Con una delle espressioni dirette e spiazzanti cui ci ha abituato, papa Francesco è tornato sul tema della proprietà privata: condividerla, ha detto, “non è comunismo, è cristianesimo allo stato puro”. In forma più estesa e argomentata, egli già se ne era occupato nella Fratelli tutti (cf. n. 120).
Lì faceva rimando al precedente magistero pontificio secondo il quale “il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale, è un diritto naturale, originario e primario” e citava la Populorum Progressio di Paolo VI: “tutti gli altri diritti, incluso quello alla proprietà privata, non devono intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione”.
Per rafforzare il concetto, di suo, Francesco così concludeva: “Ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica”.
Nel solco della tradizione
Merita soffermarsi sul senso e sul peso di queste parole. Intanto Francesco si innesta nella più collaudata tradizione dell’insegnamento sociale della Chiesa.
La sostanza è già tutta lì raccolta. Compresa la distinzione di stampo tomistico accennata da papa Montini tra diritto naturale, originario e primario (la destinazione universale dei beni) e diritto naturale secondario e derivato (la proprietà privata). Ciò che Francesco significativamente vi aggiunge è riconducibile al discernimento pratico circa la concreta evoluzione del capitalismo contemporaneo.
Egli, con le parole sopra evidenziate, fa due sottolineature:
a) la suddetta gerarchia dei valori e dei diritti non è una “teoria” priva di implicazioni, essa dovrebbe avere decisive ricadute pratiche nei rapporti economici, sociali e politici, nella distribuzione delle risorse e del potere;
b) tuttavia, nella realtà, così non è: di frequente si sovvertono le gerarchie, il diritto alla proprietà privata finisce per prevalere sul principio – superiore – della destinazione universale dei beni.
Dunque, Francesco non si discosta dalla tradizione e dai suoi predecessori. Ma nel contempo – va notato e non è poco – il suo magistero si segnala per un approccio storico-concreto (forse un tratto della spiritualità ignaziana), per un’aderenza agli sviluppi delle economie e delle società capitalistiche; diciamolo pure, per un franco, severo giudizio sulle loro contraddizioni, sui costi umani, sociali e ambientali che quel modello di sviluppo si porta dietro.
Se vogliamo, qui si può rinvenire traccia di un punto di vista cui non è estranea l’estrazione di un Pontefice che viene “dalla fine del mondo”, cui riesce più facile scorgere i limiti e i guasti (e non solo le indubbie conquiste) del nord del mondo e dell’occidente sviluppato. Mettendo utilmente in discussione l’opinione secondo la quale tra cristianesimo e occidente vi sarebbe una naturale consonanza, un’affinità elettiva. Tesi cara a chi indulge all’idea del cristianesimo come religione civile.
Già prima della Fratelli tutti, egli se ne era occupato nella Laudato si’ e vi è tornato su svariate volte in interventi occasionali. Si pensi alla denuncia della cultura dello scarto o dell’economia che uccide; alle sue parole senza sconti su armamenti, immigrazione, vaccini, disuguaglianze, povertà. Contraddizioni che il flagello globale della pandemia ha semmai acuito e reso più manifeste.
Un contributo, quello del papa, a un discernimento concreto e uno stimolo, indirizzato ai cristiani, alla lucidità e al coraggio di un giudizio profetico, che, pur senza integrismi, tuttavia si misuri con la radicalità della “giustizia più grande” proclamata dal Vangelo.
Difficile non scorgere, neppure solo tra le righe, un richiamo ai cristiani a non omologarsi, a non consegnarsi a un malinteso realismo, a non iscriversi al già troppo affollato “partito” del TINA (il thacheriano “there is no alternative”, non vi sono alternative al sistema vigente). Di qui anche le parole di incoraggiamento del Papa per quei movimenti popolari che si battono per l’elevazione sociale dei lavoratori.
Vangelo e Costituzione
Per evocare il paradigma antico e sempre nuovo della Lettera a Diogneto, vi sottende l’appello a stare cordialmente dentro la città degli uomini custodendo però la “differenza cristiana”, anche grazie alla partecipazione a concrete esperienze di “comunità alternative” (tema caro a Martini). Alternative alla logica e alle pratiche, per lo più funzionali e contrattualistiche, che informano i rapporti sociali. Non nella stessa forma concreta, ma, questo sì, traendo ispirazione dalle comunità primitive e dai sermoni dei Padri della Chiesa.
