Per adulti si intendono quanti hanno affrontato e risolto i maggiori problemi della stabilità di vita: casa, lavoro, famiglia, cittadinanza.
La casa è un bene primario perché offre stabilità. Scegliendo la casa si stabilizza il “luogo” dove stare e, di conseguenza, si creano i legami necessari per essere soddisfatti.
La casa
Le statistiche ufficiali dicono che, in Italia, oltre il 70% dei suoi abitanti ha una casa di proprietà. Lo sviluppo del loro possesso è avvenuto tra gli anni ’70 e ’80, grazie a una serie di circostanze favorevoli.
L’industrializzazione, le migrazioni interne ed esterne, i piani regolatori dei Comuni, hanno incoraggiato investimenti anche a categorie di persone dal reddito non eccessivamente alto.
La cultura del tempo spingeva all’acquisto o alla costruzione di una casa propria. Il vivere in un’abitazione affittata suggeriva l’incapacità di essere autonomi. Ma la sicurezza di un’abitazione propria era il frutto di sacrifici, sintetizzabili nel rinunciare a ogni spesa voluttuaria.
Con la casa si progettavano 20 e oltre anni di sacrifici, dovuti al debito acceso con i mutui ipotecari. Molto più lenta è stata l’integrazione per chi era stato costretto ad emigrare: dal sud d’Italia, ma anche da zone povere del centro e del nord.
Solo le famiglie con reddito medio-alto possederanno una seconda casa, acquistata in genere nei luoghi di provenienza o in zone particolarmente attraenti.
Per chi non aveva avuto possibilità economica, un piano post-bellico, chiamato INA-casa, nel 1949 iniziò la costruzione di alloggi economici, le celebri “case popolari”. Nelle città furono costruiti interi quartieri che, nel tempo, si ridurranno a veri “ghetti”. La stratificazione dei quartieri avvenne anche in conseguenza della selezione dei redditi delle famiglie. Alcuni quartieri nelle metropoli sono diventati ingestibili per la raccolta di fasce di popolazione deboli e fragili.
L’attenzione ai domicili non è secondaria: dal luogo dove si abita derivano aggregazione, convivenza, servizi, criminalità. La scala delle opportunità è proporzionale alla fin fine alla ricchezza prodotta o goduta. Abitare in zone degradate ha conseguenze sul futuro della vita.
Il lavoro
Il lavoro è strumento di dignità. È indispensabile sapere ogni giorno di poter lavorare. Non solo per un lavoro generico, ma proporzionale alle attese dei propri progetti. Le fasi occupazionali in Italia e in Europa hanno attraversato momenti di espansione e di depressione. Dal 2008 l’Europa intera sta vivendo difficoltà occupazionali.
La fisionomia del lavoro negli anni è cambiata: dagli addetti all’agricoltura si è passati alla manodopera industriale, prima generica e poi specializzata. L’operaio generico è diventato superfluo con la delocalizzazione del lavoro nell’Oriente, nei paesi dell’Est e recentemente nel nord Africa. Il minor costo del lavoro ha spinto le aziende a non gestire la creazione di beni, ma di affidarla a terzi, per poi offrirla commercialmente. Si pensi ai grandi marchi nel settore manifatturiero e hitech.
Da qui la spinta a cercare spazio nei servizi, possibilmente “pubblici”, così da ottenere stabilità, anche se a remunerazione svantaggiosa rispetto al libero mercato.
Con l’aggravante di dare scarso spazio alle donne e ai giovani. Un problema irrisolto che solo lentamente sta recuperando terreno. Per le donne l’unica prospettiva è quella di poter lavorare nei servizi di pubblica utilità: numeri vertiginosi per pochi posti messi a concorso. Purtroppo senza prospettiva occupazionale di ampio respiro, dimenticando il rapporto tra lavoro e vita familiare.
Si sono create fasce di popolazione svantaggiate, con livelli di disuguaglianza notevoli e difficilmente colmabili: da un punto di vista umano e sociale, le condizioni sono degradanti e ingiuste.
I giovani sono stati costretti a inventare uffici, competenze, servizi (le celebri partite IVA) difficili da reggere senza il cospicuo aiuto del propri genitori.
I movimenti finanziari, le aggregazioni, i grandi capitali sono i gestori della sicurezza di milioni di persone: una lotta impari contro chi ha per unico scopo il guadagno, con regole stringenti per il maggior profitto, senza freni.
Questo quadro ha ripercussioni sostanziali nella vita delle persone e della famiglia. La cultura dominante diventa la sicurezza da raggiungere, legata a mestieri che garantiscono prestigio e ricchezza.
I miliardi investiti ogni anno in giochi d’azzardo, ma anche in quelli legali, dicono quanto sia forte l’aspirazione a diventare ricchi e famosi. Alcuni fenomeni incomprensibili quali lo sport dove girano milioni e milioni tra incassi, ingaggi, diritti televisivi accentuano la tendenza a una società che ha il sogno della ricchezza e del successo.
Purtroppo, un popolo che si ribella per la mancanza di servizi ma ha poco da dire per il divertimento di sport esosi e contraddittori, quali il calcio, il basket, la Formula 1, lo sci, il ciclismo è un segnale che non riporta alla serietà della vita, ma fa prevalere l’idea del vincitore.
Le relazioni
Le basi economiche di giudizio della vita influiscono anche nei rapporti personali e sociali. La cultura moderna prevalente è diventata così materialistica e individualista.
