«Tempi bui sia per gli intellettuali, sia per i mezzi di cui si valgono per farsi ascoltare. Se uno vale uno, l’uno vale l’altro, non c’è differenza tra il sapiente e l’ignorante… Dobbiamo rassegnarci al trionfo degli apedeuti, come veniva chiamato nella Francia dell’illuminismo chi, non capace e non incline a seguire un corso severo di studi, congiura a screditare il sapere, così facendosi un merito della propria ignoranza? Si può ritenere che la figura dell’intellettuale sia ancora riconosciuta? Gli intellettuali sono ascoltati o messi ai margini?».
È l’incipit di Intellettuali, un intrigante libro, piccolo quanto a dimensioni ma denso quanto a contenuti, dato recentemente alle stampe per i tipi de Il Mulino nella collana parole controtempo, che ha come autore Sabino Cassese, illustre giurista, docente universitario, giudice della Corte Costituzionale dal novembre 2005 al novembre 2014 e ministro della Funzione Pubblica nel governo Ciampi dall’aprile 1993 al maggio 1994.
Il saggio (otto lucidi capitoli, una breve conclusione, un’appendice ricca di riferimenti bibliografici) è la versione lunga di una relazione – dal titolo Il ruolo degli intellettuali nella società – preparata dall’autore per un ciclo di conferenze su Gli intellettuali e la stampa, organizzato per l’anno 2020 dall’Accademia delle scienze di Torino, in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Piemonte, ma mai realizzato a causa del riacutizzarsi dell’emergenza sanitaria.
In un tempo di «generale indebolimento del raziocinio» (p. 10) anche a motivo dell’amnesia digitale che «minaccia la memoria» inducendo alla «pigrizia cognitiva» (p. 83) e di dilagante populismo che «dichiara apertamente di poter fare a meno degli intellettuali» (p. 10), assistiamo a fenomeni che hanno dell’incredibile: i pazienti dicono al medico cosa deve fare (p. 11); gli ignoranti più lo sono, più hanno fiducia di non esserlo (p. 11); i pressapochisti e i tuttologi deridono e misconoscono il valore della competenza e vogliono che risulti vero solo ciò in cui credono loro (p. 12).
Chiedersi, allora, chi siano gli intellettuali, quali siano i loro compiti, quali vizi vadano evitati e come sia cambiato il loro ruolo al tempo di internet «quando tutti possono salire in cattedra» (p. 83), ponendo fiducia acritica «nell’oracolo elettronico Google» (p. 12) che rischia di vanificare ogni tentativo di approfondimento, significa porsi questioni di decisiva importanza ai fini della qualità della stessa nostra democrazia (p. 79), la quale ha più che mai bisogno del contributo di conoscenze e di idee che può essere offerto da persone portatrici di solide competenze (p. 13).
L’intellettuale: figura complessa
Interrogarsi sul senso dell’opera intellettuale e sulla figura dell’intellettuale trova giustificazione anche nel fatto che oggi sono gli stessi intellettuali ad apprezzare o a criticare se stessi, fino ad alimentare, a volte, l’antiintellettualismo (p. 14).
C’è infatti chi, come il filosofo americano Michael Walzer, sostiene che l’intellettuale debba scendere dalla montagna per svolgere il ruolo di «critico sociale» e chi, come il filosofo italiano Norberto Bobbio, apprezza «l’intellettuale mediatore» che ama ascoltare l’interlocutore, mettere in discussione la propria verità e mantenere uno stile di apertura verso l’altro (p. 14).
Troviamo chi, come il filosofo francese Julien Benda, considera traditori gli intellettuali che, venendo meno alla loro vocazione alla ricerca pura e disinteressata, si gettano nel fiume delle polemiche politico-sociali e non sono capaci di stare al di fuori e al di sopra della mischia e delle turbolenze contingenti (p. 14) e chi, come il politologo e filosofo Antonio Gramsci, individua la specificità dell’intellettuale «nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, persuasore permanente» (p. 26).
Vi è chi, come l’economista e giurista statunitense Richard Allen Posner, ritiene che la figura dell’intellettuale sia in declino, pur auspicandone l’ascolto e chi, come lo storico italiano della letteratura Alberto Asor Rosa, «si chiede se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura o all’esaurimento della funzione intellettuale tout court» (p. 15).
L’accademico e attivista politico statunitense Noam Chomsky contesta gli intellettuali asserviti al potere (p. 14) e il sociologo Max Weber è decisamente critico nei confronti degli intellettuali «profeti in cattedra» e «pseudo-apostoli delle varie fedi di moda» (p. 28).
