Le identità e i conflitti

di:

lazzarin

Il conflitto, che ultimamente mi sta preoccupando, non è con coloro che erano dall’altra parte della barricata, bensì con coloro che pensavo fossero dalla mia stessa parte. Infatti, il confronto con quelli che sono abituato a chiamare nemici della vita, violenti e persecutori dei poveri, aveva contribuito all’unità di coloro che pensavano di aver fatto l’opzione liberatoria per i poveri, per il bene, per l’etica, per la verità, per la bellezza, per la Vita.

La fiducia nei miei partner non è stata smentita sulla base dei limiti che segnano tutti gli esseri umani. Insomma, la disillusione non nasce dalle difficoltà di vivere con temperamenti e caratteri diversi, né dalla presa di coscienza delle incongruenze etiche.

La delusione − con la sofferenza che ne consegue − sorge quando le alterità, le differenze di genere, di età, di razza e di etnia cominciano ad essere colte come reperto ideologico e politico di una sinistra orfana della pratica e del concetto di classe.

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Allo stesso tempo, nelle valli cristiane, è scomparsa l’eredità di Medellín e la fiducia nel protagonismo dei poveri. E, sulla base di diverse e perentorie affermazioni circa il “luogo della parola”, la possibilità del dialogo è stata frequentemente interrotta.

Noto − ad eccezione dell’assoluta e indiscutibile libertà e legittimità di affermarsi come popolo, etnia e genere, quali protagonisti del discorso e della lotta − il pericolo che l’identità, aderendo alla molteplicità, possa, in nome della differenza, annullare ogni comune determinazione sociale, compresa l’ormai limitatissima categoria unitaria di classe e − decisione che ritengo molto più pericolosa − così negarsi al processo di costruzione dell’universalità.

In effetti, come è possibile costruire un’alternativa politica a partire da una realtà sociale atomizzata e frammentata? Come costruire un’universalità amorevole, disarmata e pacifica? Come sconfiggere definitivamente l’odio e costruire una sinfonia universale, un’armonia di differenze irriducibili ma dialoganti?

È tuttavia inaccettabile ignorare che l’attuale insistenza sulle identità di genere e di razza è il risultato di processi storici secolari in cui l’identità bianca, europea e cristiana ha dominato, colonizzato e soggiogato le donne e i popoli nativi, ridotto in schiavitù i neri e sterminato ebrei e zingari, pur essendo bianchi.

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Si deve altresì affermare che la difesa dell’identità è patrimonio ideologico della destra nazifascista e dei regimi autoritari, in cui l’identità da difendere uccidendo, sterminando e incarcerando nei campi di concentramento, è l’ideologia assolutista di chi controlla la macchina repressiva dello Stato.

I monoteismi, le presunzioni universalistiche, i patriottismi, gli etnismi, i nazionalismi, le ideologie, traducono, ancora oggi, gli istinti più bestiali dell’essere umano: la paura di chi non parla la mia stessa lingua e non ha la mia fede.

Poiché, nella storia recente, le trincee della sinistra sono state cancellate e la presunzione di rappresentare il bene si è frammentata in innumerevoli e contrastanti atteggiamenti di fronte alle violente congiunture, ho immaginato che il Vangelo potesse essere quella postazione in cui non prevalgono le ideologie e i discorsi, ma solo gli atteggiamenti esistenziali e le profezie.

Mi son reso conto, tuttavia, che, ancora una volta, sono caduto nella seducente trappola della trincea, come se la comunione e la comunità fossero coniugabili con un esercito, certamente unito e concorde, ma fermo, in una inutile guerra di posizione.

E così sono stato costretto ad abbandonare metafore bellicose e familiarità ideologiche a favore della simbologia del cammino di una comunità di camminatori: la comunità di quelli che camminano, in uscita, che si rivela come comunione di solitudini (von Balthasar), all’ombra della Croce vittoriosa di Gesù.

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Oggi, in tempo di Giubileo, variamente ed equivocamente interpretato, si dice che siamo “Pellegrini della speranza”, in un esodo fatto di insicurezza, precarietà, incertezza, rischio, di sorprese lungo il cammino che ci trova disposti a formulare nuove domande e a indicare nuove possibilità.

Su questo percorso incerto e pericoloso, sorge il dubbio: l’appropriazione da parte dei progressisti del tema della differenza e dell’identità è un’alternativa virtuosa alle universalità greche, latine e cristiane, oppure sono affermazioni identitarie eurocentriche e patologiche, che rifiutano la diversità e promuovono l’inimicizia, la guerra, il colonialismo, il patriarcato, il sessismo e il razzismo? Dobbiamo rinunciare a progetti che mirano all’unità, alla fraternità e a un’universalità degna di questo nome? O dobbiamo rassegnarci alla frammentazione, alla divisione, alla guerra?

