Europa: la rabbia degli impoveriti

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La rabbia dei poveri è piuttosto diversa dalla rabbia degli impoveriti. Ciò che sta accadendo in Europa dimostra quanto sia forte – e possa essere devastante – la rabbia degli impoveriti. Mi sembra, infatti, che i voti espressi – e tanti non espressi – non dicano tanto che siamo sommersi da un’ondata di fascisti, quanto, piuttosto, che gli impoveriti stanno sfogando la loro rabbia e le loro paure, nelle forme della xenofobia, facendo propri i facili slogan che, da sempre, albergano nella destra estrema.

Ma pure la rabbia degli impoveriti va vista e capita. Per farlo serve qualche elemento di economia: non è il mio campo, ma, ugualmente, provo a farvi qualche riferimento.

Il welfare europeo non regge più. Le vecchie certezze, proiettate sul futuro, sono crollate. La guerra non solleva solo problemi politici o malesseri culturali, ma problemi economici, ben concreti. Ha sottratto e continua a sottrarre risorse e a far lievitare i prezzi. E, chi è più esposto, più paga.

A questo livello non si pone il pacifismo contro il bellicismo. Teoria. Poca conta la valutazione di ciò che è giusto e di ciò che è sbagliato. Si impone una priorità: e la priorità – da molti evidentemente ben avvertita – è chiaramente quella di una spesa pubblica che prima deve essere per noi, poi, eventualmente, per gli altri.

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Lo aveva fatto capire – un po’ provocatoriamente – Mario Draghi, chiedendo agli italiani se volessero «la pace oppure il condizionatore». Draghi, evidentemente, presumeva che la pace si sarebbe potuta raggiungere, forse in tempi relativamente brevi, fermando – militarmente – l’aggressore russo e sanzionandolo pesantemente sul piano economico; chiedendo agli italiani di rinunciare al gas russo, pure al costo di spegnere il condizionare del fresco d’estate. Le cose, purtroppo, non sono andate esattamente così. E la risposta del voto degli europei – impoveriti – dice, semplificando, ma emblematicamente, che tanti di noi vogliono, innanzi tutto, il condizionatore acceso. Il resto viene poi.

Il trionfo della signora Le Pen e dell’estrema destra in Germania, con ampie venature neonaziste, non significa, quindi, l’affermazione del senso della pace sulla guerra, ma piuttosto delle comodità – magari appena raggiunte – a cui nessuno o pochi vogliono rinunciare, spontaneamente.

Naturalmente il gioco sul senso di smarrimento e sulla paura ha bisogno di un capro espiatorio. La destra estrema ne è sempre alla ricerca. È necessario per prendersela con un gruppo prescelto, esterno, con cui si possa usare la forza, se non una vera e propria violenza fisica per preservare l’unità degli autoctoni ed evitare che la violenza divida. I migranti, in tal senso, costituiscono, per questa Europa impaurita e divisa, un capro espiatorio perfetto: infatti il loro “sacrificio” sta ottenendo un enorme successo elettorale.

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Ogni considerazione statistica e razionale che mostri l’inconsistenza della tesi della «invasione» – anzi, che dimostri l’urgente fabbisogno di immigrati in Italia e in Europa (come recentemente sostenuto pure dal Governatore Panetta) – disegnando pure la possibilità di una via regolare della accoglienza -, a fronte di questa paura, non funziona.

Diciamocelo chiaramente: la nostra Europa ha potuto vivere al di sopra delle proprie reali possibilità solo grazie all’importazione a basso costo – se non proprio all’esproprio – delle risorse: dall’Est, dal Terzo Mondo e dal Quarto Mondo. Ma, una volta crollato il muro – più che simbolico – di Berlino, si è trovata improvvisamente in un nuovo contesto – quello della globalizzazione – che ha trasferito ricchezza in altre parti del mondo, impoverendo una buona parte della popolazione europea: chiaramente quella che era già più a rischio di povertà. Gli Stati non hanno saputo o voluto farvi fronte.

