La Parabola dei Talenti e la Parabola delle Vergini: la prima, rievocata dall’amico on. Giorgio La Pira; la seconda, dall’amico on. Piero Malvestiti, a suffragio di due tesi economiche, che sembrano in flagrante contraddizione mentre non c’è contraddizione alcuna tra le due Parabole e neppure nell’animo dei due nostri amici.
«Io sono certamente d’accordo con te sulla Parabola dei Talenti; ma tu sei certissimamente d’accordo con me su quella delle Vergini stolte», scrive il cristiano Malvestiti al cristiano La Pira.
«Più che i denari, manca l’impegno necessario per mettere in circolazione il talento messo sotto terra», afferma il «ragionatt» La Pira.
«Può avvenire il momento delle vergini stolte, quando le vergini prudenti rifiutano l’olio – perché non basterebbe né a noi né a voi», ribatte il «ragionatt» Malvestiti.
E così di seguito per svariate colonne di Cronache sociali e di La Via: una bella schermaglia di saper sacro e profano tra due bravi schermidori, che sanno quel che si dicono nell’un campo e nell’altro e lo dicono molto bene.
C’è chi sorriderà di codesti nostri scrittori di economia politica, che felicemente intercalano riferimenti evangelici ad argomenti tecnici. Per me, che non sono un «ragionatt» e non me ne intendo di economia e non oso arrischiarmi su quell’infido e pericoloso terreno, il Vangelo citato dall’uno e dall’altro mi offre il pretesto di prendere la parola, non per spartire la mia larga amicizia o la mia piccola logica tra due amici e due scuole, ma per accompagnare un mio sentimento, che vorrebbe far da ponte alle due parabole se non alle due economie.
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Mettiamo subito fuori causa l’animo e l’impegno verso la povera gente: sentimenti e propositi che sono familiari tanto in Malvestiti che in La Pira, in Fanfani che in Pella, in Dossetti che in De Gasperi.
Il vocabolo è andato più in là dell’intenzione: cosa che facilmente accade quando si sta male. E lo star male che dà la «povera gente» a chi se la vede sempre intorno e non sa dove mettere mano per aiutarla, è un sentimento divorante. Mentre le cifre, la moneta, il bilancio, il pareggio, gli investimenti, l’economia dei profitti, le aree depresse… sono argomenti soltanto fastidiosi, e si può girar loro intorno anni e anni fino a quando gli avvenimenti danno una spallata ai nostri castelli di carta.
Ma se questa realtà umana, che sono i poveri, alquanto diversa dalla «realtà dell’economia italiana» non è dimenticata un istante da La Pira e da Malvestiti, come mai non concludono allo stesso modo? – O, per essere più esatti – come mai intendono di aiutarla per vie così diverse?
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Secondo me, c’è qualche cosa d’incompleto o che non tiene bene tanto nell’una che nell’altra maniera di vedere.
La Pira ha un’ottima partenza evangelica, ma non resiste alla tentazione «di convalidare la sua fondamentale premessa cristiana da un’altrettanto fondamentale premessa economica». In Malvestiti, che parte invece dalla «realtà dell’economia», credendo di raggiungere più vitalmente il Vangelo, ci si accorge infine che il Vangelo c’è, ma con saldatura d’occasione.
Con buona pace di ambedue gli amici, accantono le loro rispettive e rispettabili «economie» e mi attengo all’unica «realtà» che io conosco e che è realtà umana, cristiana, economica e politica insieme.
In Italia abbiamo due milioni di disoccupati, quindi sei milioni almeno di «povera gente», cui non basta dire che «sono un’Eucarestia sociale e che sono necessari alla società quanto è necessaria la pioggia ai campi».
A meno che non li si voglia cancellare come uomini, spegnere in loro ogni possibilità di elevazione cristiana, far saltare libertà, democrazia, ordine umano ecc… bisogna dar lavoro a tutti, dare il pane quotidiano a tutti. Il resto è condizionato da queste primordiali esigenze: lavoro e pane.
