Per questo seminario di studio dell’Istituto G. Toniolo, sul tema “Educare alla reciprocità. L’enciclica Fratelli tutti” (videoregistrazione, qui), mi è stato chiesto di offrire un inquadramento culturale di alcuni orizzonti di riferimento possibili per le analisi e le sfide urgenti che papa Francesco elabora in questo suo testo.
In altri termini, si tratta di vedere se l’enciclica sia una sorta di masso erratico rispetto all’intelligenza del nostro tempo, frutto al più di un animo bello visionario ma incapace di incidere sugli ingranaggi che regolano la socialità contemporanea – ossia se si tratta di un testo forte nella sua utopia (accusa dalla quale Francesco si difende, prevenendola, più volte nel testo) ma debole nelle possibilità di realizzazione.
E lo sarebbe, così secondo alcuni, perché non ci sarebbero alternative al sistema neo-liberale su cui fanno perno le potenze tecno-finanziare che tengono in scacco sia l’organizzazione del mondo sia la configurazione del vivere-insieme fra molti diversi tra di loro.
In buona compagnia
Per sgombrare subito il campo, anche se solo attraverso una rapsodia di cenni, si può dire che l’ispirazione di Fratelli tutti, tanto nelle sue analisi quanto nelle suggestioni che offre per l’ideazione di un nuovo e diverso ordinamento della socialità umana, non è affatto solitaria nell’attuale panorama culturale occidentale. Infatti, intorno al testo dell’enciclica si potrebbero convocare tutta una serie di lavori e studi che si muovono in maniera sintonica rispetto ad alcune delle sue tematiche centrali. Come quelli di Elena Pulcini sull’individualismo, sulla giustizia e le passioni, sulle paure legate ai processi di globalizzazione; quelli di Paolo Grossi sulla storia del costituzionalismo moderno e post-moderno; quelli di Simon Critchley sull’esperienza etica come forza motivazionale di una nuova forma di azione politica stante la crisi della democrazia rappresentativa.
Ma anche il recente lavoro di Jean-Marc Ferry sulla cittadinanza europea, elaborata sulla base di una filosofia dell’Europa, che dedica un intero capitolo al rapporto fra amore e diritto come snodo chiave di un avanzamento del progetto europeo capace di recuperare alcune idealità fondamentali della stagione che gli diede l’avvio.
Un ultimo cenno merita essere speso per riferimento a quelle forme di organizzazione politica corporativa di base, nel linguaggio di Francesco i movimenti popolari, che si strutturano in maniera diversa (e critica) rispetto alle forme classiche della rappresentanza e della rappresentazione. In merito, a mio avviso le cose più interessanti, di mia conoscenza, si possono trovare nell’ambito dei cosiddetti black studies statunitensi – mi riferisco qui in particolare ai lavori di Stefano Harney e Fred Moten.
Sempre su questo tema, sono abbastanza sicuro che se si andasse a scavare nelle subculture asiatiche, africane e latinoamericane si potrebbero trovare riflessioni e piani di azione politica capaci di una certa vicinanza, e di un aggiustamento critico proveniente dal campo dell’esperienza, con l’enciclica di papa Francesco.
Appunto, solo una breve carrellata per lasciar emergere tutto un rivolo di correnti di pensiero e di pratiche socio-politiche che si muovono con un’affezione sintonica rispetto a Fratelli tutti; e che potrebbero offrire sponde per intriganti alleanze, proprio perché non ne sono l’esegesi ma l’immersione in una condivisa preoccupazione e cura per l’umano che è al mondo.
Contro l’inevitabile e la rassegnazione
Intorno a Fratelli tutti si può trovare quindi, in diversi ambiti del sapere, un corredo di esperienze e proposte che interagiscono e incrementano l’azzardo di papa Francesco di proporre con radicalità l’esigenza di mettere mano, con urgenza, a una nuova architettura del mondo e delle relazioni umane. L’enciclica, certo, non è senza durezze, ha una sua perentorietà che vediamo all’opera soprattutto davanti a due atteggiamenti complessivi che sembrano essere gli unici a occupare la scena del giudizio di civiltà sul contemporaneo.
