Papa Francesco nel suo viaggio in Belgio, ha detto tra l’altro: «Cosa ci fa vedere la crisi? Siamo passati da un cristianesimo sistemato in una cornice sociale ospitale a un cristianesimo “di minoranza”, o meglio, “di testimonianza”».
Tempo fa il card. Zuppi, riprendendo alcune parole di Benedetto XVI, ha così descritto la Chiesa di oggi: «Una realtà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa. La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, rinato attraverso un processo di purificazione. Contro il male resterà il piccolo gregge». Poi parla ancora di minoranza, di «minoranza creativa», ma sempre di minoranza si tratta.
Enzo Bianchi ha dato risalto al ragionamento dell’arcivescovo di Bologna, sposandolo in toto, con un articolo apparso sul quotidiano Repubblica.
Da molti segnali risulta che la maggioranza del clero giovane sente che questa è la sua missione: lavorare con e per una minoranza.
Ha senso parlare di maggioranza e minoranza nella Chiesa?
Inoltro questa domanda: ma, per noi cristiani, ha senso parlare di maggioranza o di minoranza? Nutro dei seri dubbi e cerco di argomentare il mio punto di vista.
Per il fatto stesso che venga utilizzata la parola “minoranza”, significa che ci sono due atteggiamenti di fondo: da una parte, non si esclude la possibilità di diventare “maggioranza” e, dall’altra, c’è una profonda nostalgia per il passato, dove si pensa che i cristiani siano stati maggioranza. Il passato delle chiese piene, delle manifestazioni di massa e delle processioni senza fine; quello dei sacramenti per tutti, compresi quelli che potevano averli solo di nascosto; del papato considerato alla stregua di una divinità; degli ecclesiastici che sedevano al fianco di re, presidenti e imperatori: era un fenomeno di “maggioranza”? O si trattava semplicemente di un fenomeno sociale datato storicamente che non raggiungeva la profondità dei cuori?
La prima metà del secolo scorso ci ha mostrato quanto questa “cristianità” non sia stata un fatto evangelico, ma un caso prevalentemente sociale, convivendo con fenomeni aberranti come il fascismo o, peggio, come il nazismo!
Ma chi sono i cristiani? Sono solo i battezzati? Se calcoliamo il numero dei battezzati, siamo maggioranza, anche se il numero sta calando. Se, invece, diciamo che i cristiani sono coloro che credono nell’uomo nuovo, quello che Gesù ci ha insegnato e ha manifestato con la sua testimonianza; coloro che operano perché questo “uomo nuovo” (vestito di pace, di giustizia, di “cura”, di tensione per l’eterno, di fratellanza universale, di attenzione per l’ambiente e per i più deboli, di lotta contro ogni forma di falsità e malvagità, di ricerca della beatitudine già in questa vita, di essere “religioso” come desiderio di condivisione del proprio credo, di cercare Dio nella sua ricerca umana…) trovi spazio nella nostra società; coloro che cercano di essere “vangelo” (buona notizia) con la loro vita e non solo con la loro professione di fede o con i loro gesti religiosi…
I “cristiani” saranno sempre pochi
Se questi sono “i cristiani”, possiamo dire che sono stati, sono e saranno sempre “pochi”! Pochi, come poco è il pugnetto di sale che viene immesso nel cibo e che diventa indispensabile per dare gusto a tutto il piatto.
Pochi come “pochi” erano i cinque pani e i due pesci nella moltiplicazione operata da Gesù; pochi, ma sufficienti per dare cibo a tutti e persino avanzarne. Sono certo che papa Francesco intenda questo parlando di un cristianesimo di “testimonianza”. Non sembra corretto, perciò, parlare di “minoranza”.
Oggi sta tornando profondo il desiderio di identità, di affermazione del cristianesimo con il ritorno dei simboli che spesso vengono ostentati, quasi per esprimere il desiderio di essere forti e competitivi. È vera forza questa? Quella che vuole distinguersi dagli altri con la convinzione di essere nettamente superiori? Sono solo debolezza e, persino, tradimento della ricerca evangelica su cui impostare la propria vita.
