Essere medici cattolici nel periodo della pandemia: meditazione quaresimale di mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, per il Bureau della Feamc (Federazione Europea delle Associazioni dei Medici Cattolici).
Ringrazio il dott. Vincenzo De Filippis e mons. Jaques Suaudeau per questo invito a introdurre il vostro incontro del Bureau della Feamc, con una breve riflessione sull’essere medici cattolici nel periodo della pandemia.
È una riflessione che assume una valenza particolare anche per il momento liturgico che stiamo vivendo: la Quaresima – tempo di rinnovamento spirituale e di conversione – è ormai alla sua conclusione. Siamo alle soglie della Settimana Santa. Una coincidenza rende ancor più significativa questa nostra breve sosta di meditazione.
Esattamente un anno fa – era il 27 marzo – Papa Francesco appare da solo, senza nessun altro accanto e in una piazza San Pietro vuota e un po’ piovosa, per mettersi davanti a Dio per invocare la misericordia di Dio nel mezzo della pandemia che aveva coinvolto il mondo intero.
Nella paralisi del mondo
La società, la politica, la medicina, l’economia, la tecnica erano impotenti di fronte alla forza di una molecola: un piccolissimo essere neppure vivente. Papa Francesco, senza nulla tra le mani se non la sua parola, sta in piedi davanti a Dio per intercedere. Sentì la responsabilità di quel momento per l’intera famiglia umana. Non fuggì, non si rassegnò. Uscì nella pubblica piazza – nonostante la opportuna distanza sociale – per dire a Dio: “Non t’importa che noi moriamo? Salvaci!”.
Non lo disse per sé o per i suoi fedeli, ma per il mondo intero. Stava lì, anziano umile e debole, tra Dio e il popolo, non quello della piazza ma del pianeta. Fronteggiò il Signore, potremmo dire, sapendo che è il Padre di tutti, il Dio della vita che tante e tante volte già ha fatto uscire gli uomini dalle prigioni della storia, rimettendo in cammino il mondo. È una icona che parla ancora oggi. Quella icona è forse il discorso più urgente da fare ancora: tenere gli occhi verso l’Alto. Sono convinto che sempre dobbiamo averlo, quello sguardo.
Preghiera e professione
È passato un anno. Abbiamo più che sperimentato la fragilità di cui siamo tutti impastati. Per questo la prima cosa da fare è tenere fisso il nostro sguardo verso il Signore. È troppo larga la sproporzione tra la capacità della morte di distruggerci rispetto alla incapacità di difenderci. Un’angoscia globale traversa l’intero pianeta. E squarcia anche il cielo. Turba la quiete stessa di Dio. Nulla di noi infatti gli è ormai estraneo, dopo che il Figlio è entrato con le sue ferite da crocifisso. E un Dio diverso non esiste.
La preghiera, cari amici, è la prima e fondamentale opera del cristiano. Lo fu per Gesù. Deve esserlo per tutti noi. Soprattutto in questo tempo.
Mi ha sempre impressionato questa affermazione del grande teologo protestante tedesco del secolo scorso, Karl Barth: «Dio non è sordo, ascolta, agisce. Egli non agisce allo stesso modo se preghiamo o non preghiamo. C’è un’influenza della preghiera sull’azione, sull’esistenza (sul modo di essere) di Dio…Una cosa è fuor di dubbio, l’esaudimento da parte di Dio». Sì, Dio non agisce allo stesso modo se preghiamo o no. Non stanchiamoci di stare davanti a Dio in preghiera.
E permettetemi una brevissima notazione a proposito del rapporto tra la preghiera e la missione del medico. Purtroppo è un tema trascurato. E non possiamo affrontarlo ora. Ma nella tradizione cristiana era ben presente.
Penso, ad esempio, a San Cipriano vescovo di Cartagine che assegnava alla santificazione di ciascun credente anche un’efficacia taumaturgica: “Quando saremo casti e puri, modesti nelle nostre azioni, frenati nelle nostre parole, potremo guarire anche i malati”. Lo diceva per tutti i cristiani. Ma non è ancor più vero per i medici? Più chiaro ancora è l’esempio dei santi Cosma e Damiano, morti martiri nel 285.
