Jacques Derrida, Luce Irigaray e il PCI

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differenza

Luce Irigaray

Fra le madri e i padri del pensiero della differenza vi è senza dubbio Jacques Derrida, autore avvincente e, insieme, assai complesso. Lo studio del suo capolavoro Politiche dell’amicizia, tra l’altro, mi pone dinanzi proprio a una delle radici della riflessione al femminile.

Il politico (inteso come la dimensione politica della storia e della cronaca), quello, in particolare, di cui si occupa il giurista e filosofo Carl Schmitt, si nutre dell’idea del “nemico pubblico, politico”, appunto, l’hostis dei latini, ben distinto dall’inimicus, il “nemico privato”, il rivale. È a partire da tale “nemico collettivo” che si definisce “l’amico”, il campo degli “amici”.  Da qui una sorta di priorità del “nemico”, rispetto all’ “amico”. E un attributo di tale “nemico” sarebbe la “possibilità reale” della sua eliminazione fisica (e dunque della guerra).

Ecco, si chiede Derrida, ciò vale per un mondo al maschile: non a caso nella riflessione schmittiana non compaiono mai “la nemica” o “l’amica”. E se l’irruzione nella storia, nella “grande storia”, delle donne mutasse un quadro del genere? Come porsi al cospetto di un’idea del politico tutta al maschile? Due sono le risposte possibili: o prendere atto che non “si può combattere questa struttura che portandosi al di là del politico, del nome ‘politica’, e forgiando altri concetti”, “per una diversa mobilitazione”, oppure “conservare il ‘vecchio nome’, analizzare altrimenti la logica e la topica del concetto, e impegnarsi in altre forme di lotta”.

Ma subito dopo il filosofo franco-algerino individua una terza eventualità, e la sente sua: “la decisione consisterebbe, una volta ancora, nel rilanciare senza escludere, nell’inventare altri nomi e altri concetti, nel portarsi al di là di questo politico senza smettere di intervenirvi per trasformarlo”.

Un pensiero complesso, dicevamo. Come complesso è il pensiero della differenza delle grandi autrici, quali Luce Irigaray, nutrita di filosofia, psicoanalisi, linguistica, politologia, teologia e altro ancora. Eppure – qui si situa un merito formidabile del Pci – tali idee hanno rappresentato l’humus per le elaborazioni culturali e politiche delle donne comuniste, per giunta nel pieno del riflusso degli anni Ottanta. Quando “l’edonismo reaganiano” e il rifugio nel “particulare” sembravano tanto forti da soffocare o spazzar via ogni anelito di cambiamento e di liberazione.

Per analogia, e dunque con tutte le profonde differenze del caso, ciò ricorda quel che annotava Antonio Gramsci a proposito del Rinascimento e della Riforma di Lutero e Calvino. In Italia, per tanti versi culla del Rinascimento, tale fenomeno durò poco (il celebre “Rinascimento strozzato”) e riguardò per lo più le élite. Altrove, grazie soprattutto, appunto, alla Riforma, divenne “di massa”. Ecco, credo che ancora non ci si soffermi abbastanza sul merito storico delle donne legate al Pci nel tradurre un pensiero “difficile” in fenomeno di massa, tale da coinvolgere milioni di persone.

Non è difficile intuire, qui giunti, il valore del volumetto di Livia Turco Compagne. Una storia al femminile del Partito comunista italiano. Anche grazie a quella storia, la storia, quella di tutti, non si è arenata nelle secche dell’impotenza e della resa dei principi di libertà, giustizia, riconoscimento e valorizzazione delle differenze.

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