Giornata europea dei giusti

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La Giornata europea dei giusti è stata proclamata nel 2012 dal Parlamento europeo e individuata nella data della scomparsa di Moshe Bejski, ogni 6 marzo. Bejski fu un ebreo salvato da Oskar Schindler, dal 1970 al 2007 presidente della Commissione dei Giusti tra le nazioni dello Yad Vashem, il museo della Shoah di Gerusalemme.

Nella ricorrenza proponiamo la vicenda della famiglia Rampi di Mantova che, durante il tempo di maggior pericolo, cedette alloggio, documenti, identità, a una famiglia ebrea originaria di Fiume. La vicenda è narrata da Frediano Sessi nel volume: Sotto falso nome (Einaudi Ragazzi 2022).

Paolo Rampi è il figlio della coppia che fece la coraggiosa scelta. La famiglia Rampi è ricordata nella foresta dei giusti dell’organizzazione Gariwo ed è stata recentemente proposta al memoriale dei giusti dello Yad Vashem. Le domande dell’intervista sono a cura di Giordano Cavallari.

  • Paolo, può ricostruire la vicenda narrata nel libro?

Mia madre Luisa Ungar e mio padre Francesco Rampi offrirono il loro appartamento in un piccolo condominio di Mantova (in viale Gorizia 6), ove si erano appena trasferiti da Bologna, all’amica del cuore di mia madre Lilli Gizelt e alla sua famiglia, nel periodo 1943-44. Lilli e i suoi familiari – fiumani come mia mamma – erano ebrei. Dopo l’8 settembre, in tutta l’Istria la caccia agli ebrei era divenuta terribile. L’appartamento mantovano era rimasto vuoto: mio padre era stato richiamato alle armi e inviato in Sardegna; mia mamma, rimasta sola in una città che non conosceva, tornò a Fiume da sua madre con mia sorella neonata Maria Anita.

Senza temere i rischi – erano i tempi della Repubblica di Salò, dell’occupazione nazista e di una particolare ferocia delle SS a Fiume – i miei genitori consegnarono ai Gizelt le chiavi del loro appartamento, con le loro carte annonarie: questa famiglia, a loro molto cara, poté così sopravvivere agli orrori di quel terribile tempo storico. Fu un gesto fatto col cuore, pensando più ai valori dell’amicizia e dell’altruismo piuttosto che a sé stessi e alle conseguenze che – ne erano indubbiamente consapevoli – avrebbero potuto subire.

  • Frediano, come ti sei imbattuto in questa vicenda nel corso della tua ricerca storica?

Tre anni fa, nel gennaio del 2020, a causa della pandemia, fui costretto a interrompere il mio lavoro di ricerca sulla vita di Laura Geiringer, una ragazza ebrea di Trieste, unica sopravvissuta ad Auschwitz della sua famiglia e morta poco dopo il suo ritorno a causa degli esperimenti medici cui era stata sottoposta nel corso della sua prigionia. Di religione cattolica, di origine ebraica, dopo la liberazione era vissuta fino al mese di agosto 1945 nell’infermeria di Auschwitz, prima di fare ritorno a Trieste.

Oltre alla documentazione presente nell’archivio del Museo, tra coloro che avrebbero potuto darmi notizie su Laura c’era un bambino italiano, Luigi Ferri che, come Laura, era rimasto nell’infermeria di Auschwitz per alcuni mesi dopo la liberazione. Così ho cominciato a cercarlo per capire da lui se avesse informazioni su Laura. Dal mio incontro con Luigi Ferri è nato il libro: Il bambino scomparso. Una storia di Auschwitz (cf. qui).

Luigi a 11 anni aveva seguito la nonna Rosalia (Rosa) Gizelt, ebrea di Fiume, ad Auschwitz Birkenau ed era stato salvato dal coraggio del dottor Otto Wolken. La nonna era stata assassinata nelle camere a gas il giorno successivo il loro arrivo, il 2 luglio 1944. Per saperne di più della sua storia, ho cercato informazioni presso l’archivio della Comunità ebraica di Fiume e proprio in quella occasione sono venuto a conoscenza che il fratello di Rosa Gizelt, il dentista fiumano Massimiliano Gizelt, con tutta la sua famiglia (la moglie Erna, il figlio Carlo, la figlia Lilli e il fidanzato della figlia Robert Frankl) si erano salvati grazie alla generosità della famiglia Rampi di Mantova che li aveva ospitati e nascosti nella loro abitazione, in viale Gorizia 6.

