Usain St. Leo Bolt, velocista giamaicano, l’uomo più veloce del mondo, una sorta di leggenda vivente, a 30 anni e dopo otto ori olimpici in tre edizioni dei Giochi (Pechino, Londra, Rio) e undici titoli iridati, ha annunciato che lascerà le gare al termine dei Mondiali di atletica di Londra (5-13 agosto 2017). Lo scorso 27 luglio, Nick Ripatrazone – già firma di Rolling Stone, The Atlantic, The Paris Review ed Esquire – ne ha tratteggiato un profilo (qui) sulla rivista dei gesuiti statunitensi America. Lo riprendiamo in una nostra traduzione dall’inglese.
Rio de Janeiro, agosto 2016. Il nome di Usain Bolt viene annunciato per la finale olimpica dei 100 metri. Lui sorride, si spolvera le spalle e punta dritto alla telecamera. Non potrebbe apparire più rilassato.
«Ai vostri posti». Bolt si porta il dito sulla bocca per calmare la folla, o forse se stesso. Fa un passo avanti. Si guarda indietro. Il sorriso è scomparso. Allunga le gambe all’indietro sul suo blocco di partenza. Allarga le sue mani sulla pista. Testa chinata in basso, una medaglietta miracolosa pende dal suo collo. I piedi saldi sul blocco. Si piega sulle ginocchia; lo sguardo verso il traguardo.
Poi, davanti a 35 milioni di spettatori sintonizzati sulla gara, Bolt si fa il segno della croce, chiude gli occhi mentre sfiora con la mano il petto. Solleva un dito alle labbra e poi verso il cielo, guardando in alto. I suoi occhi si fissano lì per un po’.
La pistola dello starter esplode il colpo e gli atleti scattano fuori dai blocchi. Come al solito Bolt parte lento, ma ai cinquanta metri si riprende e infiamma la pista. La medaglietta miracolosa al collo ondeggia come fosse un metronomo. Bolt brucia la linea del traguardo e rallenta la sua corsa, di fronte alla folla. Si inginocchia, china la testa e di nuovo si fa il segno della croce prima di rialzarsi.
Usain Bolt è il più grande atleta cattolico nel mondo. Detiene il record mondiale dei 100 e dei 200 metri. Ha vinto otto medaglie d’oro alle Olimpiadi. È diventato una leggenda vivente in una disciplina sportiva famosa per creare delle superstar. I suoi riti prima e dopo la gara sono completamente cattolici; eppure la fede di uno degli atleti più discussi del mondo non è un segreto.
Nato e cresciuto a Sherwood Content, in Giamaica, Bolt è stato allevato in una casa di Avventisti del settimo giorno. Sebbene abbia frequentato da giovane una Chiesa avventista, non ne è divenuto membro da adulto. Da cattolico, ha preso il nome di san Leone. Ha raccontato della sua preghiera nelle notti precedenti le gare. Non ha nascosto nelle interviste la sua fede in Dio. Nel 2013, il Vaticano lo ha invitato alla conferenza TEDx sulla libertà religiosa, in via della Conciliazione.
Bolt è un paradosso. La sua sicurezza e andatura spavalda, dentro e fuori la pista, sembrano in contrasto con questi momenti di ritualità e contemplazione. Tuttavia, il modo migliore per comprendere la sua identità è riconoscerne i tratti innati degli sprinter. Il suo allenatore al college lo chiamava «iperattivo». Era noto per essere un burlone. A differenza dei fondisti, che si stabiliscono su un ritmo regolare, gli sprinter devono esprimere una potenza simile allo scoppio di un petardo. I 100 metri sono teatro, e Bolt ne è l’interprete più raffinato. Nei tempi dell’atletica, i 100 metri sono un battito del cuore. Bolt taglia il traguardo in meno di 10 secondi. Gli sprint sono elettrizzanti, conclusi appena dopo essere iniziati.
Nel calcio e nel basket, si dissezionano lunghi incontri e partite alla ricerca di momenti esclusivi di luce: una volée perfetta o un intervento difensivo riuscito diventano materiale per highlights infinitamente riproposti. I 100 metri, al contrario, sono tutto o niente. Non ci sono tempi morti; non ci sono pause. La metamorfosi di Bolt prima della gara è il riconoscimento tacito che egli si dispone a entrare in un’altra dimensione. Il gesto di farsi il segno della croce, in qualche modo, è un invito agli spettatori a trascendere la dimensione fisica per accedere a quello spazio spirituale in cui la grandezza atletica diviene possibile.
Bolt ha parlato della sua pigrizia; della sua avversione per l’allenamento. Ammissioni di umanità che vanno considerate piccole confessioni di umiltà. Nonostante tutta la sua spavalderia, egli sa bene che i suoi doni atletici vanno coltivati. Egli, a un tempo, è uno come noi e uno del tutto differente.
Ha detto che si ritirerà dopo i campionati del mondo di atletica di Londra 2017. A Londra proverà a vincere il suo quarto oro mondiale consecutivo nei 100 metri e il suo quinto consecutivo nella staffetta 4×100. Ha dichiarato che intende ritirarsi da campione; e chi può biasimarlo? I suoi fan hanno seguito la sua parabola realizzarsi poco a poco e sanno che gli sprinter non hanno vita lunga sulle piste.
Strada facendo, uno degli atleti più famosi del mondo è diventato un’icona cattolica sotterranea. Bolt riassume in sé l’intersezione di sport e fede: la convinzione che si possano raggiungere cose straordinarie, superando la propria dimensione quotidiana, o almeno vivere la trasformazione di altri.
Difficile immaginare le Olimpiadi 2020 a Tokio senza Bolt. Ci mancheranno la sua abilità di showman e la sua velocità incredibile, il suo senso della performance, ma avremo perso soprattutto la sua testimonianza. C’era un uomo al vertice della sua carriera – passata, presente e forse futura – che decise di rallentare il vortice della competizione per lodare Dio. Teneva nelle sue mani il mondo dello sport. E con quelle mani ha indicato verso l’alto. Quale dono, per lui e per noi.