Ecco la guerra

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letteratura

Jacob Flanders è un piccolo monello testardo in cerca di avventure, che si arrampica sugli scogli e cattura granchi opalescenti. È un ragazzino introverso, che va in cerca di farfalle e studia latino con il signor Floyd.

È un giovanotto che, nel 1906,inizia a studiare a Cambridge e si appassiona a Lucrezio e Virgilio. È un giovane silenzioso e distinto, che vive a Londra e si innamora di Clara, e poi parte per un lungo viaggio in Grecia e scrive lettere alla madre, vedova ormai da molti anni.

Jacob Flanders

Virginia Woolf racconta la sua vita in un romanzo pubblicato nel 1922, dal titolo La stanza di Jacob. L’apparenza è quella di un Bildungsroman, un romanzo di formazione; ma quella data, 1906, incuneata alla fine del secondo capitolo («Jacob Flanders, dunque, nell’ottobre del 1906 andò a Cambridg»)[1] costringe i lettori a fare i conti con la Storia, mentre quella che sembrerebbe la graduale messa a fuoco di un percorso di crescita e di maturazione dall’infanzia all’età adulta, si rivela essere un progressivo avanzare verso il vuoto, tra inesorabili dissolvenze.

Nei primi anni del Novecento la guerra è come un’ombra all’orizzonte di ogni vita; un’ombra di cui, ne La stanza di Jacob, non si parla mai in modo esplicito e diretto. Soltanto quando il romanzo sta per terminare una pennellata quasi furtiva ne coglie un rapido accenno, mentre tratteggia i pensieri di Betty Flanders, madre di Jacob: «Di nuovo, lontano, sentì il suono sordo, come se le donne di notte sbattessero degli enormi tappeti. Morty era scomparso, Seabrook era morto, i suoi figli in guerra per la patria».[2] Si chiude così il tredicesimo capitolo.

Il successivo, l’ultimo, occupa poco meno di due pagine: Betty Flanders e Bonamy, amico di suo figlio, fermi nella stanza di Jacob, assorbono come stupiti il vuoto della sua assenza: «Inerte è l’aria in una stanza vuota, appena appena si gonfia la tenda; nel vaso oscillano i fiori. Una fibra della poltrona di vimini, dove non c’è seduto nessuno, scricchiola».[3]

Le progressive sottrazioni su cui è costruito il romanzo ci conducono per mano alla sottrazione definitiva, portandoci a scoprire che quello di Jacob è, in realtà, un contro-romanzo di formazione, giacché la sua breve vita è destinata a dissolversi e sparire nell’ombra scura della guerra: «Jacob Flanders non è più, inghiottito come tanti altri giovani della sua generazione nel disastro di una guerra, la Prima mondiale, che con sublime sapienza la scrittrice evoca nel cognome Flanders, Fiandre – ineluttabile memoria di una delle battaglie più tremende di quella guerra».[4]

Le tre ghinee

Nel giugno del 1938 Virginia Woolf pubblica il saggio Le tre ghinee. Ha ormai cinquantasei anni ed è una scrittrice affermata: dopo La stanza di Jacob, del 1922, tra il 1925 e il 1929 ha dato alle stampe alcuni fra i romanzi fondativi del Novecento europeo (La signora Dalloway, Gita al faro, Orlando) e il saggio Una stanza tutta per sé, in cui, con sguardo criticamente ironico e una originalissima trama argomentativa, ha indagato la possibilità, per le donne, di dedicarsi alla letteratura.

Le tre ghinee prende forma nell’arco di quasi due anni, tra la fine del 1936 e l’inizio del 1938, mentre l’Europa, a meno di vent’anni dalla fine della Prima guerra mondiale, è furiosamente attraversata da nuovi, tragici, venti di guerra.

Dall’Inghilterra si guarda con preoccupazione alla crescita di consenso popolare attorno ai regimi dittatoriali fascisti in Italia e in Germania. Con lo scoppio della guerra civile spagnola, nel luglio del 1936, il fermento politico a sostegno della causa repubblicana si fa ancora più vivo e, per sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo al tema della pace, vanno moltiplicandosi convegni, comitati, manifestazioni antifasciste e pubbliche sottoscrizioni.

Virginia Woolf viene interpellata tramite lettera da un avvocato, segretario di una associazione antifascista, che le chiede un intervento a sostegno della propria causa e, nel contempo, le rivolge una puntuale, stringente domanda: “Cosa, secondo Lei, si deve fare per prevenire la guerra?”.

È proprio questa domanda a dare avvio all’opera Le tre ghinee che, con insuperata lucidità, intreccia alla riflessione sull’assurdità della guerra la riflessione sul fascismo, sul patriarcato e sulla subordinazione delle donne.

La lettera dell’avvocato rappresenta il punto di partenza del saggio sul piano dello svolgimento argomentativo; ma per capire la particolare piegatura impressa dalla scrittrice alla sua riflessione può essere utile soffermarsi su due episodi biografici.