Il primo è quello dell’ideologia che afferma l’ordinamento attuale come l’unico possibile, senza alternative, finendo per dichiararlo come una sorta di stato di natura immodificabile e quindi assolutamente necessario. Il secondo, quello che troviamo in quel che resta del riformismo politico, ha la forma di un realismo rassegnato che, privo oramai di ogni immaginazione, si accontenta al massimo di suggerire alcuni aggiustamenti e qualche miglioria di contorno per rendere meno indigeste, e più politicamente corrette, le ingiustizie sistemiche sul cui altare stiamo sacrificando il futuro delle generazioni.
Per entrambi questi atteggiamenti, anche se per ragioni diverse, Fratelli tutti rappresenta una insostenibile spina nel fianco da far cadere nel dimenticatoio il più rapidamente possibile.
Mi permetto una breve digressione che guarda al compito educativo di un istituto accademico come il Toniolo, nel quale si formano persone la cui professione si svolge in quello che comunemente viene chiamato il sociale (dalla scuola alle comunità per minori, dagli asili ai centri per disabili, dal lavoro con le marginalità umane all’attenzione per tutti gli esclusi che produciamo quotidianamente nella nostra società).
Tutti noi, che studiamo e lavoriamo al Toniolo, corriamo il rischio, senza accorgercene, di assestarci belli comodi tra questi due atteggiamenti di conservazione e di disillusione. Pensiamo solamente al modo in cui veicoliamo, assumendolo perché non si può fare altrimenti, il linguaggio della burocrazia dei servizi – infarcito di utenti, di progetti e criteriologie di merito, di logiche della concorrenza fra enti diversi e del premio concesso dal mercato dei servizi sociali alle prestazioni più efficaci (non tanto nella loro qualità, quanto piuttosto per la loro quantificabilità).
Quasi senza accorgercene, e con rassegnazione davanti al fatto che queste sono le regole del gioco imposte dal sistema dei servizi, alimentiamo, magari con intenzioni che vorrebbero andare in tutt’altra direzione, quella burocratizzazione della nostra società e della qualità dei rapporti umana che porta alla dissoluzione del legame sociale – la cui cura è invece quello che dà senso a una comunità accademica come il Toniolo.
Chi lavora nel campo, unendo pratiche educative e formative a una fine intelligenza culturale del nostro tempo, si accorge che “la separazione dalla ragione è la separazione della civilizzazione, della civilizzazione della ragione. Perché la civiltà di per sé avrebbe una qualità sostanziale nel produrre forme degne del legame sociale che la civilizzazione come burocratizzazione le ha fatto perdere, insieme al capitalismo avanzato, sofisticato, raffinato, che adesso è estetico: è il mostro mite” (P. Sequeri).
Per l’ispirazione formativa ed accademica del Toniolo, nella luce di un’antropologia cristiana all’altezza delle sfide del tempo, Fratelli tutti rappresenta sicuramente una sponda di resistenza per non assuefarsi alle pratiche e ai linguaggi di questo mostro mite che frequentiamo quotidianamente, col rischio di farlo diventare un innocuo compagno di viaggio quando invece rappresenta l’antitesi della ragione del nostro operare.
L’individuo proprietario
Forse, abbiamo bisogno di attingere dalla sapienza di altri tempi, quando il mostro non si camuffava di burocrazie e il suo lessico non veniva usato accomodare il marginale, il diverso, l’escluso, nel riconoscimento del suo stato come apice del suo riscatto e massimo della sua accettazione civile (che è quello che accade oggi in molti degli ambiti che ci vedono impegnati socialmente): “la Rivoluzione francese ha abbattuto molti privilegi, ha sollevato molti oppressi; ma non ha fatto che sostituire una classe all’altra nel dominio. Però ha lasciato un grande ammaestramento: che i privilegi e le differenze sociali, essendo prodotto della società e non della natura, possono essere sorpassate” (A. Gramsci).
