Non era mai successo che un ciclista vestisse la maglia rosa della definitiva vittoria soltanto l’ultimo giorno. Né che il primo e il secondo cominciassero l’ultima tappa distanziati soltanto di qualche centesimo di secondo.
E neppure che trai primi cinque della classifica finale non ci fosse nemmeno un italiano. Ma andiamo con ordine, prima di archiviare un Giro di tante novità, buone e meno buone.
Prima novità: la stagione
Prima novità: la stagione, correre in primavera anziché in autunno. Anche in maggio/giugno è successo di pedalare tra la neve, ma mai col rischio di non concludere la corsa per una doppia causa: il meteo e il Covid. È andata bene su tutti e due i fronti, e va ascritto a merito degli organizzatori, Mauro Vegni in testa. Nonostante il mezzo sciopero della tappa che arrivava ad Asti, nonostante l’ingiustificato ritiro di due squadre straniere che non meritano di esser nominate, sebbene appartenenti alla “serie A” del ciclismo mondiale.
Quella che Orio Vergani, memorabile scrittore-cronista, definì la “festa di maggio”, è stata ugualmente festa, ancorché di ottobre. Festa di popolo, senza pubblico tenuto lontano dagli arrivi ma con tantissima gente, con regolare mascherina, sul percorso. E mascherine per i corridori appena scesi di bicicletta, per tutti gli addetti alle squadre racchiusi insieme agli atleti in una bolla che ha funzionato a dovere.
Seconda novità: una festa di gioventù
Se gli annali del Giro ci consegnano vincitori più giovani del venticinquenne inglese Tao Geoghegan Hart (Coppi, Saronni, Cunego…), mai così tanti giovani si erano contesi la maglia rosa, gli arrivi di tappa e i gran premi della montagna, a cominciare dal secondo in classifica, l’australiano Jay Hindley (24 anni), e dal portoghese Joao Almeida (22), per quindici giorni in rosa e quarto alla fine.
E festa di gioventù con Filippo Ganna. Forte, fortissimo, inarrivabile a cronometro (titolo mondiale poche settimane fa, nessun italiano mai prima di lui) e vincitore in una tappa con l’arrivo in salita. Potenza abbinata all’agilità, voglia di vincere, lealtà e generosità (lui maglia rosa a far da gregario al suo capitano). Non pochi lo pronosticano primo in una Parigi-Roubaix, per qualcuno capace di puntare a un grande giro. Anche senza viaggiare con la fantasia, prepariamoci ad applaudirlo molte altre volte.
Festa di gioventù perché il cambio generazionale è definitivamente in atto, il Giro ha confermato quanto era avvenuto al Tour di quest’anno con la vittoria di Tadej Pogacar e quello di un anno fa vinto da Egan Bernal (due ventiduenni). E dal lotto dei partenti mancava il ventenne belga Evenepoel, in ripresa dopo la rocambolesca caduta al Giro di Lombardia.
Terza novità: il ricambio geografico
Il cambiamento non è solo generazionale, ma anche geografico: Geoghegan Hart, sulla scia di Froome (londinese nato in Kenya) conferma la Gran Bretagna tra le nazioni leader del movimento; il Portogallo si impone sulla scena non solo con Almeida ma anche con Ruben Guerriero primo tra gli scalatori; Hindley dice che l’Australia non sforna soltanto velocisti. Per non parlare della Slovenia, piccola nazione con fior di campioni come Pagacar e Roglic.
Per il ciclismo italiano soltanto non-novità: i primi due in classifica sono Nibali (36 anni) e Pozzovivo (38). Qualcuno pronosticava lo “Squalo dello stretto” vincitore del suo terzo Giro, al pari di Bartali e Gimondi. La dura legge del tempo e della strada ci ha consegnato un combattente ancora fiero, generoso e leale, ma non all’altezza dei troppo più giovani rivali. Gli siamo comunque grati per come continua a interpretare questo sport, unico trai campioni in circolazione capace di vincere sia i grandi giri che le classiche monumento. Forse l’ultimo di un ciclismo vecchia maniera.
Pur rallegrandoci per il cronoman Ganna e aspettando la buona salute dello scalatore Ciccone, i corridori nostrani vincenti sono pochi. Diciamo anche che al Giro mancavano alcuni pezzi da 90, perché stanchi delle fatiche del Tour o per sopraggiunte disavventure: Caruso, De Marchi, Formolo, Moscon.
La scarsità di atleti di prim’ordine fa il paio con la scomparsa di squadre italiane dal circuito pro-Tour (la Serie A del ciclismo); alla mancanza suppliscono tre buone formazioni di seconda fascia: la Zabù-Brado, la Bardiani-CSF e l’Androni-Sidermec. È sempre più difficile trovare in Italia chi finanzi gli alti costi di una squadra, e d’altra parte la mancanza di campioni non attrae sponsor di peso.
L’immagine più bella che il Giro ci consegna, che fa il paio con la borraccia di Coppi e Bartali, è quella della mano di Vincenzo sulla spalla di Almeida, di quattordici anni più giovane. Quasi un passaggio di testimone.
la “globalizzazione” è un fenomeno che anche nel ciclismo si è fatto strada, la società è cambiata da quando la generazione del dopoguerra seguiva i campioni tipo Anquetil Poulidor Merckx Adorni Motta e via via per arrivare al nuovo millennio Pantani Bettini Froome Nibali. E’ cambiato il mezzo, l’avvento del carbonio, della tecnologia, i metodi delle squadre ciclistiche e l’approccio anche degli amatori, che sono quelli che sostengono il sistema perchè una marca di biciclette che vince un giro o una classica poi vede tanti appassionati sportivi correre all’acquisto proprio di quel modello, per emulare e magari pensando di andare un po’ più forte stando in sella a quella bici speciale. Oggi vedo tanti ciclisti di età matura, è bello vederli sorridere mentre pedalano, parlottare fra loro lungo stradine tranquille, fare il segno della croce mentre passano davanti ad un cimitero o una chiesetta in campagna o in montagna. C’è anche qualche ciclista solitario che mentre alza lo sguardo verso il cielo blu saluta il buon Dio che gli sta regalando una splendida giornata nella natura.