Essi si trovano raffigurati a Roma, nella omonima Basilica, vestiti con le vesti bianche – l’abito dei medici – accanto a Cristo vestito anche Lui di bianco. La tradizione dice che questi due medici andavano al capezzale dei malati e, prima di informarsi sulla loro salute, pregavano. Solo dopo si informavano sulla loro salute e decidevano la cura. I loro miracoli erano come un misto di fede e di attenzione concreta.
La guarigione é sempre un insieme di fede e di attenzione umana. E se talora il corpo non guarisce, lo spirito ritorna più vigoroso. Nella storia delle guarigioni ci sono i tipi più diversi di essa, e mai si deve spegnere nella Chiesa l’audacia per la guarigione e la cura che mai abbandona. Mi chiedo: non è un compito serio per il medico credente pregare per i propri malati? Rivolgiamo ora lo sguardo su questo tempo di pandemia che si è abbattuto sul mondo intero.
Certo, di fronte a quel che è accaduto non possiamo chiudere gli occhi. Al contrario siamo chiamati ad essere consapevoli del tempo presente. Quella sera dello scorso anno papa Francesco disse: “Avidi di guadagno, ci siamo lasciati assorbire dalle cose e frastornare dalla fretta. Non ci siamo fermati davanti ai tuoi richiami, non ci siamo ridestati di fronte a guerre e ingiustizie planetarie, non abbiamo ascoltato il grido dei poveri e del nostro pianeta gravemente malato. Abbiamo proseguito imperterriti…”. Ed ecco, dove siamo arrivati. E nel maggio successivo aggiunse: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
La salute
Come medici – senza dimenticare la centralità della preghiera – è utile, anzi doveroso, interrogarci come aiutare la società a costruire un futuro migliore per tutti. Ed è in questa prospettiva rivolta al futuro che possiamo proporci alcune domande: che cosa stiamo imparando dalla dura esperienza di questa pandemia globale, che sta scuotendo il nostro mondo? Quali lezioni possiamo trarne per una trasformazione che riguarda il nostro impegno per i prossimi anni non solo come credenti, ma anche come medici?
Cercherò di offrire qualche piccolo elemento di risposta soffermandomi in particolare su tre parole: salute, scienza, professione (medica).
Circa la salute, gli eventi traumatici che stiamo vivendo ci richiamano a considerare in una nuova prospettiva i rapporti tra il benessere personale e quello pubblico. Attraverso la salute (di cui abitualmente ignoriamo la presenza, perché la diamo per scontata e ci accorgiamo della sua importanza solo quando la perdiamo), abbiamo colto con maggiore chiarezza i vincoli che ci uniscono: siamo strettamente interdipendenti gli uni dagli altri.
Questo vale sia per le persone sia per i popoli. Le modalità di contagio del Covid19 – per via respiratoria – è particolarmente evocativa da questo punto di vista: è in gioco una funzione elementare e irrinunciabile, che indica la nostra dipendenza da risorse non solo condivise, ma che ci mettono in strettissima comunicazione reciproca attraverso l’aria che respiriamo.
Emerge qui una immediatezza ancora maggiore rispetto ad malattie i cui contagio avviene mettendo in gioco altre attività biologiche confinate all’interno dell’organismo, per es. la circolazione del sangue. Abbiamo così traumaticamente realizzato che mettendo la mascherina non tutelo solo la mia salute, ma anche quella delle persone che mi circondano.
Lo stesso possiamo dire pure per il vaccino: proteggendo me, proteggo anche gli altri, sia perché si riducono gli ospiti in cui il virus può replicarsi, sia perché non ammalandomi evito di sovraccaricare i servizi sanitari già in affanno. E sappiamo bene quanto questo sia importante non solo per gli ammalati di Covid, ma anche per chi è affetto da altre patologie: sono aumentati i morti per infarto e per tumore.
Da qui impariamo che i nostri servizi sanitari hanno retto meglio là dove c’era un migliore equilibrio tra centri ospedalieri di trattamento delle patologie e reti territoriali di assistenza e di prevenzione delle malattie. Reciprocamente, il sistema ha ceduto dove si ci si è sbilanciati verso i trattamenti rispetto a scapito di percorsi di promozione della salute. Questo è un importante elemento di revisione e di conversione per il futuro.
