Eroi a scadenza

di:

personale ospedaliero

La seconda fase della pandemia sta mettendo in luce un mutamento del comune sentire rispetto all’operato dei medici e, più in generale, dei sanitari.

Se, nella prima fase, questi venivano collocati all’interno di un’epica del sacrificio, narrati come eroi strenuamente impegnati a combattere il morbo – i volti segnati dalla stanchezza e da mascherine troppo strette, lontani dalle famiglie per non arrecar loro malanno, sottoposti a turni di lavoro massacranti, con un’abnegazione che ha commosso il mondo illuminando ogni possibile ombra –, questa seconda fase raccoglie sempre più spesso lamentazioni, sospetti di malasanità, accuse di enfatizzazione della realtà per trarne vantaggi personali, attribuzione addirittura del ruolo di untori.

Cosa è accaduto?

Attenzione, non sto parlando dei negazionisti: questi stanno al fenomeno che vorrei tentare di analizzare come la psicosi sta alla nevrosi. Nella prima si assiste sempre ad un frattura del rapporto con la realtà che nella seconda non si dà.

Mi spiego. I negazionisti, con le loro variegate ma in fondo stereotipate teorie del complotto planetario, con la negazione di ogni più elementare quanto tragica evidenza – niente Covid, niente ambulanze in coda, niente ospedali intasati, niente morti –, mettono in atto un meccanismo di difesa assai primitivo, tipico di certe forme di psicosi (le psicosi maniacali in particolare): l’angoscia evocata dalla malattia è talmente intollerabile che dev’essere negata per poterla eludere. Paradossalmente, il negazionista è mosso da motivazioni più profonde, potremmo arrivare a dire più autentiche, rispetto a chi oggi semina acriticamente il sospetto che, in fondo, non tutto venga fatto al meglio, che non tutti si impegnino con scienza e coscienza.

Durante l’estate, dopo il “25 aprile” della Liberazione dal Covid, molti avevano una gran voglia di lasciarsi alle spalle la paura, la sofferenza, i lutti. Normale, comprensibile, fisiologico. Forse meno fisiologico è che alcuni “autorevoli” professionisti, la cui autorità derivava loro dalla luce mediatica piuttosto che dalla scienza, abbiano gridato quel “liberi tutti” che ha incrociato la voglia della gente di dire appunto: è passata, ricominciamo…!

Quei professionisti erano convinti di ciò che dicevano? Parlavano in nome e per conto della scienza? O erano piuttosto tramite di pressioni, consce ed inconsce, che a loro volta subivano?

L’ormai vituperato virus “clinicamente morto” è risorto dalle errate previsioni (sempre ammissibili) di uno scienziato o è stato dichiarato tale per permettere alle lobby politico-imprenditoriali di ricominciare a far girare il mercato (anche questa istanza sacrosanta, ma forse di altro tipo)?

E se queste fossero state le pressioni consce, ne esistevano di inconsce? L’ammirazione generale e l’attenzione mediatica valevano più o meno di 800 pubblicazioni su prestigiose riviste scientifiche internazionali?

La risposta a queste domande è relativamente importante, ciò che appare più interessante è mettere in luce come paradossalmente il celebrato episodio rappresenti una sorta di nemesi dell’eroismo o, meglio, il punto d’arrivo delle proiezioni eroiche.

Gli eroi non esistono se non nella testa di chi ha bisogno di immaginarli tali. I salvatori di vite umane salvano innanzitutto il mondo dalla paura della fragilità. Il loro valore non è pertanto attestato dal numero di vite umane salvate ma dal vigile esercizio della funzione loro attribuita. È la medicina che tutto spiega e, prima o poi, tutto risolve.

Prima o poi…

Orbene, quel “poi” è arrivato e i nuovi eroi hanno cambiato volto, camice, strumenti, mentre la gente ha potuto tornare a utilizzare proiezioni più rassicuranti.

Ieri lo sfinente lavoro in corsia, i reparti strapieni, i camion a trasportare le salme, oggi le immagini rassicuranti di asettici laboratori, l’ordinato sfilare di milioni di dosi dell’agognato vaccino.

D’altro canto, non poteva durare, ogni tragedia ha un cimitero nel quale raccogliere i morti, la fragilità deve permetterci di tornare a sentirci forti, invulnerabili.

Il primo lockdown non aveva fatto sconti a nessuno: tutti in pericolo, tutti consapevoli della fragilità del vivere e tutti uniti contro il morbo, con i sanitari al fronte, sprezzanti del pericolo.

Proiezione debole, limitatamente salvifica. «Là dove il morbo infuria, il medico è in prima linea», recitava un motto dell’epoca fascista, per blanda rassicurazione delle madri che avevano visto partire i loro figli per le sciagurate imprese volute dal regime.

Moltissimi sanitari della prima ondata pandemica lottavano a mani nude, consapevoli della fragilità dell’esistenza e dei loro strumenti, tentando di alleviare le sofferenze senza promettere miracoli, senza chiedere contropartita, restituzione, memoria. Facevano il loro mestiere, onestamente, con dedizione e passione, per l’uomo sofferente, minimo comune denominatore di ogni scienza che voglia riconoscersi come umana.