La prospettiva identitaria progressista mi sembra configurarsi come una rinuncia a confrontarsi con i veri nemici, che stanno crescendo e rafforzandosi sempre di più nell’attuale congiuntura. Stiamo assistendo ancora una volta alla tragedia del ritorno dei monoteismi omicidi e genocidi, nella totale impreparazione di coloro che dovrebbero opporsi a una nuova stagione buia della storia.

Ciò accade in tutto l’Occidente, con l’avallo di intellettuali e istituzioni e ampi settori ecclesiastici, ove questi si connettono col populismo di estrema destra, ripetendo complicità con le dittature economico-militari, che, nell’arco di tre decenni, hanno seminato oppressione e violenza − qui in Brasile − nell’Abya Ayala.

Nel contesto occidentale, il cocktail religione-estrema destra è caratteristico di settori significativi della Chiesa cattolica, delle Chiese protestanti storiche e delle più recenti Chiese neo-pentecostali.

Tanto che l’Umbanda, il Candomblé e lo Spiritismo non hanno neppure svolto un ruolo significativo nel sostenere la dittatura economico-militare brasiliana e, nonostante un’iniziale narrativa di riconoscimento nazionalista, sono stati di fatto oggetto di persecuzione e di repressione. Oggi, non sembrano avere un ruolo attivo nell’elaborazione ideologica della nuova destra; al contrario, emergono come alleati nella riconquista dei territori e delle eredità ancestrali nelle lotte dei popoli originari, dei contadini e dei quilombola.

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Limitandoci, però, al solo campo occidentale, nella anamnesi e nella diagnosi del rapporto religione-estrema destra, ignoreremmo che la stessa commistione fondamentalista e violenta avviene anche in Oriente. Penso alla teocrazia sionista visceralmente occidentale dello Stato di Israele e al suo specchio dialettico: la teocrazia sciita dell’Iran.

Penso anche alle mescolanze teocratiche islamiche di origine sunnita: Al-Qaeda, Hamas, Fatah, i talebani in Afghanistan, o gli sciiti di Hezbollah, o gli sciiti Huthi; ma anche i sunniti del nord-ovest dello Yemen e i teorici e miliziani della Jihad intenti ad annientare l’infedele e pervertito Occidente.

Non posso peraltro ignorare la riduzione della religione alla politica in India da parte del Bharatiya Janata Party (BJP) del primo ministro Narendra Modi, che promuove il nazionalismo indù antislamico e anticristiano.

Più grave, con connotazioni repressive, liberticide e bellicose, è l’alleanza panrussa tra l’Ortodossia della Terza Roma e la dittatura putiniana, in guerra – anche loro – contro l’Occidente corrotto e pervertito. Tragica è anche la collusione tra Trump e settori significativi delle Chiese, tra cui fedeli dell’elettorato cattolico, tradizionalmente repubblicano.

Bisogna sottolineare che l’ideologia-teologia antioccidentale, islamica o pan-russa che sia, trova alleati e complici in tutti i movimenti e partiti della nuova destra in Europa, nelle “Americhe” e nella nostra Abya Ayala in Brasile. Stiamo assistendo a un processo esponenziale di regressione della razionalità, insieme alla mitizzazione del leader carismatico, alla promozione dell’odio sistematico riservato al nemico e alla contestazione radicale della cultura erede della Rivoluzione francese, mantenendo un’obbedienza cieca al sistema capitalista.

Demonizzano il “comunismo”, un fantoccio creato a loro immagine e somiglianza, con  tutta l’eredità liberale e con lo stato di diritto e la democrazia.

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I fondamentalisti sono presenti in tutte le religioni e di solito sono alleati dei tradizionalisti. Entrambi si rifugiano dietro il vecchio motto dei sostenitori religiosi delle dittature: “Dio, Patria, Famiglia”, motto condito da una buona dose di suprematismo bianco, discriminazione e persecuzione degli indigeni, dei neri, dei quilombolas, dei contadini, degli abitanti delle favelas, dei migranti, degli omosessuali: lotta di classe, alla rovescia, che si rivela efficace e vittoriosa, alimentando il disprezzo e la violenza contro i poveri.

