In questi giorni, si affacciano alla mia mente, con una certa insistenza, avvenimenti e persone del passato legate a cammini e riflessioni della giovinezza, che – chissá perché – hanno la pretesa dell’attualità in questo tempo difficile e duro della storia umana.
Sono ricordi che echeggiano accompagnati da una canzone:
Alle grida strazianti e dolenti
Di una folla che pan domandava,
Il feroce monarchico Bava
Gli affamati col piombo sfamò.
Furon mille i caduti innocenti
Sotto il fuoco degli armati caini
E al furor dei soldati assassini:
“Morte ai vili!”, la plebe gridò.[1]
Questa canzone fu composta dopo le manifestazioni popolari del maggio 1898, a Milano, spietatamente represse dall’esercito sabaudo, comandato dal generale Bava Beccaris. I “moti del pane” contarono 127 morti – si parlò anche di 500 morti – uccisi dalle cannonate dei soldati. Bava Beccaris fu insignito dal “re buono” Umberto I del titolo di Grand´Ufficiale dell’Ordine militare dei Savoia. In Giugno, il re lo nomina anche senatore del Regno. Questo mentre la Lombardia, a quarant’anni dall’annessione al Piemonte, dopo la Seconda guerra d’indipendenza (1859), era alla fame e, in quei quarant´anni, piú di mezzo milione di lombardi erano migrati in America, Argentina e Brasile.
Come non pensare allora a Gaetano Bresci, che torna dagli Stati Uniti e, la sera di Domenica 29 luglio 1900, poco dopo le 22, a Monza, uccide il re d’Italia Umberto I con tre colpi di rivoltella.
In quegli anni, su Ignacy Hryniewiecki, Sante Caserio e Gaetano Bresci scrive Leone Tolstoj, anarchico cristiano e pacifista: “Alessandro di Russia, se Umberto non hanno meritato la morte, assai meno l’hanno meritata le migliaia di caduti di Plevna o in terra d’Abissinia. Sono terribili tali uccisioni non per la loro crudeltà o ingiustizia ma per l’irragionevolezza di coloro che le compiono. Se gli uccisori di re sono spinti a essere tali da un sentimento personale di indignazione suscitato dalle sofferenze del popolo in schiavitù di cui appaiono loro responsabili Alessandro, Carnot, Umberto o da un sentimento personale di offesa e vendetta, allora tali azioni per quanto ingiuste appaiono comprensibili.”[2]
“L’assassinio dei re, come il recente assassinio di Umberto, è terribile, sì, ma non perché sia di per sé una cosa crudele. Quel che vien fatto per ordine del re e degli imperatori […], e i massacri che si compiono in guerra – sono incomparabilmente più crudeli degli assassinii commessi dagli anarchici.”[3]
Un altro nome allora appare alle porte della memoria: Dietrich Bonhoeffer, pastore e teologo – il maestro della teologia del 900! – della Chiesa confessante.
Bonhoeffer affronta il nazismo fin dall’inizio, nel 1933. Si oppone in nome della fede in Gesú e nella sua Parola. Ed è in nome del Vangelo, accettando la colpa di andare contro la Legge, che si unisce al gruppo dell’ammiraglio Canaris e partecipa, nel 1944, al fallito attentato alla vita di Hitler. Accusato di alto tradimento, è processato e condannato a morte. Sará giustiziato il 9 Aprile del 1945 nel campo di concentramento di Flossenbürg.
A un compagno di prigionia italiano, che gli domanda come può un pastore partecipare a una cospirazione che comporta la trasgressione del comandamento “non uccidere”, risponde: “Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante.”
Nel 1965, vent’anni dopo, don Milani dirà: “Se non fosse stato per la Chiesa confessante noi cristiani non avremmo più il diritto di guardare in faccia un ebreo.”
Infatti, la Chiesa cattolica, negli anni del nazifascismo, se rivestì di una non innocente neutralità, mentre la Chiesa Evangelica istituzionale fece un’alleanza esplicita con il nazismo. Solo la Chiesa confessante luterana, in opposizione alla Chiesa ufficiale, decise di affrontare i nazisti. E, nel 1945, la Chiesa confessante, la Chiesa di Bonhoeffer, fece la famosa Dichiarazione di Stoccarda: “La chiesa […] è rimasta muta dove avrebbe dovuto gridare, perché il sangue degli innocenti gridava al cielo… Essa è rimasta a guardare quando sotto la copertura del nome di Cristo si sono compiute violenze e ingiustizie… La chiesa confessa di aver assistito all’uso arbitrario della forza brutale, alle sofferenze fisiche e spirituali di innumerevoli innocenti, all’oppressione, all’odio, all’assassinio senza levare la propria voce in loro favore, senza aver trovato vie per correre loro in aiuto. Essa si è resa colpevole della vita dei fratelli più deboli e indifesi di Gesù Cristo (gli ebrei)… Lo confessa… Non ha rinfacciato al calunniatore la sua ingiustizia e ha abbandonato il calunniato al suo destino.”
Infine, c’è ancora un nome, tra molti, che riprende spazio nella mia memoria: padre Camilo Torres. Così Camilo si definiva:
Sono un rivoluzionario, come colombiano,
come sociologo, come cristiano e come sacerdote.
Come colombiano, perché non posso estraniarmi dalle lotte del mio popolo.
Come sociologo, perché grazie alla mia conoscenza scientifica della realtà,
sono giunto alla convinzione che le soluzioni tecniche ed efficaci
non sono raggiungibili senza una rivoluzione.
Come cristiano, perché l’essenza del cristianesimo è l’amore per il prossimo
e solo attraverso una rivoluzione si può ottenere il bene della maggioranza.
Come sacerdote, perché dedicarsi al prossimo, come la rivoluzione esige,
è un requisito dell’amore fraterno indispensabile per celebrare l’eucaristia.[4]
Il 15 febbraio 1966, in San Vicente de Chucurí, departimento di Santander, Colombia, Camilo Torres cade in combattimento nella sua prima azione di guerrilha.
[1] Vettori Giuseppe, Canzoni italiane di protesta 1794 – 1974, Roma, Newton Compton, 1975.
[2] L. Tolstoj, Non uccidere: la prima edizione fu quella dei Listkì svobodnago slova, n. 17, 1900. In Russia, Non uccidere venne pubblicato in brossura dalla casa editrice Obnovlenie, a Pietroburgo, nel 1906. Le citazioni da Non uccidere sono secondo la traduzione di Sibaldi in L. Tolstoj, Perché la gente si droga? E altri saggi su società, politica, religione, a cura diI. Sibaldi, Oscar Mondadori, Milano 1988.
[3] Ivi.