Il mostro è mite non perché non miete più vittime, ma perché ha creato un sistema complessivo in cui continuano a esserlo senza poterlo rivendicare in nome di una giustizia che non solo le nomina in quanto tali, ma che mette in atto processi di riparazione effettiva della violenza loro inflitta. La mitezza del sistema sta nell’aver reso normale il fatto che molti, davanti a esso, soccombono e fluttuano ai suoi margini come scarti inevitabili (e irrilevanti) del normale funzionamento della macchina societaria e tecno-finanziaria.
Il richiamo alla Rivoluzione francese non è causale, certo non in Gramsci ma neanche per riferimento alla Fratelli tutti. Non lo è, perché è il momento genetico della modernità politica e giuridica posta sotto l’imperativo del capitale, dell’interesse economico, della proprietà come principio organizzatore e matrice costituzionale che elegge l’individuo proprietario, delle cose e di sé come una cosa, a una sovranità inedita e incontrastata sulla scena del mondo.
Questo a discapito della dimensione sociale, dei legami civili condivisi e collettivi che sono propri al vivere umano. In quest’ottica, il calcolo del sé (e per sé), come individuo isolato e solitario, soppianta ogni passione che non sia possessiva e funzionale all’incremento proprietario dell’ego.
Questo quadro di fondo, mi spinge a pensare che Fratelli tutti, pur nel suo afflato universale che azzarda addirittura l’inedito di un’alleanza fra religioni particolari a favore dell’umano che è comune a tutti, guarda e parla soprattutto all’Europa e alla sua storia. Si tratta certo di un’interlocuzione critica, ma non solo. Vi è anche un investimento verso l’Europa e il suo progetto – portatori di un’idealità urgentemente attuale, rimasta inespressa in molti suoi aspetti, ma che spinge verso una sua possibile realizzazione come creazione di un’istanza nuova sugli scenari globali delle geopolitiche contemporanee.
L’ordine del dono
Francesco guarda all’Europa avanzando non solo l’esigenza ma anche l’urgenza di ripensare radicalmente il rapporto fra etica, politica e diritto – a partire da una concezione non sentimentale e non romantica dell’amore come passione fondamentale per l’umano comune a tutti noi.
Forza, questa dell’amore, che potremmo chiamare oblativa – che non vuol dire né sacrificale né sacrificante, ma si rifà piuttosto alla potenza di interruzione (economica, politica e sociale) iscritta nell’ordine del dono: “che appare di una finezza, di una eleganza e di una efficienza invidiabili anche dalle nostre società postmoderne. Il sistema della donazione ha a che fare con il logos del legame sociale e ha una potenza maggiore di quello della ragione civile giuridica, ed è in grado di sostenerne i difetti quando occorre” (P. Sequeri).
Nella sua forza oblativa, l’amore che circola nella simbolica del dono rappresenta “un desiderio di legame visto non più come mezzo per la realizzazione dei propri scopi acquisitivi” (E. Pulcini), ma come passione per l’altro, qualunque altro, nella quale si arriva ad apprezzare in esercizio la stessa propria dignità di essere – non come accaparramento concorrenziale delle opportunità, ma come pratica di messa in comune del proprio al di là dei confini psichici, sociali e affettivi di sé come unico soggetto del mondo (rispetto al quale, ogni altro e ogni altra cosa è mera funzione della propria soddisfazione).
Verso un diritto dei fatti
Come ha notato Paolo Grossi nella sua ricostruzione storica dei processi costituzionali moderni, l’ordinamento che esce dalle due rivoluzioni epocali (americana e francese) si pone a servizio esclusivo di una modernità di stampo liberista, a tutela della borghesia che si afferma come nuova classe esclusiva: “dove l’avere è il più efficace contributo alla pienezza dell’essere” (P. Grossi).