Poche le voci che si alzano contro il rischio di decadenza di una società che esalta, teoricamente, diritti e parità, ma che, nella pratica, pensa a se stessa, a discapito di chi è indietro.
Il benessere si basa sulle capacità di essere produttori e consumatori. Forse anche da questo derivano le attenzioni alla fisicità, alle tendenze individuali, alla scompaginazione di principi etici capaci di dare spessore al senso della vita.
L’ossessione per la salute, per la bellezza, per l’apparenza sminuisce i valori spirituali. I diritti vengono invocati, sconvolgendo i criteri di giudizio prevalenti che, per secoli, sono stati patrimonio comune.
La maternità surrogata, la definizione dei generi, la sessualità, la famiglia sono ambiti concepiti con una filosofia che li distorce fin dall’inizio perché i dati di partenza sono fissati aprioristicamente dalle tendenze individuali e materiali di quest’epoca.
La famiglia
La famiglia è uno dei camparti che ha subito trasformazioni profonde a seguito della cultura moderna, affermata oramai globalmente.
Il matrimonio non è più concepito secondo i canoni del patto tra maschio e femmina, indirizzato al bene dei coniugi e alla procreazione per tutta la vita.
È la risposta al bisogno di affetto e di vicinanza, saltando ogni ostacolo che impedisca il desiderio di vivere insieme. Si spiegano così le convivenze prematrimoniali, le unioni civili anche tra soggetti dello stesso sesso, il desiderio di figli senza procreazione genitoriale. La stessa durata del matrimonio o dell’unione è subordinata al consenso che è diventato continuo. Non è da meravigliarsi se già il diritto romano aveva previsto il matrimonio con il consenso continuo: il matrimonio durava fino a quando i due decidevano di restare uniti.
I dati offrono questo quadro: matrimoni in decrescita, matrimoni religiosi in numero minore di quelli civili, procreazione inferiore alla curva di sopravvivenza demografica, separazioni e divorzi in crescita, solo parzialmente compensati con un secondo matrimonio.
Per essere espliciti: una civiltà in decadenza, nemmeno messa in discussione dall’ingresso di nuove culture, troppo numerose e comunque convertite ai nuovi parametri di giudizio.
La religione
Religiosamente i cristiani non sono riusciti ancora a trovare un’alternativa alla cultura prevalente. Qualcuno appella ai principi sacri, ancorandosi in gruppi molto selezionati e affiatati, ma poco influenti nell’opinione pubblica. Altri fanno appello alla religiosità popolare che possiede richiami autentici di fede. Altri ancora si sono irrigiditi nel selezionare un’adesione alla dottrina della Chiesa.
L’impressione è di uno stallo tra l’incredulità e l’impotenza che osserva, senza sapere cosa fare. Tentativi catechetici, liturgici, pastorali ripetono dottrina e schemi, con linguaggi antichi, senza incidere nelle coscienze personali, né nell’opinione pubblica. L’unica voce ascoltata è quella di papa Bergoglio, che, stranamente, non è nemmeno sempre accolta a volte dallo stesso clero e dai vescovi.
Cosa fare?
La strada possibile è quella di ripercorrere la sostanza del messaggio evangelico. Con rispetto, ascolto e tolleranza, ma senza sconti.
Il riferimento è alle beatitudini. Amare Dio e il prossimo, nel racconto di Matteo è stato modulato con l’essere umili, miti, consolatori, giusti, misericordiosi, sinceri, pacifici, fedeli. Sono virtù prima di significato umano perché significano tolleranza, rispetto, equilibrio e giustizia, ma hanno anche una dimensione religiosa.
La radice della “perfezione” è Dio il quale “è perfetto”. Un progetto che nulla toglie alle risorse umane, ma aggiunge un’armonia che in Dio ha la pienezza.
In termini pedagogici queste virtù si traducono in comprensione, sollecitudine, benevolenza, cortesia, mitezza, gratuità, gratitudine, perdono. Non sono solo virtù morali, ma appellano direttamente a Dio e alla “somiglianza” a lui. È un messaggio ecologico di un approccio che rispetti la natura, i propri amici, la nazione e il mondo.
Le figure religiose e civili che hanno seguito questa strada eroicamente sono molte e ammirate; per citarne alcune don Puglisi, don Giuseppe Diana, i monaci di Tibhrine, le Suore poverelle del Congo, Carlo Urbani, Carlo Acutis, don Roberto Malgesini, ma anche quanti in questo tempo di pandemia sono morti per generosità.
Le riflessioni sulle beatitudini offrono la guida per la cittadinanza. Sostanzialmente, la cittadinanza raggruppa i pensieri e le azioni che riguardano la vita collettiva: nel lavoro, nella partecipazione alla politica, nei servizi della scuola, della salute, della giustizia, delle amministrazioni pubbliche e private.
La discussione su un nuovo partito dei cattolici, almeno in Italia, è marginale. La risposta di una cittadinanza autenticamente cristiana si evidenzia sull’adesione sincera ai principi evangelici. Confonderla con i dettagli delle varie disposizioni legislative e organizzative è discutibile e vanno misurate con la loro efficacia.
Sicuramente è tramontata l’idea di una nazione cristiana: nulla impedisce però di esprimere i propri orientamenti e decisioni secondo il credo che si professa.