Fermare i suicidi in carcere

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L’Unione delle Camere penali ha organizzato, tra maggio e luglio 2024, una “Maratona oratoria” dal titolo Fermare i suicidi in carcere. Diamo voce a tutti coloro che non possono parlare. Non c’è più tempo. L’iniziativa si è dispiegata in 73 città. A Bologna si è svolta nella mattina dell’8 luglio. Si sono succeduti 52 interventi, fra i quali il presidente della Camera penale di Bologna, il sindaco Matteo Lepore, il presidente del Tribunale di sorveglianza Maria Letizia Venturini, Alessandro Bergonzoni, Ernest detenuto poi riconosciuto innocente, l’arcivescovo di Bologna card. Matteo Zuppi.

Buttiamo via le chiavi

Una delle “confidenze” raccolte nei colloqui in carcere che mi agghiaccia sempre è quando qualcuno – e non sono pochi – mi dice: «Non ho nessuno che mi venga a trovare. Nessuno che mi pensi. Nessuno a cui telefonare. Non c’è nessuno a cui interessi come sto e che, nemmeno per usanza o cortesia, mi domandi “come stai?”. Non ho nessuno cui poter dire che stanotte non ho dormito supponendo che gli interessi…».

In carcere c’è poca, troppo poca solitudine (cosa non si darebbe in certi momenti per poter restare da soli, magari al buio e in silenzio, condizioni indispensabili per trovare se stessi e insieme condizioni impossibili) e invece c’è troppo isolamento. Troppo abbandono.

Le relazioni sono costrette e se ti capita un compagno/a di “cella” con il quale ti sia difficile convivere (non dico sia la norma, certo non è l’eccezione) le condizioni già disumane diventano infernali.

Le relazioni sono di default opportunistiche. Sono interessante non perché sono io, ma per quello che posso “dare”, “rendere” senza “prendere”, in cose o in prestazioni. Molti, troppi di coloro che ora si trovano in carcere hanno conosciuto nel loro passato da liberi – stando ai loro racconti – relazioni strumentali: vali per quello che mi dai non per quello che sei.

È rivelatore della costellazione di valori nell’universo carcere quello che viene considerato ovvio. Ad esempio, si dà per scontato che i volontari ricevano un compenso – anche pecuniario – per il loro servizio. La prima domanda che ti senti rivolgere quando ti presenti per qualche attività o qualche incontro è: «Perché sei qui? (non detto: qual è il tuo tornaconto?)».

In questo contesto impoverito se non inquinato di relazioni, dove la strumentalizzazione e l’opportunismo segnano nel profondo la dinamica, si spiega perché alcuni vivono la relazione non come la motrice della vita, ma come il rimorchio, che lungo certe salite fa schiattare.

E chi non arriva a liberarsi nella vita sente forte la tentazione di liberarsi dalla vita.

Le forme – frequenti – di autolesionismo e il tentato suicidio come espressione suprema sono il grido estremo di allarme: mi faccio del male perché tu ti accorga di me per non farmi del male.

Il suicidio mancato rischia di essere vissuto come un ennesimo fallimento e chi lo ha messo in atto sperimenta una volta di più di aver suscitato interesse non per quello che sei ma per quello che fai.

Del resto è la cifra del carcere: ti trovi lì non per quello che sei, ma per quello che hai fatto, e, d’ora in poi, quello che hai fatto ti identifica in quello che sei: detenuto, condannato, spacciatore, ladro, violentatore, assassino…

L’etichetta apposta dalla sentenza si traduce in un’etichetta posta sul fascicolo archiviato al Casellario, uguale per qualunque reato: “Fine pena: mai”.

Uno, per liberarsi dalla pelle tatuata irrimediabilmente dal giudizio che diventa pregiudizio crede necessario liberarsi dal corpo.

È la società intera a dire grazie a quanti, a diverso titolo, offrono alle persone condannate l’esperienza di una possibile relazione gratuita.

Ma è la stessa nostra società, se vuole essere civile, a dover mettere fine al pregiudizio, a non dare mai nessuno per perso, a non solidificare in un sostantivo quello che è un aggettivo, prima che anche uno soltanto pensi sia necessario senza alternative mettere fine alla propria vita.

Buttiamo via le chiavi – almeno del pregiudizio – prima di chiudere, non dopo.

  • Marcello Matté, cappellano del carcere di Bologna.

Vangelo e Costituzione

Ringrazio di questa Maratona che ci fa capire e vivere un poco la corsa, a volte senza fine, di tanti fratelli e sorelle carcerati. Senza fine, anche perché spesso senza un fine. Ed è questa la condanna più sbagliata, che non deve mai essere comminata. Il titolo “fratello” al carcerato non è mio e non è facoltativo.