La scienza
La scienza ha mostrato i suoi limiti, perché ci è voluto tempo per comprendere un virus sconosciuto, i suoi comportamenti e i suoi effetti. Abbiamo scoperto che ai ricercatori e alle loro conoscenze in fondo si tratta di credere. Il regno scientifico dell’esperimento e della dimostrazione razionale si è rivelato come luogo della fiducia.
Anche qui ce ne accorgiamo quando il corso degli eventi si inceppa perché la fiducia viene a mancare (analogamente a quanto abbiamo già detto per la salute). Come ha affermato il papa nell’intervista dell’11 gennaio 2020: «Non so perché qualcuno dice: “no, il vaccino è pericoloso”, ma se te lo presentano i medici come una cosa che può andare bene, che non ha dei pericoli speciali, perché non prenderlo?». Se gli esperti dibattono fra loro in modo irresponsabile sui giornali e sugli schermi, offrono uno spettacolo di dissenso che disorienta e scoraggia.
Contribuiscono al «negazionismo suicida», menzionato da Francesco. Se il confronto fra opinioni diverse è legittimo nei laboratori e sulle riviste specializzate, non è prudente quando ci si rivolge a una platea di non addetti ai lavori, magari per farsi un po’ di pubblicità e di fama. Le evidenze scientifiche sono frutto di un consenso progressivo e sempre rivedibile. Occorre gestirlo e a promuoverlo con senso critico e con saggezza.
Siamo sollecitati a comprendere – e a far comprendere – meglio non solo le enormi potenzialità della tecnoscienza, ma anche le sue lentezze e i suoi limiti. Occorre procedere con maggiore responsabilità, anche sul piano della comunicazione.
Professioni del mondo sanitario
Le professioni sanitarie si sono trovate in prima linea nel prendersi cura dei malati. È stato loro riservato un grande riconoscimento per la generosità e la qualità del lavoro svolto. La loro forza nel far fronte alla situazione imprevista è stata frutto di una capacità di collaborare per il servizio pubblico e per il bene delle persone.
La metafora bellica, che si sente talvolta impiegare, mi sembra che non aiuti a comprendere la logica autentica del lavoro in sanità. Essa celebra questa dedizione in termini di «eroismo», mettendola così in una luce eccezionale (e che quindi prevede un successivo ritorno a una normalità perduta).
Certo le circostanze sono (state) eccezionali, ma esse hanno rivelato una qualità di impegno che non ha aspettato un tempo straordinario per manifestarsi. Il personale sanitario non avrebbe potuto operare nel modo che ha suscitato gratitudine e riconoscenza se non fosse già stato il suo modo di operare precedente, in circostanze ordinarie.
Nelle relazioni di cura abituali c’è un atteggiamento di dono di sé che consente di affrontare situazioni critiche: è un impegno che non solo promuove la vita, ma promuove il desiderio di vivere, incoraggiando a recuperare la salute. E quando la guarigione non è possibile, il medico accompagna il paziente ad assumere il limite della malattia o della morte che si avvicina. Si esprime qui la ricerca condivisa di un senso che trova nella relazione di cura un momento cruciale di elaborazione e che non viene smentita dall’esperienza del limite.
Essa può così diventare luogo di incontro e di solidarietà, così come il Signore Gesù ci mostra facendosi uomo, nascendo da donna e assumendo il male che pesa sulla storia fino al suo innalzamento sulla croce.
La cura
Una volta passata l’epidemia occorrerà approfondire questa modalità di prendersi cura, che si è mostrata con più chiarezza nel contesto della crisi. Per consolidare questa consapevolezza è importante favorire tempi e spazi di decantazione e di rilettura condivisa di quanto avvenuto, sia dei successi sia dei fallimenti.
Anche la parola di coloro che dei servizi sanitari si sono avvalsi va ascoltata. In questo modo sarà possibile tenere nel dovuto conto la componente relazionale della pratica medica rispetto a quella «tecnica», evitando di ridurla a una serie di atti codificati solamente in protocolli clinici e organizzativi, e valorizzando l’aspetto di incontro interpersonale che favorisce la maturazione di una comune umanità.