Da qui è cominciata la mia ricostruzione che mi ha portato a scrivere Sotto falso nome. Conoscevo da tempo Paolo Rampi, figlio di Francesco e Luisa Ungar Rampi, e con la sua collaborazione e quella della sorella Maria Anita, ho fatto le ricerche necessarie alla ricostruzione della storia: un’ospitalità generosa con uno scambio di identità molto pericoloso, per il quale, a Mantova, i Gizelt erano noti a tutti come “i Rampi”.

Da Fiume a Mantova
  • Qual era la situazione a Fiume nel periodo della vicenda Rampi-Gizelt?

Dopo l’8 settembre, Hitler ordinò di costituire nei territori dell’Alto Adriatico una nuova area amministrativa che doveva essere a tutti gli effetti una regione della Grande Germania, denominata Zona d’operazioni del Litorale adriatico (Operationszone Adriatisches Küstenland), di cui facevano parte Udine, Gorizia, Lubiana, Trieste, Pola e Fiume, nonché i territori di Sansego, Buccari, Cabar, Castùa e Veglia.

Poiché nei primi giorni di questa occupazione la resistenza di sloveni, croati e italiani aveva reagito sul piano militare con durezza, provocando frequenti scontri con le forze tedesche, il Commissario supremo del Litorale adriatico, Friedrich Rainer, diede corso a violente azioni di repressione di ogni forma di dissenso, con arresti indiscriminati, eccidi, incendi di villaggi e deportazioni di civili innocenti, che portarono la guerra nelle contrade e nelle case di tutta la regione.

Proprio a causa di questa resistenza all’occupazione, all’apparato amministrativo e militare tedesco venne affiancato un grande nucleo operativo di polizia, affidato al generale di divisione delle SS Odilo Globočnik che, arrivando in Italia, assunse il grado di comandante supremo delle SS e della polizia di tutto il Litorale adriatico.

L’ufficiale SS in questione è considerato oggi uno tra i maggiori criminali di guerra tedeschi. Prima del suo arrivo a Trieste, Globočnik, chiamato dagli amici «Globus», aveva progettato e fatto costruire tre centri di sterminio nei territori della Polonia: Bełžec, che venne aperto nel marzo del 1942; Sobibór, attivo dal maggio dello stesso anno, e Treblinka, che si trovava nei pressi di Varsavia, in funzione dal luglio del 1942. Il totale delle vittime ebree di questi tre luoghi di eliminazione raggiunse la cifra di un milione e mezzo.

  • E a Mantova?

Quanto a Mantova, la situazione era pure critica per gli ebrei, anche perché le adesioni al nuovo fascismo della Repubblica Sociale Italiana erano tante, benché motivate in modo diverso. C’era chi aveva aderito per convenienza o perché aveva bisogno di lavorare per mantenere la famiglia; chi per trarre il massimo vantaggio dalla situazione e poter cosí acquisire i beni sequestrati agli ebrei o agli oppositori del regime; e chi credeva fermamente nel progetto fascista e nazista di una nuova Europa.

Nelle vie della città, tuttavia, queste differenze non si potevano leggere sul volto dei passanti, spaventati dalla presenza incombente di tanti militari nazisti in divisa e della Gestapo. Inoltre, c’era in città un gruppo di loschi personaggi, responsabile di arresti compiuti senza una motivazione precisa se non quella di terrorizzare la popolazione.

Quei militanti fascisti si rendevano colpevoli di furti, saccheggi, o anche di crimini più gravi come l’omicidio, sapendo bene che sarebbero rimasti impuniti. Erano gli aguzzini di villa Gobio, dove, dall’estate del 1944 all’aprile del 1945, vennero imprigionate, torturate e uccise persone sospettate di fare parte della Resistenza o di svolgere attività contro il regime.

  • Quali rischi ha corso, dunque, la famiglia Rampi, assieme ai vicini di appartamento di Mantova?

Anche solo l’obbligo di esporre davanti alla porta d’ingresso di ciascun palazzo un cartello con i nomi delle persone che abitavano in ogni appartamento costituì una minaccia per la permanenza della famiglia Gizelt a Mantova, nonostante i documenti in loro possesso attestassero che erano tutti “ariani”.