Il sociologo tedesco Karl Mannheim considera tipica degli intellettuali «l’attitudine ad affrontare i problemi da diverse prospettive, di cui sono componenti importanti una certa dose di scetticismo, un pensiero prospettico, la capacità di raccogliere e filtrare i fermenti della dinamica sociale, elevandosi al di sopra delle singole prospettive» (p. 32).
L’intellettuale: chi non è
Delineare la figura dell’intellettuale non è agevole. Basta pensare alla pluralità di termini e di sintagmi con i quali è indicato: dotto, chierico, saggio, colto, opinionista, ideologo, maestro, segretario del principe, maître à penser, savant, public intellectual, public moralist, social critic… (pp. 19-20).
Sabino Cassese inizia, allora, col dire ciò che l’intellettuale non è.
Non è il seguace del vivi nascostamente di Epicuro, lontano dalla vita pubblica e al riparo dalla politica e dalle tensioni sociali.
Non è il narcisista che fa di se stesso l’oggetto di una compiaciuta ammirazione.
Non è l’aristocratico che si erge sugli altri.
Non è l’anima bella incapace di agire nel mondo.
Non è la mosca cocchiera che, pur non avendone capacità e requisiti, si illude di averli, pretendendo di fare da guida ad altri.
Non è l’erudito che sa molte cose, dal momento che, come insegna Eraclito, il sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza, cioè a pensare in modo retto.
Non è neppure l’uomo di scienza chiuso nel suo campo di studi o nel suo settore disciplinare, prigioniero di un solo metodo (p. 20), dal momento che «spesso è proprio dalla confluenza di più metodi che discendono innovazioni disciplinari importanti» (p. 21).
Non è necessariamente solo un letterato, una persona di cultura umanistica, un filosofo o uno scrittore. Possono, infatti, «giocare il ruolo di intellettuale anche il medico, il giornalista, l’editore, il parroco» (p. 25) e, più in generale, qualsiasi cittadino che ami argomentare piuttosto che asserire, spiegare piuttosto che parteggiare, analizzare dati di fatto piuttosto che enunciare verità apodittiche.
L’intellettuale: chi è
In quanto portatore di valori culturali, l’intellettuale «promuove il mercato delle idee, coltiva la consapevolezza sociale della propria storia, rende meno asfittiche le proposte della politica» (p. 15), estende la cultura «oltre la cerchia delle élites» e aumenta «il capitale umano» (p. 60).
In quanto portatore di una competenza, l’intellettuale «fa parte della classe dirigente», assicurando «disponibilità di dati, di analisi, di supporto tecnico alle istituzioni» (p. 63).
In quanto parte della classe dirigente, l’intellettuale ha la responsabilità di contribuire «all’istruzione della società» (p. 64), nel senso che, come scrive il filosofo italiano Massimo Adinolfi, «prima di mettere nelle mani del popolo un potere sovrano, costituente, procuriamoci un popolo istruito, educato, acculturato, competente» (p. 60).
In quanto risorsa per la società, gli intellettuali, «informano, alimentano il dibattito pubblico, forniscono le coordinate concettuali, aiutano il pubblico a entrare nei meandri del pensiero, a ragionare con la propria testa» (p. 69).
Compiti dell’intellettuale
Chi sia l’intellettuale emerge con più chiarezza richiamando i sette i compiti che Sabino Cassese gli affida.
In primo luogo, l’intellettuale, se vuole rapportarsi con il pubblico più vasto, pone particolare attenzione nel modo di esprimersi, prediligendo la chiarezza delle parole e dei concetti: le une e gli altri debbono essere alla portata anche di chi non è un cultore della sua disciplina (p. 50). Al riguardo il prof. Cassese opportunamente ricorda che «gli intellettuali che presero parte, nel 1946-1947, all’Assemblea costituente erano talmente convinti che si dovesse parlare chiaro che usarono, nella Costituzione, 9.369 parole, di cui la grande maggioranza appartiene al vocabolario di base, ordinate in 480 periodi, con una media di poco meno di 20 parole per frase» (p. 46).
Nella consapevolezza che «ogni storia è storia contemporanea», l’intellettuale ha il compito di aiutare la società a costruire nel modo più corretto il proprio passato (pp. 50-51), facendo in modo che la tradizione sia sempre a noi contemporanea. Una sua dote «è quella di saper affrontare o scendere a patti con il passato, per trarne una lezione per il presente» (p. 22).