«Ero in carcere e mi avete visitato» (Mt 25,43), afferma il Vangelo, senza indicare le colpe, la matricola, se pentito o meno, se con tutti i certificati giusti. È Gesù! Gesù carcerato! Non un numero, un caso, un problema, un peccato: Gesù.

Per questo è costitutivo per i cristiani, tema di esame. Perché, se lo abbiamo visitato, l’abbiamo visitata o no, ciò significa essere amati da Dio o restare senza di Lui. E il giudizio ci sarà e c’è già, aiutandoci a capire dove stiamo e dove abbiamo messo il nostro cuore.

Penso, poi, che ciò non sia facoltativo anche per chi non è cristiano, lo è per comando costituzionale, con il suo umanesimo richiesto a tutti al di là di ogni convinzione religiosa.

Il carcere non è l’altro mondo in terra dove vogliamo mandare la parte cattiva del nostro, non può essere l’inferno ma, semmai, sempre il purgatorio.

E questo riguarda tutti. Papa Francesco si interroga sempre quando va in carcere: «Mi domando: perché lui e non io? Merito io più di lui che sta là dentro? Perché lui è caduto e io no? È un mistero che mi avvicina a loro».

Dobbiamo uscire da un’idea pietistica – simile all’assistenzialismo, che papa Francesco ha saggiamente stigmatizzato a Trieste dicendo che è nemico dell’amore al prossimo ed è ipocrisia sociale – che poi è funzionale a quella ferocemente punitiva.

È chiesto di garantire dignità umana sempre a tutti e di camminare insieme ai fratelli carcerati senza paura, con amore, perché l’amore vince la paura e ci fa riconoscere nell’altro sempre la persona che è, degna sempre della nostra “compassione”, che vuol dire pensarsi insieme, non esercitare qualche buon sentimento utile a sé e non al prossimo.

C’è una sfida: credere che l’errante non sarà mai il suo errore! «L’errante è sempre e anzitutto un essere umano e conserva, in ogni caso, la sua dignità di persona e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità» (Pacem in terris 83). Ma di chi stiamo parlando?

Ce lo ha ricordato pochi giorni or sono il cappellano di San Vittore, don Roberto Mozzi, e con lui i tanti operatori – li ringrazio di cuore – che garantiscono tanta umanità e vicinanza nelle carceri.

Negli ultimi 24 mesi, a San Vittore, si sono tolte la vita 12 persone. In Italia solo quest’anno sono 54. La parola d’ordine è “dimenticare”, ha detto.

Noi possiamo dimenticare? La Chiesa è sempre madre e non ci possiamo dimenticare dei nostri fratelli – ripeto, fratelli, non qualche legame indefinito, ma quello più fisico che possiamo avere – il loro nome, le loro storie, interrogandoci per capire cosa può aver favorito una scelta tragica, e quindi ci aiutino a capire cosa fare (il suicidio è sempre da circondare di tanto rispetto, facendoci però anche le domande giuste per cambiare e migliorare le relazioni e le condizioni di vita, perché sempre frutto di disperazione).

La notte tra l’11 e il 12 luglio 2022, Davide Paitoni, 40 anni, muore per impiccagione. Il giorno prima aveva ricevuto la notizia del rigetto della richiesta di perizia psichiatrica nel processo in cui era imputato e per cui rischiava l’ergastolo. Proprio in quella notte viene lasciato dormire in cella da solo.

L’8 dicembre 2023 Ahmed Sadawi, 46 anni, muore per impiccagione nel bagno della cella, mentre nella rotonda di San Vittore viene trasmessa la prima della Scala. Si trova nelle celle ad alto rischio, ideate per la prevenzione di atti autolesivi o suicidari. Come è possibile che Ahmed Sadawi si tolga la vita proprio qui? Ma, soprattutto, come ha fatto a procurarsi la cintura con cui si è impiccato?

Dei suicidi colpisce l’età molto bassa e che, spesso, avvengono alla vigilia del fine pena.

La professoressa Cartabia, nella recente Settimana sociale dei cattolici italiani – davvero sociale e davvero piena di sana laicità e di profonda spiritualità –, ha ricordato come, nella Costituzione, non si parla di carcere bensì di pene (art. 27), sottolineando il plurale e come «non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato». Appunto. Rieducazione e pene.

Guai a credere che l’unica scelta sia quella di “farla pagare”, come si crede sia giusto, e spesso ciò è cercato proprio dall’autore della sofferenza.