Di conseguenza il sistema delle garanzie – sociali e sanitarie – ha cominciato ad andare in frantumi. Il posto sicuro e la pensione assicurata non sono più nell’ordine delle idee – e delle reali possibilità -delle giovani generazioni. Mentre il fenomeno della delocalizzazione ha arricchito le aziende, coi loro azionisti, grazie a materie prime e manodopera a basso costo, ma al prezzo di abbandonare alla precarietà i giovani e i potenziali lavoratori locali, italiani ed europei.

Tratteggiato sommariamente questo quadro, mi chiedo e chiedo: perché stupirci se moltissimi giovani si sono astenuti dal voto, ovvero hanno sostenuto le ali estreme (soprattutto di destra specie – pare – in Germania)? Perché stupirci, se vogliono andarsene?

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E le Chiese, dove stanno? Sono notoriamente un secolarizzato, ma attribuisco un ruolo cruciale alle Chiese, soprattutto alla Cattolica. L’ultima casa della solidarietà in grado di offrire speranza ed una cultura alternativa alla paura e quindi all’arroccamento che è sotto i nostri occhi, per me, è la Chiesa Universale.

Non ci sono altri bacini da cui attingere novità e speranza. Non si vedono. Non si vede nulla. Il nazionalismo – che è il contrario dell’universalismo e della cattolicità più vera – è diventato il bene-rifugio, la casa della paura. Ingenerando, peraltro, alcune sacche persino dentro le Chiese. Ma la Cristianità non è questo. È altro. E la gente lo sa e se lo aspetta ancora.

Il magistero di papa Francesco è profetico. Lo ripeto; per me è l’àncora di salvezza e di tenuta: per quei valori che, di per sé, sono ancora alla base della Unione Europea – la solidarietà umana innanzi tutto – e quindi per la stessa democrazia, questa democrazia oggi in crisi.

Guardo al mio Paese, alla mia città (Roma), al mio quartiere: l’allontanamento della politica dai luoghi della nostra vita reale è evidente, e va di pari passo con la perdita di partecipazione alla vita sociale.  L’unico posto in cui andare a cercare qualcosa che abbia le forme della comunità umana è ancora la parrocchia: una parrocchia vissuta, partecipata, come si dice, di stile sinodale.

Ecco, allora, che il sinodo sulla sinodalità può divenire il punto di un interesse sociale e politico che è di tutti, credenti, non credenti, o diversamente credenti. Proprio come papa Francesco aveva previsto nel suo storico discorso del 17 ottobre 2015, in occasione del 50° anniversario dell’istituzione del sinodo dei vescovi: «Sono persuaso che, in una Chiesa sinodale, anche l’esercizio del primato petrino potrà ricevere maggiore luce. Il papa non sta, da solo, al di sopra della Chiesa; ma dentro di essa come Battezzato tra i Battezzati e dentro il Collegio episcopale come Vescovo tra i Vescovi, chiamato al contempo – come Successore dell’apostolo Pietro – a guidare la Chiesa di Roma che presiede nell’amore tutte le Chiese. […]

Il nostro sguardo si allarga anche all’umanità. Una Chiesa sinodale è come vessillo innalzato tra le nazioni (cf. Is 11,12) in un mondo che – pur invocando partecipazione, solidarietà e trasparenza nell’amministrazione della cosa pubblica – consegna spesso il destino di intere popolazioni nelle mani avide di ristretti gruppi di potere. Come Chiesa che “cammina insieme” agli uomini, partecipe dei travagli della storia, coltiviamo il sogno che la riscoperta della dignità inviolabile dei popoli e della funzione di servizio dell’autorità potranno aiutare anche la società civile a edificarsi nella giustizia e nella fraternità, generando un mondo più bello e più degno dell’uomo per le generazioni che verranno».

A pochi mesi dal sinodo sulla sinodalità, queste parole sembrano scritte proprio per l’oggi.

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