Usando ancora l’esempio del sale, la ricerca identitaria è come quei sassolini che talvolta troviamo mescolati al sale vero: non si sciolgono e li sentiamo stridere sotto i denti.
Se i cristiani fossero minoranza, dovrebbero distinguersi nettamente dalla maggioranza, impedire che ci possa essere contaminazione, sarebbero costretti a chiudersi in cerchio per difendersi dagli assalti del nemico, sentirsi superiori e guardare agli altri come al regno del peccato: diventare insomma una setta! Tendenze molto pericolose e lontanissime dai dettati di Gesù.
Uscendo dalla gabbia maggioranza/minoranza e pensando una strategia di “pochi” per far lievitare tutto il resto, ci soffermiamo sul ruolo di una parrocchia all’interno di un paese o di un quartiere. Tutte le agenzie sociali, educative o aggregative hanno un ruolo. Il sindaco e il consiglio comunale pensano all’amministrazione, la scuola alla formazione, le società sportive all’educazione dei ragazzi tramite lo sport…
E la parrocchia?
E la parrocchia? Una volta era tutto: dalla scuola alla sanità, dai poveri alle sagre. Era in prima fila anche nella gestione economica (basti pensare alla nascita delle banche) e perfino nella gestione politica (spesso le liste per le elezioni venivano stilate in canonica).
Con gli anni, la società civile si è organizzata in modo autonomo e così, lentamente, la parrocchia ha dovuto concentrarsi quasi esclusivamente sull’educazione religiosa e sulle celebrazioni dei sacramenti. Sono nate poi le Pro Loco e così anche le sagre spesso hanno cambiato gestione. Stiamo assistendo alla disaffezione dei giovani e di tante famiglie che un tempo erano il nerbo delle nostre comunità. Da qui la tentazione di rinchiudersi in un fortino chiamato “minoranza”.
Invece è il momento di scoprire il vero ruolo della Chiesa. Che fare, quindi?
La strategia della “minoranza” non farebbe che creare un piccolo gruppo, magari omogeneo e qualificato, ma sempre piccolo o piccolissimo e sempre separato da tutto il resto.
Sarebbe il tradimento della missione evangelica, perché, leggendo Gesù, scopriamo che la missione della Chiesa non è la sua sopravvivenza, ma diventare lievito di tutta la pasta: tutta!
Qual è allora la missione della parrocchia all’interno di un paese o di un quartiere? Utilizzando l’immagine del corpo umano come ha fatto san Paolo per indicare il corpo mistico, la Chiesa dovrà essere il cuore! Santa Teresina scriveva: «Allora con somma gioia ed estasi dell’animo gridai: O Gesù, mio amore, ho trovato finalmente la mia vocazione. La mia vocazione è l’amore. Sì, ho trovato il mio posto nella Chiesa, e questo posto me lo hai dato tu, o mio Dio. Nel cuore della Chiesa, mia madre, io sarò l’amore ed in tal modo sarò tutto e il mio desiderio si tradurrà in realtà».
Essere l’amore, essere il cuore!
Questo compito non potrà essere “rubato” da nessuna agenzia, non si indirà mai una gara per svolgere un simile ruolo. Ma esso è decisivo per il futuro del mondo e per il futuro della Chiesa! Essere il cuore è essere il motore delle relazioni.
La parrocchia del futuro avrà questa come missione: essere il vecchio pozzo del villaggio dove tutti possono andare ad attingere per dissetarsi, dai bambini agli anziani, dal giovane all’adulto, dal povero al ricco, dal credente al non credente, dal cristiano all’islamico… Tutti potranno abbeverarsi a quel pozzo, perché solo là si potrà avere quel prodotto… che non costa niente!
È la relazione d’amore il compito originale della parrocchia, un compito che verrà vissuto e donato sempre da “pochi” (la minoranza), ma con dentro il fuoco dell’amore evangelico. Un amore disponibile per tutti, proprio per la maggioranza!