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Il lavoro prima del pane
Malvestiti questo lo sa al pari di La Pira e meglio di me; ma siccome egli è preoccupato di mantenere il costante rapporto voluto dagli economisti tra «il produrre e l’economicità della produzione», fa sue queste parole dell’economista Federici. «Vanno prese con le molle certe teorie che si preoccupano di escogitare espedienti, non per accrescere il reddito reale e cioè i beni di cui potranno disporre gli individui, bensì per dar impiego a chi è disoccupato. Gli uomini in definitiva non chiedono affatto di lavorare, bensì di soddisfare nella maggior misura possibile i propri bisogni; la qualcosa diventa tanto più agevole quanto maggiore è il reddito reale, e cioè la quantità fisica dei beni che si riesce a produrre in un’unità di tempo».
E dell’uomo che non lavora perché la sua produzione non è redditizia che ne faremo? Cosa diventerà? Se procediamo con questa logica, il reddito mangerà l’uomo nello stesso tempo che gli dà da mangiare. Mi viene il dubbio che anche questo sappia di materialismo, se pur la mia ignoranza specifica non mi trae in inganno.
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Lo stesso sarei tentato di dire nei riguardi della moneta, la quale, se fossero vere le parole di Schacht, finirebbe per mangiare l’uomo. «Più diventa grande il numero degli uomini che vengono, nel corso dell’evoluzione storica, esclusi dal possesso dei beni immobili, e maggiore diventa per essi l ‘importanza della stabilità della moneta, nella quale si concreta il loro successo e che deve fornire la possibilità di mettere al sicuro le proprietà acquistate e accumulate».
Ma da noi, almeno adesso, la «realtà dell’economia» è un po’ diversa. Ci sono sei milioni e più di «povera gente» che non è esclusa soltanto dal possesso dei beni immobili, ma anche dall’avere denaro. Crescendo il numero dei senza roba e dei senza denaro, per ragioni che non so e non voglio sapere, quale significato umano può avere, caro Piero, la difesa della roba e della «valuta»?
Forse, seguendo Schacht saremo sulla strada della razionalità economica, ma fuori dell’uomo e del Vangelo, che difende l’uomo.
I poveri sono sempre con noi, proprio perché il Signore vuole che li teniamo presenti per primi («gli ultimi saranno i primi» – cfr. Matteo 19,30) ogni volta vogliamo sistemare la casa e la convivenza dell’uomo
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Ma l’Italia (sempre opportuno il tuo richiamo, caro Piero), è «un paese povero, un paese vinto, un paese sovrapopolato, un paese che ha un gigantesco problema di ricostruzione da affrontare e un pungentissimo problema di costi», quindi fuori di ogni normale legge economica, e che nessun governo può risolvere per vie normali, e che gli italiani devono portare con pazienza. Posso anche convenire che come c’è una impazienza demagogica, ci può essere un dottrinarismo disfattista, che spesso favorisce l’impazienza demagogica.
Dopo queste premesse, che ci impediscono di inalberare il vessillo della «stoltezza economica» e quello della troppa «saggezza», non ci resta che una sola strada da tentare, la strada che ci insegna, ai ricchi prima che ai poveri, di spartire equamente i pesi dell’ora difficile che gli italiani devono attraversare.
Non devono essere soltanto i poveri che portano, ma tutti e in egual misura. Questo che domandiamo non è il miracolo della moltiplicazione dei pani e del lavoro, ma il miracolo della fraternità, con un governo cristiano, e una Chiesa cristiana non dovrebbe essere impossibile.
Su questo punto dello spartire i pesi, impedendo lo spreco, il lusso, le disuguaglianze più irritanti e i guadagni esagerati, che non sono soltanto di capitalisti, ma di sportivi, di divi del cinema, e professionisti di fama ecc…, il Governo ha fatto tutto quello che doveva e poteva?
E la cristianità ha fatto altrettanto, mettendo a disposizione tutte le sue risorse e le sue riserve per dare lavoro e pane ai suoi figli?
Se le casse dello Stato sono esauste e ogni mezzo per impinguarle è stremato, si possono ipotecare musei, pinacoteche, incunaboli… Ogni patrimonio che sopravvive alla rovina morale e cristiana della «povera gente» è un patrimonio maledetto.
