Stefano Ceccanti ha curato con Giancarlo Galeazzi una nuova edizione del libro di Emmanuel Mounier “I cristiani e la pace” (Editrice Castelvecchi), corredandola di un’ampia e significativa prefazione.
- Ceccanti, lei e il prof. Galeazzi, presentate, in un momento particolare, questa nuova edizione di un bellissimo testo di Emmanuel Mounier. Cosa contiene di così strategico per riproporlo oggi?
Mounier ci guida in un difficile discernimento. Cosa fare di fronte a forme di volontà di potenza come quella manifestata da Hitler con l’aiuto a Franco nella Guerra di Spagna, con la pace ingiusta e provvisoria di Monaco?
Certo, la storia non si ripete, non è mai uguale, le analogie sono sempre imperfette. Inoltre, il discernimento, da un lato, suppone dei criteri universali e l’assunzione di una responsabilità, dall’altro, tuttavia, accetta che anche persone che hanno una medesima ispirazione possano arrivare in concreto a esiti diversi. Il discernimento esclude perciò tanto il relativismo quanto i fondamentalismi, i semplicismi.
Qual era il punto di partenza di Mounier? La teoria della guerra giusta è stata contestata perché finiva per essere, di fatto, un passe-partout, in cui nella Chiesa cattolica si finiva per ritenere giusta qualsiasi guerra fatta da cattolici, anche senza i toni da “guerra santa” usati oggi dal patriarca Kirill e, all’epoca, da vari vescovi spagnoli durante la Guerra di Spagna.
Però non si poteva e non si può per questo passare all’estremo opposto per cui a priori ogni forma di legittima difesa armata sarebbe inaccettabile. C’è sempre la possibilità che una volontà di potenza come quella di Hitler allora e come forse quella di Putin oggi debba essere arginata anche con le armi.
Chi ci assicura che dopo l’Ucraina non possa essere la volta di Moldova, Georgia e forse anche dei Paesi baltici, se non si reagisce? Mounier, quando rifiuta il bellicismo e il pacifismo astratto, ci invita esattamente a questo tipo di discernimento storicamente concreto.
- Lei arricchisce il volume con una densa prefazione in cui, da giurista, analizza, tra l’altro, alcuni contenuti del pensiero di Mounier con la Dottrina Sociale della Chiesa e la Costituzione italiana. Quali correlazioni, in particolare, con l’articolo 11 della nostra Costituzione?
L’articolo 11 va letto per intero. Il ripudio della guerra è ripudio di tutte le forme di aggressione, delle nostre, ma anche di quelle altrui. Per questo esso, in un unico comma, sfocia sulle limitazioni di sovranità e quindi su organizzazioni sovranazionali capaci di rispondere alle guerre di aggressione, capaci di porre gli aggressori in condizione di non nuocere.
L’articolo 11 è stato utilizzato in modo coerente sia per l’adesione all’ONU, sia per quella alle varie Comunità europee (oggi Unione Europea), sia alla Nato. Scelte sulle quali o sin da subito o comunque in progressione nel corso dei decenni si è verificata una sostanziale convergenza delle forze che avevano votato la Costituzione.
Peccato che non si riuscì, a causa del blocco da parte del Parlamento francese, a dar vita nel 1954 alla Comunità europea di Difesa, a cui De Gasperi e Spinelli avevano dato una curvatura anche di federalismo politico. Si pensi che, grazie ai due grandi italiani, l’articolo 38 del Trattato prevedeva che l’Assemblea parlamentare della Ced si costituisse in Assemblea costituente per redigere un progetto di costituzione federale o confederale per l’Europa dei Sei.
Torniamo però all’ONU. Se si legge bene la Carta di quell’Organizzazione agli articoli 51 e 52 troviamo tre principi: diritto di autodifesa degli aggrediti, centralità del Consiglio di Sicurezza, valorizzazione in chiave sussidiaria di accordi regionali. Ora, in caso di aggressioni ad altri Paesi, anche non alleati, quali sono le scelte più conformi nella logica dell’articolo 11?
La migliore in assoluto è quella di dar seguito alle decisioni del Consiglio di Sicurezza, ma se esso risulta bloccato come in questo caso a causa del veto russo, bisogna comunque utilizzare gli altri due perni: supporto al diritto di autodifesa degli aggrediti e scelte multilaterali in sede UE e Nato.