Nell’aprile 1935, lo scrittore Edward Morgan Forster, amico fraterno di Virginia fortemente impegnato in attività antifasciste, l’aveva informata che non avrebbe ammesso donne nel comitato da lui promosso, in quanto le donne nei comitati erano, a suo dire, solo un elemento di disturbo.

Virginia fu molto ferita dalle parole dell’amico: Forster l’apprezzava come donna e come intellettuale ma, per lui, Virginia rappresentava una eccezione rispetto a tutte le altre donne. E Virginia non voleva esser considerata un’eccezione.

E poi, nell’estate del 1937, quando la stesura del saggio procedeva ormai da qualche mese con regolarità, Virginia, insieme alla sua famiglia, si trovò a dover fare i conti in modo diretto e brutale con la follia della guerra: l’amato nipote Julian Bell, figlio della sorella maggiore Vanessa, volontario in Spagna da poco più di un mese, rimase ucciso durante un attacco dell’aviazione franchista al convoglio sanitario di cui faceva parte come autista di ambulanze.

Il dolore e gli interrogativi sollevati dalla morte di Julian le impedirono per diverse settimane di proseguire nell’elaborazione del saggio; e, quando tornò a mettere mano al lavoro, il legame profondo tra guerra e patriarcato maschilista le si era precisato alla mente in modo nitido e lineare.

Un affare per maschi

L’argomentazione della Woolf procede per snodi successivi.

«Di fronte a una domanda così importante – quale contributo possiamo dare alla prevenzione della guerra – l’avere o no ricevuto un’istruzione è decisivo. È evidente che, per comprendere le cause delle guerre, è necessario sapere qualcosa di politica, di rapporti internazionali, avere qualche nozione di economia; anche la filosofia, e persino la teologia possono darci un riferimento. Ma chi non ha ricevuto un’istruzione, chi non ha la mente addestrata, come può affrontare in modo soddisfacente problemi del genere? Una mente non addestrata non è in grado, bisogna ammetterlo, di afferrare il concetto di guerra, intesa come la risultante di forze impersonali. Altra cosa, però, è la guerra in quanto portato della natura umana».[5]

La questione “guerra” – scrive Virginia Woolf – può essere esaminata a partire da due diversi punti prospettici: la guerra può essere considerata come risultante di forze impersonali – e, allora, per cercare di districare la matassa delle cause e delle ragioni diventano fondamentali l’istruzione e l’informazione, diventa indispensabile leggere giornali, ascoltare esperti di geopolitica, studiare libri di storia, trattati di economia e di filosofia, e avere «la mente addestrata»; oppure la guerra può essere considerata come portato della natura umana, nella consapevolezza che «è la natura umana, i pensieri e le emozioni di uomini e donne comuni, a provocare le guerre».

Nel momento in cui consideriamo la guerra come “portato della natura umana”, la comprensione delle sue ragioni non può essere intesa come appannaggio esclusivo di chi, avendo ricevuto adeguata istruzione, ha la mente addestrata. Esiste, infatti, «una disciplina in cui si può venire istruiti senza pagare», una disciplina in cui le donne hanno maturato una secolare esperienza: «la comprensione degli esseri umani e delle loro motivazioni».

L’incompetenza riguardo a questioni di ordine militare, strategico e geopolitico non rappresenta, quindi, un limite per le donne, anzi, è proprio questa posizione storicamente dislocata rispetto alle pratiche militari che dà alle donne la possibilità di smarcarsi da logiche belliciste apparentemente inossidabili:

«Perché, anche se molti istinti sono ritenuti patrimonio comune dell’uomo e della donna, combattere è sempre stato un’abitudine dell’uomo, non della donna. La legge e l’esercizio hanno sviluppato quella differenza, non importa se innata o accidentale. In tutto il corso della storia si contano sulle dita di una mano gli esseri umani uccisi dal fucile di una donna; e anche la grande maggioranza di uccelli e di animali li avete sempre uccisi voi, non noi».

Le donne hanno pratica di relazioni umane, non di guerra, di armi, di strategie militari. Perciò, dice Virginia Woolf, davanti alla domanda «in che modo prevenire la guerra?», le donne, basandosi sulla propria esperienza e sulla propria psicologia, possono rispondere solo con un’altra, ovvia e radicale, domanda: «che bisogno c’è di combattere?».

Che bisogno c’è di combattere?

Per secoli, schiavi e donne sono stati ritenuti “naturalmente” inferiori; per secoli la società si è “naturalmente” strutturata su questa discriminazione.