E il ricordare a chi ha cura di anime che quando stanno per «saltare», per fame e disoccupazione, «le pietre vive del tempio», le pietre morte, se non servono a dare una testimonianza della nostra carità per salvare la fede e la speranza in agonia, saranno la nostra condanna nel giorno del giudizio, è forse un’irriverenza o un sacrilegio?
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In quest’ora la carità ha una funzione misteriosa ed efficacissima nell’economia del nostro paese e del mondo. I cattolici la devono predicare con le parole e con l’esempio; il governo imporla con equità dove l’esistenza e la sordità sono criminali.
Un dialogo puramente tecnico mi pare ormai superfluo e dannoso; e siccome l’amico Malvestiti è d’accordo con l’amico La Pira «che la Provvidenza non può non pensare a chi ha fatto umanamente il possibile», vediamo di non lasciar nulla d’intentato.
Né Governo, né Partito, né Cristianità verranno risparmiati, qualora Governo, Partito, Cristianità non avranno fatto tutto ciò che si può fare per eliminare la disoccupazione, che è «una grave lesione dell’ordine morale, dell’ordine economico e dell’ordine sociale, su cui si radicano le piante parassitarie del!’odio e del pervertimento».
Primo Mazzolari
(Adesso, n. 9, 30 aprile 1950)
Il testo – pubblicato sul quindicinale Adesso nel 1950 con il titolo «La povera gente. tra due parabole, due amici, due economie» – è ripreso dal volume antologico Primo Mazzolari, La parola ai poveri, a cura di Leonardo Sapienza, EDB, Bologna 2016.
È da tempo che leggo don Milani. In questi giorni mi sono imbattuta in una fitta corrispondenza tra don Primo Mazzolari e don Lorenzo Milani i due mi ricordano tanto Peppone e don Camillo: nessuno dei due va via senza aspettare l’altro! Eppure tra Primo e Lorenzo non c’è mai stato un incontro alla pari. Ma si volevano un bene fuori misura. E se lo scambiavano tramite lettere. Nel libro di don Lorenzo dal titolo Perché mi hai chiamato? c’è una fitta corrispondenza tra loro. E la lettera più bella di don Primo è quella scritta subito dopo l’uscita del libro Esperienze Pastorali. Don Primo vedeva Lorenzo come un suo figliolo. Dal primo articolo che Lorenzo manda alla direzione del giornale Adesso nasce un forte legame tra i due sacerdoti. Tra le tante lettere questa è la più bella che don Primo manda a don Lorenzo, secondo me.
«Caro don Lorenzo,
volevo scriverti, dopo aver ricevuto la tua risposta, per ringraziarti, quantunque essa non abbia molto soddisfatto né me né il richiedente. Questa mattina è arrivata la Civiltà Cattolica e il grazie che ti volevo scrivere è travolto da una pena che non so esprimere. L’attacco non mi sorprende: credo di avertelo preveduto, ma non me l’aspettavo così spietato, benché avesse avuto il battistrada nella Settimana del clero. Misuro il tuo dispiacere da esperienze consimili ripetute più e più volte, e vorrei che tu mi sentissi vicino, paterno amico, anche se non so dirti una parola. Devi, con l’aiuto di Dio, entrare nella zona del silenzio. Parla con pochi, scrivi ancor meno: sfogati con nessuno: offri ogni pena al Signore, disperdendo ogni amarezza. Non darti spiegazioni: evita la polemica, soprattutto guardati da ogni accento troppo sicuro: non cercare aiuti dagli amici: accetta la solitudine. Se no, non ti salvi dagli uomini e non rimani dalla parte del Signore. Il primo lavoro è sempre molto caro e talvolta l’affetto ci rende un po’ esagerati. Non te ne faccio colpa: ci son passato anch’io per questa tentazione. Ci guarisce un bagno di umiltà, un atto di fede oltre gli uomini, un abbraccio ai tuoi figlioli e amici, che aspettano da te conferma del tuo amore verso la Chiesa del tempo e dalla eternità. Paternamente ti stringo al cuore che sa.
Tuo don Primo».
(da M. Gesualdi (a cura), Perché mi hai chiamato?. Lettere ai sacerdoti, appunti giovanili e ultime parole, San Paolo).
In questa lettera si sente il dolore che provano entrambi.