco e ride della divinità rende possibile uno sguardo «altro» che desacralizza il divino aprendo a spazi impensati di libertà.
I monoteismi non tollerano la mescolanza tra sacro e profano; l’indicazione è netta, perentoria: coi fanti si può scherzare, ma i santi bisogna lasciarli stare. Così, come una vignetta considerata blasfema può giustificare una strage – tutti ricordiamo l’attentato a Charlie Hebdo –, il sacro evocato attraverso corpi non conformi impone l’intervento repentino delle competenti autorità ecclesiali – quanto meno, non potendo altro, tramite severe e censorie reprimende.
Ma se, come scrive Raveri, la risata finale è come una conversione, e una resa all’incongruità dell’esistenza, perché non pensare che, fosse stata proprio l’Ultima cena di Leonardo ad ispirare il tableau Festivité della cerimonia di apertura dei giochi olimpici di Parigi, Gesù stesso, anziché indignarsi per nulla, si sarebbe fatto una bella risata?
Da tempo il termine “religione” non mi soddisfa, perché intriso, paradossalmente, di contrappozioni e di sentimenti di odio e non il loro contrario. Quello che ognuno di noi custodisce nel cuore quando ci riferisce ad una dimensione altra è sgombro
delle prescrizioni e direttive , che normalmente si fanno discendere dal religioso, ma è una pienezza fatta da gesti e parole risalenti all’infanzia e donataci da figure religiose a prescindere perché il loro amore era divino come quello di Dio per l’uomo.
Detto ciò, l’evento in oggetto mi suscita indifferenza e le polemiche aggiunte mi sembrano davvero vuote
di senso.
Siamo arrivati al punto che non si riesce più o non si vuole, per quieto vivere, distinguere l’umorismo dalla farsa blasfema?
Trovo il testo di Anita Prati nel complesso leggero e con una buona uscita nel finale. Una cosa però non mi convince affatto. Sarei quasi a dire che si tratta di un infortunio (da correggere). A un certo punto del ragionamento – forse riportando quanto sostengono tre studiosi dell’umorismo di Dio (Bettini, Raveri, Remotti) – si afferma che “nelle tre religioni abramitiche la possibilità di ridere di Dio è semplicemente impossibile”, a differenza delle religioni politeiste. Ma siamo proprio sicuri? La religione ebraica – tanto nella Scrittura (Qohelet, Giona per fare solo qualche esempio) quanto nella tradizione rabbinica anche dopo Auschwitz – presenta un Dio che ride e un popolo che sa ridere di Dio. Eccome! Ma lo stesso cristianesimo, aldilà di una tradizione ecclesiastica bigotta e tetra, conosce un filone cospicuo di un autentico umorismo teologico lungo tutti i secoli (basti pensare a Francesco d’Assisi, Filippo Neri, Tommaso Moro e persino a un “insospettabile” Benedetto XVI). Quindi, a mio modesto avviso, bisognerebbe apportare una modifica.
Francesco d’Assisi irrideva Dio?
Lo stesso facevano Filippo Neri, Tommaso Moro e Benedetto XVI?
Ridevano di Dio?
Lo prendevano in giro?
Ma dove?
Ma quando?
Non mi pare proprio.
Guarda che le ‘competebti autorita’ cattoliche” e il papa in primis, il Vescovo di Parigi, sono rimasti certamente indifferenti. A protestare sono stati gli spettatori cattolici ( e anche mti non cattolici) di tutto il mondo. Lo scollamento totale fra le élite religiose che vivono nell’altro bolla e il popolo di Dio rispecchia lo scollamento fra le élite politiche e il popolo . Papa, cardinali e vescovi stanno sullo stesso scranno di Macron e dei potenti di questa terra. Solo la Guida religiosa dell’Iran ( musulmana) ha protestato .
Ho paura che invece nel Giorno del Giudizio questi cattolici d’accatto che riescono a giustificare l’irrisione a NSGC non rideranno affatto. Sant’Alfonso Maria dei Liguori aiutaci Tu.
C’è un elemento fondamentale che manca in questa analisi e cioè che il mettere alla berlina il senso religioso cristiano è funzionale alla affermazione di filosofie, in questo caso quella gender, che vede nella Chiesa un nemico da affiancare ad appellativi quali : retrograda, medioevale, bigotta ecc. ecc. e che va combattuta con ogni mezzo, tra i quali la delegittimazione, che si estrinseca bene nel suscitare il riso collettivo, è quello preferito.
Ancora con questa storia? Ma dove l’avete vista L’Ultima Cena di Leonardo all’apertura delle Olimpiadi di Parigi? Per di più l’autore ha precisato benissimo di quale soggetto si trattava e ha chiesto scusa a chi, interpretando questa scenografia come gli pareva (quindi in modo errato), si è sentito offeso. Non basta ancora? Ma non è che se adesso io mi siedo a tavola con un gruppo di amici, i cristiani mi accusano di offendere la loro religione? Vogliono forse imitare gli islamici che vedono in tutto un’insulto alla loro fede? Ma la volete finire? Vivete (o non vivete, come mi pare) e lasciate vivere, per cortesia!