Una delle espressioni di papa Francesco che hanno scatenato forti discussioni sia nelle comunità cristiane sia nell’ambito civile è quella pronunciata il 29 luglio 2013 a riguardo alle persone omosessuali. Dopo aver preso posizione contro le lobby gay presenti in Vaticano in quanto gruppo di potere, il pontefice aggiunge che «se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicarla?». In realtà, se si ascoltano con attenzione e con affetto queste parole, si comprende bene che esse non riguardano il problema morale della relazione sessuale con persone del proprio genere, su cui non si dice assolutamente nulla, ma la situazione soggettiva degli individui che hanno un orientamento omosessuale. A ben vedere, ciò che il papa afferma su questo tema è assolutamente in linea con il tradizionale insegnamento della Chiesa cattolica.
Com’è noto, nessuna persona può essere giudicata nelle sue intenzioni profonde, cioè non si può sapere se essa agisca secondo la sua coscienza, dopo averla formata al meglio delle sue possibilità, o in contrasto con essa. Soltanto Dio sa se comportamenti gravemente immorali siano determinati dalla chiusura alla sua grazia o da condizionamenti ineludibili che impediscono di cogliere il bene oppure di realizzarlo. Da questo punto di vista, nessuna persona può essere giudicata, nemmeno coloro che compiono i delitti più esecrabili. Al contrario, si può e si deve giudicare il comportamento di un individuo alla luce del Vangelo, e questo fa parte di quello che la tradizione cristiana chiama discernimento.
Anche sulla questione dell’omosessualità le citate parole del pontefice non cambiano in nessun modo la tradizionale visione della Chiesa. La tendenza omosessuale in sé stessa non rappresenta affatto una condizione peccaminosa, per cui i cattolici che hanno questo orientamento sono chiamati a camminare verso la santità e a vivere la loro appartenenza ecclesiale al pari di tutti gli altri. È vero che queste persone sono chiamate alla castità, perché la relazione sessuale con una persona del proprio genere, al di là delle intenzioni soggettive con cui la si vive, resta oggettivamente un peccato grave (cf. ad esempio Catechismo della Chiesa Cattolica, 2357-2359). Tuttavia se un cattolico omosessuale non arriva a condividere questa posizione, resta comunque un membro della Chiesa invitato a continuare il suo cammino di conversione. Se in coscienza si sente in grazia di Dio, egli potrà accedere anche alla comunione eucaristica, a meno che non conviva. In ogni caso, avrà diritto al massimo rispetto, sia sul fronte ecclesiale che nella società civile, anche se la legge dello Stato dovrà comunque privilegiare le coppie eterosessuali in quanto possono generare la vita ed educarla nel miglior contesto possibile, cioè quella della territorialità biologica.
Insomma le citate parole di Francesco sono in piena sintonia con la valutazione etica cattolica della condizione omosessuale. Occorre chiedersi, quindi, perché siano state interpretate come innovative. Una delle ragioni potrebbe essere il fatto che oggi per molte persone è difficile capire cosa vi sia di immorale in una relazione sessuale con persone del proprio genere. È vero che questa relazione è sterile, ma attraverso di essa non si può comunque esprimere un amore sincero per il partner? Forse per questa ragione si tende a vedere in ogni parola del magistero che esprime affetto e rispetto verso le persone gay e lesbiche l’inizio di un suo allineamento a questo sentire comune.
A mio giudizio, la ragione per la quale la Chiesa cattolica non può riconoscere la bontà di una relazione sessuale con persone del proprio genere è ben attestata dal racconto della creazione in Gen 2,4b-25. Secondo questa pagina, la creatura che può colmare la solitudine del cuore dell’uomo, cioè la donna, è quella che è simile a lui, ma che pure è radicalmente differente. Essa è fatta della sua stessa “pasta” – la costola –, ma resta al contempo misteriosa, perché egli non vede come fa Dio a crearla. Proprio questa differenza radicale tra l’uomo e la donna, che è quella di genere, è il presupposto indispensabile per il quale il primo può lasciare la sua famiglia di origine e unirsi alla seconda, diventando una sola cosa con lei (cf. v. 24). Insomma, la radicale diversità tra uomo e donna, proprio quella che complica la vita di ogni coppia e che rende estremamente complicata la loro convivenza, è nello stesso tempo la ragione e la condizione del loro amarsi per tutta la vita.
Dunque, secondo Gen 2 quel tipo singolare di amore che arriva al dono totale e definitivo di sé e che quindi può essere espresso dalla relazione sessuale richiede come sua condizione inalienabile la radicale alterità del partner. Non è sufficiente la diversità dovuta alle variegate storie personali, ma occorre una differenza radicata sul piano antropologico, cioè quella di genere. In assenza di tale differenza, come avviene nelle relazioni omosessuali, potrà esistere un autentico affetto, una vera amicizia, ma non si potrà mai determinare quell’amore che può riempire la solitudine personale e motivare continuamente il dono totale di sé.
Occorre riconoscere, però, che questa visione biblica non collima con il modo in cui frequentemente la nostra cultura ci spinge a vivere le reazioni interpersonali, intese in senso lato. Il narcisismo che tutti respiriamo ci fa pensare che la felicità consista nell’innamorarsi di sé stessi, cioè nel porre la propria persona al centro di tutto. In questo modo, però, il rapporto con gli altri finisce per funzionare nella direzione contraria rispetto a quella indicata da Gen 2. Chi è innamorato di sé stesso, infatti, potrà cogliere qualcosa di buono nell’altro soltanto nella misura in cui questi gli assomiglia, e la relazione con lui diventerà un tentare di omologarlo sempre più a sé stesso. In fondo, questa è una logica di potere, del resto connaturale al narcisismo, che è peccaminosa in quanto radicalmente alternativa a quella dell’amore. È proprio a questo livello relazionale, e non semplicemente sul piano specifico dell’etica sessuale, che le nostre comunità dovrebbero investire le loro migliori risorse educative.