Quello che stiamo facendo non è quindi in deroga all’articolo 11, ma in coerenza con esso e sempre in una logica di scelte proporzionate, di equilibrio tra il bene che si fa nell’aiutare chi si difende e il male che si arreca a chi attacca. Per questo diamo armi ma non entriamo in uno scontro frontale con una no fly zone.
- Mounier è il filosofo dell’engagement. Ha partecipato alla resistenza francese contro il nazismo. Lui prende le distanze dal bellicismo e da una certa forma di pacifismo. Propone una terza via realistica. Che caratteristiche ha?
Mi sembra che Mounier ragioni anzitutto in termini antropologici. Il cristianesimo fa leva sulla parte di bontà dell’animo umano e su una prospettiva di redenzione della persona e in questo senso prospetta traguardi elevati per la persona e per la comunità internazionale, come istituzioni ben più forti della Società delle Nazioni.
Tuttavia, esso è anche consapevole del peccato, della parte di male che c’è nelle persone e che si manifesta anche nella volontà di potenza e non può quindi, ove necessario e opportuno, rinunciare a priori anche a mezzi imperfetti.
Non a caso, Mounier usa altrove, in altri bellissimi testi, le nozioni di “ottimismo tragico” o di necessità di fusione nella stessa persona di polo profetico e polo politico. È quanto sottolineava, in termini un po’ diversi ma convergenti, anche Ramon Sugranyes de Franch, uditore laico al Concilio, amico soprattutto di Maritain ma anche di Mounier, che in sede di redazione della Gaudium et spes aveva insistito perché nel documento conciliare venisse introdotta l’esortazione ad adottare una mentalità completamente nuova in questa materia, tenendo conto del fatto che può venire il tempo in cui ci si trova a dover scegliere tra due principi: “Mai più guerra” o, in alternativa “Mai più Auschwitz” (in termini temporali più ravvicinati “Mai più Srebrenica”).
Se vogliamo evitare nuove Srebrenica, di fronte a gravi volontà di potenza, si deve anche considerare l’opportunità di intervenire in Serbia, come abbiamo fatto. Sugranyes, che aveva lavorato perché il Concilio restringesse i criteri della guerra giusta nell’era nucleare, fu su questo punto a favore del principio di scelta, per il “Mai più Srebreica”, e non ci vedeva contraddizione rispetto ad allora.
In questo seguiva perfettamente il metodo di Mounier. Consiglio a tutti la rilettura della sua intervista al monaco benedettino Hilari Raguer Dalla guerra di Spagna al Concilio. Memorie di un protagonista del XX secolo, edito da Rubbettino.
- Guardando all’oggi si può dire che Mounier è un riformista?
Sì, su questo tema specifico e su molti altri sì, anche se nessun pensatore è privo di contraddizioni. Richiamo soprattutto su questo la conferenza che fece il suo amico Paul Ricoeur a Parigi nel 2000, per il cinquantesimo dalla morte e a cui potei assistere di persona. La ripubblicò con una mia premessa Luigi Covatta su Mondoperaio nel 2010 e si può rileggere qui.
Mounier non sfuggì del tutto a due tentazioni che sono ricorrenti: un certo catastrofismo dottrinario che svalutava l’eredità del liberalismo, specie delle istituzioni pur imperfette degli anni ’30 e una certa eccitazione rivoluzionaria che non coglieva la dinamica positiva che, ad esempio, innescava indubbiamente il Piano Marshall.
Però, al di là dei singoli aspetti, i vari personalismi costituiscono un pensiero non ideologizzato, una matrice di idee tuttora pienamente attuali. Per questo ho curato per Morcelliana anche la nuova edizione delle Riflessioni sull’America di Maritain degli anni ’50, in cui l’altro grande filosofo personalista valorizzava pienamente l’esperienza democratica anglosassone, vaccino contro disfattismi ed eccitazioni rivoluzionarie.
- In definitiva che idea di pace sostiene Mounier?
La pace che aspira a soluzioni alte, multilaterali e non violente, ma che, quando incontra la volontà di potenza, non cede a forme di resa, accetta anche scelte molto imperfette.
Pubblicato sul sito di RaiNews.