La modernità politica e giuridica si fonda su questa religione che sacralizza l’individuo proprietario, solo, astratto, senza nessun legame a cui si deve e a cui deve qualcosa. Una modernità che non solo non è in grado e non ha alcuna intenzione di onorare la fraternità che pur sempre proclama come sua cifra distintiva, ma che è anche strutturalmente anti-egalitaria: “gli individui sono infatti potenzialmente uguali gli uni agli altri, prescindendo da contingenti e irrilevanti situazioni fattuali” (P. Grossi).
L’uguaglianza proclamata di diritto serve a sancire la disuguaglianza che regna di fatto fra gli esseri umani – come aveva colto con estrema lucidità Anatole France: “La legge, nella sua solenne equità, proibisce al ricco come al povero di dormire sotto i ponti, di elemosinare nelle strade e di rubare il pane…”.
Bisognerà attendere, secondo l’analisi di Grossi, il XX secolo europeo che esce dalla due guerre che ne sconvolgeranno lo scenario, per vedere – prima con la breve Repubblica di Weimar e poi con la Repubblica italiana – scardinata questa consacrazione giuridica dell’individuo proprietario e giungere all’affermazione del sociale, del comune, quale dimensione costituzionalmente normativa della socialità umana. “La Repubblica italiana riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (Costituzione, art. 2).
La nostra Costituzione rispecchia la “pluralità nella sua interezza, nell’essere totalmente plurale; precisando subito che, con questi termini, si intende una pluralità che non ammette eccezioni, che è valorizzazione e tutela di tutte le diversità che rendono complessa la società che il popolo è, pluralità di ricchi e poveri, di sapienti e ignoranti, di potenti e inermi. Infatti, per ogni cittadino, nessuno escluso, è progettata e scritta la Costituzione e a ogni cittadino parla, assistendolo e tutelandolo quotidianamente (…). In questo disegno si staglia, nella sua peculiarità, la figura di un soggetto, che non è l’individuo insulare ed egocentrico delle ‘carte’ borghesi, che è invece persona, cioè uomo concreto accanto e in mezzo ad altri uomini concreti, in costanti relazioni con loro, investito di sacrosanti diritti ma altresì di doveri. Il quadro è decisamente sociale” (P. Grossi).
Dalla privatizzazione del pubblico a nuove prassi politiche sociali
Ma questo inquadramento costituzionale del sociale, come dovere pubblico e condiviso che fa l’essere un cittadino insieme ad altri cittadini, si scontrò quasi subito con una sempre più pervasiva privatizzazione delle istanze pubbliche – come ha annotato Dossetti in un suo intervento del 1994: “si tratta della fragilità del diritto – e delle istituzioni preposte alla sua applicazione – in tutti i paesi: e in particolare, già negli anni ’50 del XX secolo, la progressiva sostituzione, ad opera delle grandi imprese e particolarmente delle multinazionali, di organi privati alle pubbliche magistrature”.
Sarebbe interessante indagare più a fondo questa fragilità del diritto che viene colta da Dossetti, rimasto giurista anche da monaco e trovando proprio nel monachesimo quella chiave che gli permise la “scoperta della storia” (P. Prodi), che lo porterà poi a intravedere la insufficienza del diritto a essere unico referente della configurazione di una ordinata socialità umana.
Questo ci porterebbe troppo lontano dall’ambito del nostro seminario; importante è però recuperare la ricaduta sociale di questa privatizzazione del pubblico che prende avvio subito dopo la II Guerra mondiale: “in questa solitudine, che ciascuno regala a se stesso, si perde il senso del con-essere: e la comunità è fratturata sotto un martello che la sbriciola in componenti sempre più piccole, sino alla riduzione al singolo individuo. È sul singolo che si basa l’imperativo, e il dogma, del nostro tempo: i diritti sono solo degli individui, il diritto è solo individuale. Perciò rispetto agli altri non ci possono essere che contratti, in funzione dei rispettivi interessi e del reciproco scambio. Viviamo in un’età caratterizzata dal primato del contratto e dall’eclissi del patto di fedeltà” (G. Dossetti).
