Non sono mancate forme più o meno spontanee di gestione collettiva della terra o di villaggi-azienda (dal mir russo alla comune cinese). Esse, però, non hanno retto alla prova della modernità. Il kibbutz israeliano è forse l’unica forma comunitaria in grado di coniugare cooperazione ed efficienza. Ciò è legato innanzitutto a fattori culturali, prima che organizzativi. O meglio: l’organizzazione, in tali casi, esprime più che mai una cultura.
Da un lato, a livello psico-antropologico, l’individuo ha, nell’ebraismo, un valore decisivo. È al singolo, innanzitutto, che l’Eterno si rivolge, nei testi biblici. È a Sara che, a dispetto dell’anagrafe e della biologia, è permesso procreare. È ad Abramo che Dio chiede di sacrificare il figlio. È a Mosè che viene affidato il Decalogo. Poi, però, vi sono prove condivise, come l’Esodo, l’uscita dalla schiavitù. E vi sono Promesse che coinvolgono tutti e tutte, e quindi ciascuno e ciascuna. Detto altrimenti: non vi è contrasto fra la dimensione individuale e quella comunitaria.
Talora è il singolo che dice di Sì al Signore: “sì, io” (oppure “eccomi”, secondo la traduzione più nota). Altre volte Egli si rivolge all’insieme del suo popolo: “Ascolta, Israele”. Del resto il nome stesso del popolo, Israele, nasce come nome di una singola persona (Giacobbe, che diviene Israele, “Colui che contende con Dio”).
Ed è seducente constatare, millenni dopo, come, in particolare nel corso del Novecento, il marxismo venisse recepito da autori di cultura ebraica. Non in contrasto con l’idea di individuo, bensì come possibilità ulteriore di esprimerne le potenzialità. Non a caso, André Neher, sionista convinto, definiva il neomarxismo di Ernst Bloch come il controcanto di una melodia ebraica. E, più in generale, scorgeva in ciò che viene concepito soltanto nella dimensione “orizzontale”, interumana, l’eco di una fede lontana. Anzi, da mistico sui generis, giungeva a sostenere che il discorso orizzontale fosse l’unico ormai possibile; che, al limite, rispetto al silenzio di Dio, non ne fossero possibili altri. Come se Dio non ci fosse, direbbe Dietrich Bonhoeffer.
Dai tempi dell’Urss e dall’esempio della Cina, invece, percepiamo non di rado il socialismo reale come una trasposizione moderna delle satrapie orientali; come un sistema dispotico pronto a mortificare il singolo. Come un “casermone” o un “alveare” che non considera me, te, quell’uomo, quella donna; un “alveare” pronto a immolarci in nome del tutto.
Ecco, la cultura ebraica e la storia di Israele rappresentano un contrappunto rispetto a una visione del genere. Da qui la loro importanza, anche, per la sinistra globale, inclusa quella del mondo arabo. Guai a confonderle con la linea di un governo o di un premier. Essi, anzi, andrebbero contrastati con forza e decisione proprio grazie a quel retroterra culturale. E le sinistre, le sinistre di tutto il mondo, dovrebbero tornare a imparare l’una dall’altra.