Grazie allo svilupparsi, con l’Illuminismo, di una riflessione sui diritti dell’uomo in quanto essere umano, si è arrivati ad affermare che questa concezione discriminatoria non è iscritta in un ordine naturale, ma è originata da motivazioni di tipo culturale. Ciò ha fatto sì che oggi sia tabù considerare schiavitù e sessismo come elementi portanti, pacificamente integrati, delle nostre realtà politiche, sociali ed economiche.

Per secoli gli uomini hanno combattuto e si sono fatti la guerra. Per secoli la guerra è stata per gli uomini (maschi) un mestiere, ma anche una fonte di esaltazione e un modo per esprimere le virtù virili: «È chiaro che dal combattimento voi traete un’esaltazione, la soddisfazione di un bisogno, che a noi sono sempre rimaste estranee».

E oggi? Oggi che gli esperti di geopolitica che disquisiscono doviziosamente sulle ragioni, le opportunità e le strategie della guerra sono diventati le nuove star della Tv e che l’aggettivo “pacifista” suona come un insulto, uno sberleffo, una diffamazione da cui difendersi e prendere le distanze – oggi perché la guerra ancora non è un tabù, e non è tabù anche solo parlare e scrivere di armi, di commercio, di produzione, di utilizzo di strumenti omicidi?

Oggi perché non arriviamo ad affermare, tutti, in modo radicale, chiaro, diretto, senza correttivi e senza aggiustamenti, senza cavilli e senza palliativi, che la guerra non è scritta nel nostro DNA, che nessuna guerra può dirsi giusta e che ogni guerra non solo è inutile e orrenda, ma è anche «una sconcezza senza fine»?[6]

Ecco la guerra

La mattina del 20 ottobre 1944 uno stormo di trentasei B24 americani, in volo su Milano per un’operazione “chirurgica” di bombardamento aereo sulle acciaierie Breda di Sesto San Giovanni, per un errore nella rotta si trovò costretto a liberarsi degli ordigni già innescati prima di fare rientro alla base di Castelluccio dei Sauri, in Puglia.

Una delle bombe, sganciate sul popoloso quartiere di Gorla, nella periferia nordorientale milanese, colpì l’edificio della scuola elementare Francesco Crispi mentre i bambini, con le loro maestre, i bidelli e la direttrice, stavano scendendo di corsa le scale per recarsi nel sottostante rifugio antiaereo.

Dall’estate del 1943 Milano era stata oggetto di numerosi bombardamenti aerei da parte degli alleati anglo-americani, che volevano spingere Mussolini alla resa. La violenza della guerra si scriveva nella devastazione della città: Invano cerchi tra la polvere/povera mano, la città è morta.[7]

La strage di Gorla, che causò la morte di 184 alunni della scuola elementare, fu uno degli episodi più tragici e sanguinosi di tutta la guerra di liberazione.

I genitori dei bambini si riunirono in un comitato e, tra mille difficoltà, ottennero dal sindaco di Milano la disponibilità del terreno su cui sorgeva l’edificio della scuola distrutta dalla bomba. Qui, grazie ai loro sacrifici e alla generosità di tanti donatori, venne innalzato un monumento ai Piccoli Martiri di Gorla:[8] una madre dal volto velato tiene fra le braccia il cadavere del proprio figlio bambino e lo porge al nostro sguardo.

Alle spalle del gruppo statuario due pilastri sorreggono un architrave su cui, a caratteri cubitali, è riportata la scritta Ecco la guerra. Al di sotto del monumento, la cella ossario custodisce i cadaveri di 184 bambini.

Quanti Jacob vogliamo sacrificare ancora sull’altare della Storia? Quanti Jacob continueremo a lasciar cadere nell’asettico, anonimo conteggio degli effetti collaterali? Di quanti Jacob c’è ancora bisogno prima che nella coscienza comune maturi unanime la consapevolezza che la guerra non fa parte del nostro bagaglio genetico, ma è una sconcia oscenità che tutti i governi devono delegittimare?

Inerte è l’aria in una stanza vuota.
Una fibra della poltrona di vimini,
dove non c’è seduto nessuno,
scricchiola.


[1] Virginia Woolf, La stanza di Jacob, a cura di Nadia Fusini, Feltrinelli 2022, pag. 50.

[2] Virginia Woolf, op. cit., pag. 227.

[3] Virginia Woolf, op. cit., pag. 228.

[4] Virginia Woolf, op. cit., Introduzione pag. 14.

[5] Virginia Woolf, Le tre ghinee, Introduzione di Luisa Muraro, Traduzione di Adriana Bottini, Feltrinelli 1992, pagg. 24-25.

[6] https://ilbolive.unipd.it/it/news/leditoriale-guerra-non-scritta-dna

https://www.raicultura.it/filosofia/articoli/2019/01/Telmo-Pievani-aggressivita-e-guerra-4bd5a331-2c97-46b1-9c43-3ba5670eefb2.html

[7] Salvatore Quasimodo, Milano, agosto 1943.

[8] http://www.gorladomani.it/html/piccoli-martiri.html

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