Non a caso Francesco ha citato gli Atti degli Apostoli ove “nessuno considerava sua proprietà quello che gli apparteneva, ma fra loro tutto era comune”. Sarebbe ingenuo immaginare che la macrosocietà possa instaurare un regime di comunione dei beni, ma non lo sono (ingenue):
a) l’idea che non tutte le relazioni umane e sociali siano per definizione e sempre di natura utilitaristica, che esse conoscono anche la dimensione gratuita, oblativa dello scambio diseguale;
b) l’ambizione di costruire comunità, mondi vitali generativi e rigenerativi, che possano testimoniare e irradiare nella società più vasta logiche alternative a quelle dominanti dello scambio mercantile.
È probabile che modelli altri rispetto a quello dominante dell’economia capitalistica – penso all’economia di comunione o all’economia civile, che ambiscono a non sottostare alla dittatura del mercato e del profitto – non possano rappresentare un’alternativa sistemica.
Mi contenterei che ci si ancorasse agli art. 41-43 della nostra Costituzione che disegnano i tratti di un’economia sociale di mercato oggi insidiata dalle logiche oligopolistiche e dalla finanziarizzazione del capitalismo internazionale. Logiche che largamente prevaricano sul potere degli Stati nazionali e che, di riflesso, rischiano di travolgere la “funzione sociale” della libera iniziativa economica a sua volta imperniata sulla proprietà privata dei mezzi di produzione.
Solo come contributo alla discussione vorrei sottoporre alcuni brani scelti della Rerum Novarum.
Leone XIII aveva la vista lunga.
“3. A rimedio di questi disordini, i socialisti, attizzando nei poveri l’odio ai ricchi, pretendono si debba abolire la proprietà, e far di tutti i particolari patrimoni un patrimonio comune, da amministrarsi per mezzo del municipio e dello stato. Con questa trasformazione della proprietà da personale in collettiva, e con l’eguale distribuzione degli utili e degli agi tra i cittadini, credono che il male sia radicalmente riparato. Ma questa via, non che risolvere le contese, non fa che danneggiare gli stessi operai, ed è inoltre ingiusta per molti motivi, giacché manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze degli uffici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale.”
e anche:
“5. Il peggio si è che il rimedio da costoro proposto è una aperta ingiustizia, giacché la proprietà prenata è diritto di natura. Poiché anche in questo passa gran differenza tra l’uomo e il bruto. Il bruto non governa sé stesso; ma due istinti lo reggono e governano, i quali da una parte ne tengono desta l’attività e ne svolgono le forze, dall’altra terminano e circoscrivono ogni suo movimento; cioè l’istinto della conservazione propria, e l’istinto della conservazione della propria specie. A conseguire questi due fini, basta al bruto l’uso di quei determinati mezzi che trova intorno a sé; né potrebbe mirare più lontano, perché mosso unicamente dal senso e dal particolare sensibile. Ben diversa è la natura dell’uomo. Possedendo egli la vita sensitiva nella sua pienezza, da questo lato anche a lui è dato, almeno quanto agli altri animali, di usufruire dei beni della natura materiale. Ma l’animalità in tutta la sua estensione, lungi dal circoscrivere la natura umana, le è di gran lunga inferiore, e fatta per esserle soggetta. Il gran privilegio dell’uomo, ciò che lo costituisce tale o lo distingue essenzialmente dal bruto, è l’intelligenza, ossia la ragione. E appunto perché ragionevole, si deve concedere all’uomo qualche cosa di più che il semplice uso dei beni della terra, comune anche agli altri animali: e questo non può essere altro che il diritto di proprietà stabile; né proprietà soltanto di quelle cose che si consumano usandole, ma anche di quelle che l’uso non consuma.”
“12. Ed oltre l’ingiustizia, troppo chiaro appare quale confusione e scompiglio ne seguirebbe in tutti gli ordini della cittadinanza, e quale dura e odiosa schiavitù nei cittadini. Si aprirebbe la via agli asti, alle recriminazioni, alle discordie: le fonti stesse della ricchezza, inaridirebbero, tolto ogni stimolo all’ingegno e all’industria individuale: e la sognata uguaglianza non sarebbe di fatto che una condizione universale di abiezione e di miseria. Tutte queste ragioni danno diritto a concludere che la comunanza dei beni proposta dal socialismo va del tutto rigettata, perché nuoce a quei medesimi a cui si deve recar soccorso, offende i diritti naturali di ciascuno, altera gli uffici dello Stato e turba la pace comune. Resti fermo adunque, che nell’opera di migliorare le sorti delle classi operaie, deve porsi come fondamento inconcusso il diritto di proprietà privata. Presupposto ciò, esporremo donde si abbia a trarre il rimedio.”