Da tempo immemorabile gli umani sognano di liberarsi dai compiti sgradevoli, e in effetti pochi fortunati realizzavano il sogno: molti capolavori dell’arte e del pensiero, poniamo, ci sono giunti proprio perché i loro autori, per mezzo della fatica di schiavi, servi della gleba, contadini o operai, erano affrancati dal lavoro manuale pesante.
E a lungo il dilemma è stato: liberazione del lavoro (sua umanizzazione, dunque) o liberazione dal lavoro (come pure qualche pagina di Marx lascia presagire), grazie ai prodigi della tecnica? Il fatto nuovo introdotto dall’intelligenza artificiale è che non solo le “macchine” (più di tutte i robot) sono in grado di sostituirci nei compiti sgradevoli, ma alcune, con i loro “algoritmi”, possono (o potranno) prendere il nostro posto anche per svolgere funzioni di alta responsabilità e per le attività più creative.
Eppure vi sono lavori che richiedono più personale che in passato. Potremmo rappresentarli con tre figure-icone: il “rider” (almeno fino alla diffusione massiccia dei droni), la “badante” (a dispetto del celeberrimo film di Alberto Sordi “Io e Caterina”), l’operatore di call center. Forme di sfruttamento spesso esasperate, dunque, e, al tempo stesso, opportunità da regolamentare adeguatamente. Naturalmente, ad esempio, la figura della “badante” è simbolo e metafora di tutti coloro che si occupano di salute e assistenza, dai luminari della medicina agli operatori socio-sanitari fino alle “collaboratrici domestiche” o alle baby-sitter (il cosiddetto personale “di care”, in senso lato). Analogo discorso si potrebbe fare per le altre due “icone”.
In ogni caso, non siamo alla fine dei lavori, di tutti i lavori. Piuttosto, ci troviamo al cospetto delle loro metamorfosi.
E, a mio avviso, la stessa intelligenza artificiale andrebbe collocata nel quadro più generale delle intelligenze diffuse, umane e artificiali, che potranno rappresentare uno dei paradigmi, a livello globale, del mondo di domani. Occorrono sempre più, detto altrimenti, le intelligenze, al plurale: intelligenze di donne, di uomini, di ragazzi, di persone attempate e sagge, di “macchine”. Intelligenze volte a creare, produrre, riflettere, risolvere i problemi e, nello stesso tempo, in grado di porli, di coglierli.
Qui si situerebbero le nuove dimensioni della liberazione: di quella femminile come di quella giovanile (sempre in una prospettiva globale, guardando non solo a noi, ma anche “al resto d’umanità”), della liberazione nel lavoro come di quella della natura e delle altre forme viventi da un giogo umano divenuto asfissiante. E, perché no?, liberazione delle stesse intelligenze diffuse dalle pratiche o dalle tentazioni “oligarchiche” e tiranniche di pochi esseri umani in combutta con le “macchine” (con quelle da loro controllate o rispetto alle quali fungono da “complici”).
Un’utopia? Piuttosto una sfida, mi sentirei di dire. Un’ardua sfida.
L’intuizione e il libero arbitrio non saranno mai qualità delle macchine, l’uomo è insostituibile.
Ma le macchine non possono essere realmente intelligenti, le loro “intelligenze” non sono tali. Potrei argomentare ma piuttosto rimando a libri come “Irriducibile” di Federico Faggin, grande informatico.