Siamo di fronte a una congiuntura che presenta novità impensabili fino a pochi anni fa: la destra tradizionalmente antiebraica viene riciclata attraverso l’antisemitismo islamico, mentre sostiene senza restrizioni la politica militarista di Israele. In Brasile, questa destra è sostenuta da ampi settori del pentecostalismo protestante, con deliri inspiegabili, che sembrano non avere alcun legame con l’escatologia predicata dai gruppi restaurazionisti nordamericani che appoggiano Israele, in attesa della battaglia di Armageddon.

La congiuntura più grave e preoccupante, però, è costituita dall’importazione di conflitti apparentemente insanabili, dentro la propria casa: una crisi, che, in Brasile, è preceduta e accompagnata dalla crisi di popolarità e di consenso del lulopetismo e dalla crescita del consenso popolare al populismo di destra.

Dove c’era una familiarità ideologica e una certa armonia costruita affrontando, criticamente e pazientemente, inevitabili incomprensioni e tensioni, ora prevalgono gli inesorabili ultimatum, senza tregue e armistizi, con la radicalizzazione della pratica − che avrebbe potuto rimanere essenziale e virtuosa − del “luogo della parola”.

Oltre a fornire frammentazione e divisioni interne, la radicalizzazione identitaria, in quanto più radicata nelle classi medie urbane e nell’ambiente universitario, contribuisce all’allontanamento dei progressisti dalla base popolare contadina e urbana, che sembra avere altre preoccupazioni, certamente legate alla riproduzione della vita, a urgenze come l’occupazione, il reddito e la sopravvivenza, la terra e la produzione agricola,  ma anche − e forse soprattutto − il desiderio di essere qualcuno, di liberarsi dalla condizione di essere “nessuno”.

La pastorale della liberazione dei decenni passati, infatti, non solo ha offerto la possibilità di conquistare la terra e i diritti, ma, allo stesso tempo, ha aperto lo spazio al protagonismo pratico e teorico di uomini e donne che si sono liberati dall’oppressione e dalla discriminazione, e si sono riappropriati della parola e della lotta.

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Inoltre, nelle questioni morali legate alla sessualità e alla famiglia, pur essendo coinvolti nel contesto della modernità, i popoli delle periferie e delle campagne sono caratterizzati da altri valori, che potremmo impropriamente caratterizzare come conservatori e tradizionali. Ricordo quando gli anziani contadini definivano una cosa come “moderna”: significava che quella cosa − o quel tal dei tali − non serviva a niente.

Le recenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti cosa ci dicono? Ho l’impressione che stiamo assistendo alla sconfitta delle agende identitarie democratiche, anche perché, questa volta, Trump è stato eletto con il contributo significativo del voto di neri, latini e asiatici.  I “poveri di destra” di Jessé Souza riserveranno questa stessa sorpresa anche a noi − in Brasile − nelle elezioni presidenziali del prossimo anno?

Un ulteriore fattore di complicazione è l’importazione di modelli identitari e di logiche di guerra nella Chiesa stessa, oggi minacciata da scismi che riflettono le polarizzazioni dominanti nelle attuali dispute geopolitiche. Congiunture in cui i viandanti, “i pellegrini della Speranza” si sentono messi alle strette, impotenti. Quando la violenza colpisce i rapporti con parenti, partner, fratelli e sorelle, compagni e amici, le parole di Gesù ci avvertono: Non pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra. Io sono venuto a portare non la pace, ma la spada. Io sono venuto a dividere tra il figlio e il padre, tra la figlia e la madre, tra la nuora e la suocera, e i nemici dell’uomo saranno le persone della sua stessa casa. (Mt 10,34-36).

È come se Gesù ci avvertisse che i processi di violenza “familiare” si risolveranno politicamente, cioè con la violenza, perché questo è ciò che è sempre avvenuto fin dalla fondazione del mondo.

La ricomposizione avverrà, quindi, come sempre, attraverso decisioni politiche, che sono, inevitabilmente, più o meno violente e che, sposando un partito, tolgono di mezzo l’altra parte.

I sacrificatori suppongono di poter difendere così la loro innocenza, perché le loro mani non si sono mai sporcate direttamente di sangue e hanno ridotto le vittime al minimo, senza riuscire ad occultare la violenza omicida delle decisioni.

Gesù ci dice che è improduttivo affrontare la logica che governa il mondo con le armi tradizionali della politica − cioè, con la violenza − che finisce per accomunarci specularmente ai violenti. Ci chiama a riconoscere e a denunciare il processo sacrificale e i sacrificatori, a scegliere di stare e di lottare, sempre, insieme a Lui, dalla parte delle vittime.[1]


[1] René Girard, O bode espiatório, Paulus Editora, São Paulo 2004.

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