Se li avessero interrogati per ore, come si faceva spesso anche con i civili inermi, sarebbero stati indotti a rivelare la loro vera identità?

  • Paolo, per quanto ne sa, i Gizelt erano e si si sentivano ebrei? Erano praticanti?

I Gizelt erano ebrei, originari dell’Ukraina (da Leopoli) da cui si erano allontanati nei primi del ’900 a causa di feroci pogrom. Non so se frequentassero la sinagoga.

Fiume era una fiorente città multietnica e multireligiosa. Di sicuro, si sentivano ebrei, come dimostra la loro storia familiare, anche successiva alla fine della guerra.

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Intrecci
  • Come si era creata l’amicizia tra sua madre Luisa e Lilli Gizelt?

Mia mamma e Lilli erano amiche fin dall’infanzia: vicine di casa, erano state a scuola insieme. Nelle numerose foto che ancora conservo le vedo a braccetto passeggiare sul lungomare: belle, eleganti, sorridenti, due vere compagne di vita. L’amicizia e la frequentazione proseguirono anche dopo la fine della guerra, anche se noi abitavamo a Mantova, mentre Lilli, col marito e la piccola figlia Susy, si era trasferita a Merano.

Passavamo insieme le vacanze invernali in montagna e, d’estate, al mare: come testimoniano altre numerose foto, e pure i miei personali ricordi di bambino.

  • Sua madre era cattolica?

Mia mamma non era particolarmente religiosa, ma era cristiana cattolica nell’educazione e nei valori. La ricordo una donna profondamente buona, sensibile, affettuosa con tutti, animali compresi. Stravedeva per i suoi figli e per i suoi nipoti.

Ma nell’intimo era molto provata dalla vita: ricordava l’esodo degli italiani dall’Istria e Fiume che colpì in particolare la sua grande famiglia con i beni; ricordava la precoce malattia e la breve vita della sua carissima amica Lilli dopo la guerra e la perdita della sua amata città natale, perché a Mantova soffriva il clima padano e le mancavano tanto il mare e il vento del golfo del Quarnaro.

  • Anche i vicini di casa di Mantova hanno rischiato non poco: cosa si sente di dire in proposito?

Posso solo dire che erano persone “normali”, nel senso migliore del termine. I vicini erano tutti consapevoli di quello che stava avvenendo nell’appartamento dello stesso piccolo condominio. Sapevano che i nuovi cinque condomini adulti non era spuntati dal nulla e non erano la famiglia Rampi, benché ne avessero i documenti.

Ma con i Rampi questi vicini avevano, in qualche modo, in comune i valori della solidarietà umana e della generosità: con il loro coraggioso comportamento hanno salvato la vita ad altri esseri umani, in un periodo storico in cui la delazione, il tradimento, la vendita di informazioni erano cose di ogni giorno. Non sono stati ricordati e ringraziati quanto avrebbero meritato, allora.

Gli anni del primo dopoguerra non furono facili per nessuno: si volevano dimenticare paure, privazioni, sofferenze e, appena fu possibile, ogni famiglia abbandonò quel piccolo condominio in mezzo al nulla, che fu poi abbattuto per far posto a palazzi più grandi.

Solo qualche settimana fa il Sindaco di Mantova, Mattia Palazzi, con grande sensibilità, ha voluto scoprire in Viale Gorizia, all’altezza del vecchio n. 6, una targa per ricordare che in quel posto i Rampi e i loro vicini di casa hanno coraggiosamente e deliberatamente disobbedito alle efferate leggi razziali fasciste per rispondere alla più profonda ed encomiabile legge della solidarietà umana.

  • Frediano, perché le delazioni?

Si pensa spesso che chi denunciava un ebreo o una famiglia con un parente partigiano fosse sempre un convinto fascista o qualcuno che era disposto a mettere in difficoltà altre persone per interesse personale. Ma durante l’occupazione tedesca in Italia e anche in precedenza, con il regime fascista al governo, i delatori potevano essere anche persone per bene che erano costrette con la tortura – o da minacce rivolte a loro o ai familiari – a denunciare conoscenti ebrei o partigiani.