Pene per rieducare. Ci crediamo? È su questo che è pensato il nostro sistema? Se pensiamo alle condizioni fisiche, dovute al problema decennale del sovraffollamento, non emergenza, si richiede intelligenza applicativa e anche il coinvolgimento di tutta la comunità.

In molte carceri un terzo dei detenuti potrebbe uscire se avesse luoghi dove scontare pene alternative.

Ecco perché il motto della Polizia Penitenziaria è Despondere spem est munus nostrum, ovvero assicurare, garantire, mantenere viva la speranza rafforzandone il fondamento. È, in realtà, il contenuto dell’intero sistema penale.

Un carcere solamente punitivo non è civile né umano e nemmeno “italiano”, perché non risponde a quanto abbiamo sottoscritto nel patto fondamentale della nostra cittadinanza.

Un carcere che lascia il riparativo come un’opzione possibile, anche auspicata, ma non la missione del sistema penale, finisce per essere un limbo senza prospettiva, inutile, e, di conseguenza, peggiorativo.

La sicurezza non è data dalle famose “chiavi da buttare” ma, anzi, esattamente dal contrario, cioè dalla rieducazione con tutto quello che comporta.

Sono certamente indispensabili la certezza e la sicurezza delle pene ma, proprio per questo, anche di quelle alternative che, proporzionate e con saggezza, possono aiutare a cambiare, a guardare al futuro. Non sono scorciatoie, concessioni “buoniste”, ma esercizio di vero dovere costituzionale e, per i cristiani, di amore.

Viene da domandarsi se crediamo veramente alla riparazione. Oppure pensiamo che dobbiamo solo certificare la frattura avvenuta con il reato? Solo il riparativo risana la ferita e offre sicurezza. Rispondere al male infliggendo altro male non risponde alla vocazione alta della giustizia e rinforza il circolo vizioso del male stesso.

E non risponde nemmeno al grido delle vittime, che soltanto la logica perversa dell’audience e del consenso elettorale svilisce in sete di vendetta. Le vittime sono d’animo ben più nobile delle nostre narrazioni semplificatorie e domandano umanità, non disumanità.

Il carcere, come risposta penale al crimine, è espressione della giustizia, la quale, se non è riparativa in ogni sua forma, non è giustizia. Il fondamento è nella «dignità infinita e inalienabile» della persona. Lo richiama la dichiarazione Dignitas infinita, sottoscritta nell’aprile scorso da papa Francesco, in particolare laddove dice, riferendosi alle carceri di tutto il mondo, «appare opportuno ribadire la dignità delle persone che si trovano in carcere, spesso costrette a vivere in condizioni indegne, e che la pratica della tortura contrasta oltre ogni limite la dignità propria di ogni essere umano, anche nel caso in cui qualcuno si fosse reso colpevole di gravi crimini».

Il fondamento risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e di progettare un futuro di bene. Quando incateniamo le persone al proprio passato finiamo per essere tutti dei pregiudicati. Abbandonato in un carcere afflittivo, per liberarsi dal “fine pena: mai”, qualcuno cede alla tentazione di mettere fine alla pena mettendo fine alla vita. Senza futuro il presente diventa invivibile.

Una pena che vuole soltanto punire la colpa è uno spreco di risorse e di umanità, perché non rende migliore né chi la subisce né chi la impone. Solamente passando dal dito puntato contro la colpa alla mano tesa per l’assunzione di responsabilità, vale la “pena” di limitare la libertà per portare a rivedere il proprio passato.

Non è saggio né utile scaricare tutto sul carcere, tanto meno pensare al carcere come ad una discarica sociale. Solo chi è passato per il carcere può capire quanto può essere avvilente non avere un asciugamano e asciugarsi con una maglietta sporca di due giorni o avere la biancheria intima per una settimana. Il valore degli oggetti in carcere – come la moka – è fortissimo, sono le cose concrete che ti aiutano ad andare avanti senza la paura di ricadere indietro.

Altrettanto, un carcere che scarica tutta la responsabilità sul colpevole, lasciandolo da solo, non aiuta né il condannato né il popolo italiano, in nome del quale è stata emessa la sentenza, ad assumersi la responsabilità di costruire un futuro responsabile.

Il tempo di una persona non può mai essere privo di significato. La Costituzione dà alla pena detentiva la centralità rieducativa, un valore intangibile, da perseguire effettivamente e che riguarda ogni detenuto.

Per l’Amministrazione il punto fermo è che la sua corretta capacità di funzionare adeguatamente è un bene che dev’essere perseguito, che riguarda sia la vita di chi sconta una pena sia di chi in questo sistema opera, lavora ogni giorno.

Filtrerà sempre un raggio di luce! Per tutti noi.

  • Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna.
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