Ferite e splendori dei corpi

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C’è un’eco visiva che resiste tra le infinite immagini televisive che fluiscono ogni giorno. È quella che richiama visi e gesti di circa 5.000 atleti con disabilità, apparsi sugli schermi per una dozzina di giorni. Sullo sfondo, una Parigi allestita per le Olimpiadi, in primo piano corpi atletici e, nello stesso tempo, segnati da perdite e lesioni.

Li abbiamo visti gioiosi e commossi nelle sfilate collettive, impegnati in prove che non parrebbero possibili a chi manca di un arto o è segnato da gravi ferite fisiche (e non solo). Figure di giovani uomini e donne che rimangono in mente anche se i più non appaiono su giornali, non campeggiano su giganteschi manifesti pubblicitari né sono ritratti in caroselli vari, come invece accade ai loro compagni, i cosiddetti “normodotati”.

Ciascuno, assistendo a quelle imprese può aver ricordato conoscenti disabili e i loro caregiver che provvedono concretamente e costantemente a loro. Come quei genitori, compagni e allenatori che, a Parigi, gioivano sugli spalti o ricambiavano baci e abbracci prima e dopo le prestazioni sportive. Indipendentemente dal risultato.

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Così è stato per me nel far memoria di persone che ho a lungo frequentato, come una straordinaria coppia vicina di casa e i loro due figli entrambi affetti da invalidità.  Inoltre, è riapparsa alla mente un’altra eco: un episodio scolastico.

Anni fa, accompagnai studenti di una classe liceale in visita a un’importante galleria milanese ove era allestita una mostra su Otto Dix. Oltre ad alcuni quadri, soprattutto ritratti, erano esposti i taccuini di guerra (5 cartelle di 10 fogli ciascuna) disegnati dall’artista che, giovanissimo, era partito volontario per la Prima guerra mondiale, come altri suoi coetanei. Durante il conflitto – tra il 1915 e il 1918 – egli aveva disegnato cartoline postali e fogli (oltre 600 disegni, più numerose tempere). Successivamente – tra il 1923 e il 1924 – creò quei taccuini detti “il ciclo della Guerra”.

Dix fu profondamente segnato dal conflitto anche nelle sue opere successive che illustrano il disastro del dopoguerra tedesco. Tuttavia, a differenza di altri, egli non fu sopraffatto dall’esperienza bellica in quanto seppe rielaborare le immagini dell’“inutile strage” in termini artistici e esistenziali. Non a caso, con la presa del potere di Hitler nel 1933, egli fu considerato un “artista degenerato”.

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Otto Dix, Trittico della guerra (1928).

In quell’ uscita didattica fui accompagnata da una collega di storia dell’arte e tra gli alunni c’era Chiara, un’intelligente ragazza non vedente e oggi cara amica. Mi chiedevo come Chiara potesse apprezzare e fruire di quella visita e se per lei bastassero le pur esaurienti spiegazioni e i commenti alle opere da parte della collega. Ma accadde qualcosa di imprevisto: l’insegnante illustrò oralmente i ritratti di Otto Dix e i suoi disegni e, contemporaneamente, toccò il volto e alcune parti del corpo della giovane studentessa.

Le immagini dei quadri e del taccuino dell’artista-soldato erano come trasposti dalle tele e dai fogli e riprodotte in icone tattili che marcavano il corpo della giovane allieva tramite gesti rapidi e incisivi. Stupita e rapita, lentamente mi accorsi che la competenza, la creatività e l’alta sensibilità umana avevano del miracoloso. Due improbabili eventi si erano presentati in scena: un giovane sottufficiale in trincea si era salvato grazie alla stesura di un “diario di guerra” con linee forti e spesse della matita, del gessetto e del carboncino.

Il corpo di una ragazza – segnato da una pesante ferita come quelle che la guerra infligge – veniva trasformato in uno schermo su cui si disegnavano incisivi segni sensibili grazie all’udito e al tatto (inteso non solo come organo di senso!) di una competente insegnante.

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In entrambe le esperienze c’è un riverbero di tenerezza, nell’accezione che Isabella Guanzini illustra in un suo pregiato testo. Non significa facile sentimentalismo, né richiama immagini stucchevoli cavalcate dalla retorica pubblicitaria. Bensì è l’esatto contrario di ciò che i più colgono come debolezza. Nei paesaggi dell’autentica tenerezza troviamo infatti pratiche di prossimità, dove i corpi non si limitano a sfiorarsi ma entrano in contatto tra loro e con le storie di chi vive l’incontro. Cogliamo la denuncia della “cultura dello scarto” e la ricerca di nuove forme di relazione in cui la poesia è di casa.

In quella giornata scolastica vissi due esperienze unite da coraggiose e, al contempo, tenere esperienze vitali. La forza di un artista che ha voluto aprire gli occhi su una realtà crudele testimoniando ciò che è accaduto (così, a distanza, Otto Dix si espresse in più interviste). E la sfida di un’insegnante che aveva favorito visioni a un’allieva affetta da cecità, creando un nuovo linguaggio espressivo. Barriere culturali e naturali erano state scavalcate con la medesima e sorprendente agilità di cui danno prova gli atleti paraolimpici.

I miti aiutano a trovare il senso e la direzione in percorsi in cui è facile smarrirsi e così anche la buona eco di immagini e ricordi può essere spiegata dalla mitologia. Eco, nei racconti dei greci antichi, era una giovane ninfa dei boschi e delle sorgenti, e più leggende a lei riferite illustrano l’origine dell’“eco”, la riflessione del suono contro un ostacolo. La voce di una ninfa delle sorgenti – segno vitale della nostra natura – può resistere a rapimenti e disgrazie. Basta fermarsi con attenzione e grazia e tenerezza ad ascoltare quel suono, a volte accompagnato da immagini che ci rapiscono, per ritrovare sorgenti vitali.

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