Egli deve poi svegliare le coscienze, fornendo ai cittadini strumenti utili per pensare e per affrontare i problemi e guardare il mondo da più punti diversi e con l’aiuto di molteplici stili di pensiero (p. 51). Può svolgere tale compito se possiede l’istinto esplorativo che gli permette di far emergere, come scrive Robert Musil ne L’uomo senza qualità, «il senso delle possibilità» e di indicare ciò che sta per nascere facendo, come direbbe Eugenio Montale in Ossi di seppia, sentire la «musica dell’anima inquieta» (p. 22).
L’intellettuale ha inoltre il compito di indicare prospettive di interpretazione dei fatti per far capire «in quale direzione ci si muove» (p. 52). Compito, questo, di particolare importanza oggi al tempo di Internet, essendoci più che mai bisogno di un intellettuale «in grado di mettere ordine nel grande mare delle opinioni e delle asserzioni che possono trovarsi on line e di aggiungere un certo grado di riflessività ai dialoghi immediati che si svolgono sulla rete» (p. 85).
Deve inoltre usare in modo pubblico la ragione in modo da innalzare cittadini e partiti «a più alta sfera intellettuale» (p. 52). Nello spazio pubblico egli porta, anche sotto forma di vis polemica, «sia un sapere specialistico, ma in forme accessibili, sia un’attitudine alla ricerca, alla ragionevolezza, al dialogo» (p. 27).
Oltre che impegnarsi in pubblico, l’intellettuale dovrà anche di tanto in tanto sapersi ritirare nella sua turris eburnea che gli permette di vedere e di stare in guardia e, all’occorrenza, «suonare l’allarme», come nella visione dello storico tedesco dell’arte Erwin Panofsky citato da Cassese (p. 93).
Ma l’intellettuale in particolare non deve limitarsi alla sola e doverosa critica o all’interpretazione dei fatti. Egli deve anche essere in grado di proporre e suscitare proposte e dare il proprio contributo per trasformare in mondo, unendo pensiero e azione, teoria e pratica (p. 53)».
Gli intellettuali debbono insegnare razionalità e dialogo, nonché far sperare in un possibile futuro migliore, che non vuol dire minore severità rispetto a quello che va storto, e proprio per questo vedere un futuro non nero» (p. 101).
Deve, infine, favorire i processi di universalizzazione della cultura mediante una visione cosmopolita della società (p. 54). «In un mondo che ha accorciato o annullato le distanze, grazie agli aerei e a Internet, chi abbia un’esperienza puramente nazionale non riesce neppure a comprendere e valutare i movimenti d’idee nazionali» (p. 23). L’intellettuale vede e affronta i problemi su scala mondiale o, se non è possibile, almeno su scala europea (p. 100).
Vizi degli intellettuali
Il ruolo dell’intellettuale può essere evidenziato denunciandone anche alcuni vizi.
Il primo vizio di cui l’intellettuale non deve rimanere prigioniero è quello dello scetticismo che, in sostanza, finisce con il negare «la funzione stessa dell’intellettuale» (p. 91).
Un secondo vizio è quello denunciato dal filosofo e storico della scienza Paolo Rossi: «Gli intellettuali amano più la veste degli araldi della disperazione che quella degli annunciatori di speranze». Vizio presente soprattutto negli intellettuali italiani che «hanno sempre scelto un atteggiamento sdegnoso verso la realtà (rifiutandola), optando per la critica distruttiva, la mera critica di ingiustizie, la minaccia di catastrofi, l’atteggiamento piagnone» (p. 92). Si tratta di «suscitare ragionevoli speranze», contro sia gli ottimisti panglossiani sia gli inutili catastrofisti (p. 101).
Un terzo vizio è quello dell’ideologismo. All’intellettuale ideologico va preferito «l’intellettuale raziocinante, che offre percorsi, mette sull’avviso, aiuta a pensare» (p. 93). Può e deve fare proposte «non per affermare un suo credo» ma «per rispondere più razionalmente a bisogni sociali, non dimenticando di illustrare premesse e conclusioni, alternative possibili, modelli stranieri, perché il suo compito è a metà strada tra quello dell’utopista e quello del riformatore e dell’educatore» (p. 94).
Ulteriore vizio è quello di ritenersi un unto e pensare di non dover rispondere a nessuno. «Alle sue capacità di fare prediche non corrisponde sempre quelle di seguirle: può insegnare il buon governo, non saper governare bene». Gli si addice, pertanto, «una certa dose di umiltà» (p. 94) unita ad una «grande probità» (p. 25).