Fratelli tutti si pone all’incrocio tra questa massiccia privatizzazione del pubblico, da gestire in forma puramente contrattuale e procedurale, a cui consegue la privatizzazione del sociale come ambito di azione delle professioni educative costrette a esercitarsi in una sorta di permanente contraddizione di sé, e il recupero di quella riconfigurazione pluralista e sociale propria al costituzionalismo del XX secolo.
Quando Francesco afferma “il prioritario e precedente diritto della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e, pertanto, il diritto di tutti al loro uso” (FT 123), ossia afferma il primato del bene comune e del sociale come dimensione comune alla pluralità dei molti, cui consegue il dovere di pratiche volte a coltivare e rinforzare il legame sociale, annoda la sfida di una nuova architettura del mondo a una tradizione giuridica, ma anche politica, di cui l’Europa è ancora attiva custode.
E proponendo la fraternità come punto di fuga comune a questo rinnovato disegno delle relazioni umane e dei rapporti quotidiani, rimette in circolo la necessità di un’edificazione non contrattuale della società – radicata in pratiche di fiducia reciproca resa possibile da vincoli di alleanza in cui si espongono e mettono in gioco vicendevolmente le libertà dei diversi che a esse partecipano. “Mentre la solidarietà è il principio di pianificazione sociale che permette ai diseguali di diventare uguali, la fratellanza è quello che consente agli uguali di essere persone diverse” (papa Francesco) – contribuendo così ognuno a modo suo alla configurazione comune della socialità umana.
Vista in quest’ottica, la fraternità e la fratellanza sono ciò che ci fanno essere proiettandoci fuori di noi nello stringere un patto fiduciale con tutti coloro che non sono noi: “l’homo reciprocus, il soggetto del dono, è quello che presuppone un individuo consapevole della propria incompiutezza e della propria dipendenza dall’altro. È un soggetto ferito che ospita l’alterità come sua dimensione interna, come sua differenza costitutiva che gli impedisce di ricomporsi nella illusoria autosufficienza dell’homo oeconomicus o di trincerarsi nella narcisistica indifferenza dell’homo democraticus” (E. Pulcini).
Educare alla reciprocità vuol dire, allora, mettere in campo prassi politiche e sociali sovversive rispetto ai due grandi paradigmi antropologici che hanno fatto da perno a una modernità che si va sempre più spegnendo in se stessa; riattivando passioni comuni per la costruzione di una comunità di cittadinanza non tribale o regressiva.
Ma vuol dire anche riscattare la libertà dal suo camuffamento nell’autorealizzazione e nell’autodeterminazione, che la mortificano a essere il massimo della privatizzazione e, allo stesso tempo, il massimo della soggezione alle potenze che su esse contano per garantirsi una colonizzazione sempre più ampia di soggetti devotamente pronti a piegarsi alle loro ingiunzioni al godimento illimitato, che consuma ogni resistenza a onore dell’umana dignità di essere.
“Una volta che abbiamo visto che il tema della libertà e delle dignità si confondono, notiamo che oramai i processi di dominio, potere, assoggettamento, violenza, diventano a volte indistinguibili, fanno parte della normalità, dell’assetto del legame sociale, sono iscritti nel processo stesso di soggettivazione. Esasperando il prendersi cura di sé, l’ottimizzare la soddisfazione dei propri bisogni e l’incremento dei diritti del proprio desiderio alla fine si è disposti a calpestare chiunque e qualunque principio” (P. Sequeri).
Per una comunità accademica come il Toniolo, iscrivere il tema dell’educazione alla reciprocità nell’orizzonte di Fratelli tutti vuol dire anche eccedersi, non limitarsi a essere un passaggio transeunte, ma iniziare a pensarsi come istanza di riferimento per l’edificazione di prassi politiche a venire coerenti con questa aspirazione formativa.
- Relazione tenuta al seminario di studio “Educare alla reciprocità. L’enciclica Fratelli tutti”, organizzato dall’Istituto Superiore di Scienze dell’Educazione e della Formazione G. Toniolo di Modena.