Non bisogna pensare che i delatori fossero sempre uomini o donne crudeli. Primo Levi, nel suo libro I sommersi e i salvati (Einaudi 1987) ha parlato di «zona grigia» per riferirsi a quei prigionieri che, per ottenere alcuni privilegi, che aumentavano la loro speranza di vita, hanno accettato di collaborare con i carcerieri, vittime, comunque, per le quali non c’è tribunale umano che le possa giudicare e condannare.

I tedeschi, continua Levi si sono resi responsabili anche di tale crimine. Gli oppressori sono colpevoli anche di avere indotto al tradimento le loro vittime. Tuttavia, è pur vero «che nei Lager e fuori esistono persone grige, ambigue, pronte al compromesso». Questo valorizza ancor più il gesto dei giovani coniugi Rampi che hanno rischiato la vita per salvare quella della famiglia Gizelt.

Altruismo
  • Frediano, tu hai detto che questa è una vicenda di «altruismo». Cosa vuol dire, per te, altruismo?

L’altruismo è una virtù quotidiana di cui si è perso il significato. Noi parliamo spesso di carità e di solidarietà, dimenticando che l’altruismo ha a che fare con il dono in perdita, senza richiesta di ottenere in cambio qualcosa.

È l’aiuto offerto senza attesa di un riconoscimento, fuori dalla logica dello scambio o da quella della comunità di affetti; comprende in sé elementi di sacrificio e rischio ma è alla base della società universalistica. Credo che oggi si sia perduto il senso e il valore dell’altruismo, perché viviamo in un tempo in cui prevale l’affermazione dell’io, spesso senza limiti.

  • Anche a lei, Paolo, la stessa domanda: che cos’è l’altruismo?

Non è facile definirlo: per me è “semplicemente” un sentimento che si manifesta in una decisione che viene dal profondo della coscienza: è il momento in cui la persona decide di dare parte di sé o tutto di sé per aiutare un’altra persona o più persone, senza alcun tornaconto.

A volte mi sembra di vedere la scena di Luisa e di Lilli – amiche da sempre – davanti ad un caffè o sedute su una panchina a guardare il loro adorato mare: Lilli confessa a mia madre la sua angoscia e il terrore di tutta la famiglia Gizelt per la caccia agli ebrei che si sta scatenando in tutta l’Istria.

Può essere stato quello il momento in cui mia madre, sgomenta per ciò che poteva accadere alla sua amata amica e ai suoi familiari, ha preso la sua decisione, dicendo: «a Mantova c’è la nostra casa vuota, non ci abita nessuno, andate là in fretta, non state a perdere tempo, se pensate possa essere utile; io contatterò i vicini o vi accompagnerò in qualche modo là per spiegare loro, per poi tornare subito a Fiume da mia madre».

Può essere stato quello il momento in cui in mia madre l’altruismo ha parlato e si è fatto sentimento e il sentimento ha preso forma in una concreta azione di aiuto, spontaneo.

  • Frediano, questo è un libro per ragazzi, ma è anche, ovviamente, per adulti: per arrivare ad “insegnare” l’altruismo?

Non bastano le storie come questa o le parole. È necessario unire alla cultura dell’altruismo anche la pratica quotidiana, senza cercare in altri mondi: nel nostro palazzo, nel quartiere, in parrocchia, nella scuola, in ogni ambiente in cui viviamo siamo messi alla prova dell’altruismo.

Nel corso del vivere quotidiano, dobbiamo pensare che, in qualsiasi situazione, siamo dei «testimoni» di come l’uomo o la donna dovrebbero essere o vivere nella società. Vivendo, ogni momento della nostra esistenza, indichiamo agli altri come vorremmo fosse la società e l’essere umano. Scegliamo sempre e indichiamo agli altri, anche senza saperlo, una strada da percorrere. Gli altri ci guardano.

Già questa consapevolezza è un segno dell’altruismo: sentirsi responsabili non solo per sé stessi. E mostrare nella vita quotidiana che esiste pur sempre un limite tra ciò che si può fare e ciò che è lecito. La regola dello scambio è sempre ammessa nella contemporaneità, ma non sempre è lecita. Punisce i fragili, i bisognosi di aiuto, chi non ha possibilità di riscatto, chi vive nella sofferenza. Scegliere di superare la regola dello scambio a favore del dono, può essere una pratica che ci avvicina alla virtù quotidiana dell’altruismo.

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