Questo ha generato un momento di solidarietà diffusa che nel mondo occidentale non si vedeva da decenni, forse dall’ultimo conflitto bellico, con inaspettate immagini di amici a cantare “Bella ciao” in italiano dai balconi della Baviera, le bandiere dell’andrà-tutto-bene a sventolare dalle finestre, i concerti dai tetti, l’amore per l’umanità, la ritrovata appartenenza universale.

Niente più retorica razzista, niente barconi di appestati (solo qualche timido accenno, subito zittito), niente risse ideologiche, niente sgambetti politici, solo amore, amore universale.

Non poteva durare, c’è tanta/troppa gente che campa e costruisce le proprie fortune sul conflitto, sul nemico e il colore inequivocabile della sua pelle. I virus non hanno colore e non distinguono l’ISEE del contagiato.

C’è gente che non tollera di sentirsi debole neanche per un attimo, che ha bisogno di pensare che tutto può essere sfidato e sconfitto.

La consapevolezza della fragilità del vivere è, al contrario, collante di fraternità, motore di reciprocità e solidarietà.

Non c’è, d’altro canto, medico competente e onesto, non c’è infermiere che non sappia che «tale è lo stato mortale», per dirla con Leopardi. La parte più difficile del mestiere non è salvare in extremis vite umane, è accompagnare con amore la condizione di fragilità che accomuna gli uomini.

Condizione difficile, per molti intollerabile, specie in quella parte di mondo che ha fatto dell’invulnerabilità un tratto identitario, tatuandone l’espressione sui volti: Trump, che alla dimissione dall’ospedale si toglie la mascherina e guarda il mondo con sguardo sprezzante, in un lungo silenzio carico di sfida e di arroganza, icona di un delirio di onnipotenza.

La ritrovata consapevolezza dell’«esser frale», per dirla ancora con Leopardi, nel suo effimero affaccio della primavera scorsa, non poteva dunque che divenire pericoloso combustibile per le infaticabili fabbriche di eroi.

La medicina moderna, con la sua promessa di salvezza, con la sua capacità di occultare sistematicamente la morte e la sofferenza sterilizzandone il valore euristico, aveva subìto in quel tragico arco temporale – quello del primo lockdown – uno scacco, una sospensione, ritrovando per un attimo la sua radice più antica, più vera: la radice della cura, intesa non più come azzeramento del male ma come prendersi cura, come esercizio umile e virtuoso della sollecitudine, della compassione.

La proiezione eroica si era limitata, in quel primo soprassalto pandemico, a riconoscere ai medici, agli infermieri e ai lavoratori dell’emergenza, una straordinaria capacità di stare dentro all’angoscia e alle contraddizioni che il contatto con la sofferenza inevitabilmente evocano, una familiarità con i territori della morte che suscitava ammirazione, consenso.

Ma rimanere dentro quel perimetro significava accettare la condizione umana, aprire interrogativi, attenuare le differenze, sospendere l’esercizio asimmetrico del potere, fondato sul “loro” piuttosto che sul “noi”.

Le proiezioni sono pericolose e anche volendosene sottrarre ci rincorrono come è proprio in fondo di ogni maschera sociale: non siamo ciò che siamo ma ciò che rappresentiamo. E le rappresentazioni, si sa, cambiano volto rapidamente.

A ben pensare, al mondo esistono solo due tipi di eroi: quelli che ci somigliano ma hanno qualche straordinaria qualità che concede loro di trascendere la mediocrità, con ciò permettendo anche a noi di trascendere la nostra mediocrità, e quelli che non ci somigliano perché appartengono inesorabilmente a una dimensione più elevata. Ai primi perdoniamo tutto, ai secondi quasi nulla.

Una caratteristica degli eroi “immacolati”, tanto più quando appartengono a una categoria socialmente utile, è quella di non potersi concedere tentennamenti o peggio, cedimenti.

“Per gli alpini nulla è impossibile”

Quando qualcuno ha “zangrillamente” sostenuto che il virus era clinicamente morto ha aperto un vulnus nella versione “paritaria” dell’eroe immensamente buono e caritatevole. Se, infatti, altri autorevoli scienziati sostenevano che, al contrario, il virus era assolutamente vivo e pronto a riprendersi il suo tributo di sofferenza e vite umane, voleva dire che qualcuno barava: nessuna trascendenza dunque, perché gli eroi trascendenti non ammettono contraddizioni, e nessuna somiglianza idealizzata, anche perché la medicina ha sempre difeso con i denti il suo status sociale sovraordinato, privilegiato.

Meglio aspettare il vaccino, meglio affidarsi ancora una volta alle ali protettive di una scienza che tutto sconfigge, tutto risolve.

Ma quale fragilità? Fragile sarete voi, datemi un vaccino e ve lo dimostrerò.

Povera umanità, costretta a rimpatriare nelle false certezze di un’invulnerabilità di carta! Con meno attenuanti dei negazionisti, senza l’alibi di un terrore che acceca, senza la follia di chi non vede perché non può vedere.

Costruttori noi stessi delle illusioni che ci consolano: «Viva l’Imperator e la Nazion, viva l’ospizio di Charenton!» (slogan degli internati nel manicomio di Charenton, Francia, primo decennio del 1800).

  • Claudio Agostini è psichiatra di professione.
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