La settimana scorsa avevamo l‘ultima lezione del nostro corso di «etica nel discorso teologico e nella scuola». Nella mattinata di quello stesso giorno iniziavano a circolare le prime, parziali e non sempre corrette informazioni su Noa – la ragazza diciasettenne olandese segnata da una profonda sofferenza psicologica che ha deciso di morire, o meglio di lasciarsi morire.
Il dramma delle vite segnate. Non certo la prima; purtroppo non l’ultima. Per via del profilo che ha scelto di dare alla sua vicenda, si poneva la questione del rapporto fra la vita segnata, il diritto, la dimensione morale, il potere dello stato e quello dei gruppi di pressione che si assumono la rappresentanza di queste vite segnate dall’insensatezza e da una sconvolgente solitudine.
La vita segnata e la sua ideologizzazione
Nel paradosso di dare loro un profilo pubblico senza riuscire a riscattarle di uno iota dall’abissale solitudine in cui sono piombate. Rappresentanza a cui si affidano perché talvolta la morte appare davvero l’unica luce possibile nella devastazione dei giorni che non trovano più forze per cominciarne uno nuovo; o semplicemente perché non c’era nessun altro.
Ma torniamo alla lezione, che vuol dire tornare ai ragazzi coi loro vissuti. Mi sono accorto subito che non stavamo entrando in un dibattito puramente scientifico, anzi (come se su questioni che riguardano l’umano qualcosa del genere fosse davvero possibile). In tutti questi anni di insegnamento dell’etica nei suoi vari aspetti ho imparato da loro che dietro ogni tema dell’etica della vita hai di fronte a te un’esperienza di vita.
Sono sempre storie di vita
E questo cambia radicalmente il modo e le possibilità del tuo discorso, perché il rischio di fare violenza a quelle esperienze di vita, magari in nome dei principi più luminosi e appassionati della fede cristiana, è perfidamente accovacciato accanto a ogni parola che dici.
E il Dio di Gesù è il Dio dell’interdizione ultima a ogni violenza inferta all’altro foss’anche in nome della verità più sacrosanta della religione stessa. All’incrocio di queste due ingiunzioni che raggiungono oggi qualsiasi discorso etico, ossia l’esperienza della vita segnata e il comandamento assoluto della non violenza, si genera l’esigenza di un diverso modo di parlare e affrontare questioni anche decisive legate all’etica della vita umana.
Il comandamento assoluto
Si generà perché l’inaudito della violenza che puoi infliggere all’altro, ai ragazzi che ho davanti a me, alle loro storie segnate, è ben più che una semplice possibilità: è, infatti, una realtà insita in ogni parola del lessico teologico, ecclesiastico e magisteriale.
E sono loro che ti salvano, giocando l’azzardo di raccontarti le loro storie segnate. La malattia terminale del papà, con un accanimento a tenerlo in vita insensatamente che ti fa sperare che possa essere presto nella pace dei giorni di Dio. E subito dopo l’opposto.
E poi un parente stretto, profondamente segnato dalla depressione, con la famiglia che ha esaurito tutti i gesti e prossimità che l’amore sa inventarsi; con tempi di aspettativa lunghissimi prima di poter essere presi in carico da un accompagnamento medico e psicologico da parte del servizio sanitario pubblico.
Privatizzazione del pubblico
Nel frattempo, i mesi passano, un tentativo di suicidio, poi un altro. E ogni volta che succede qualcosa, cambia la diagnosi medica e bisogna rimettersi in fondo alla coda e incominciare ad aspettare da capo. Certo, se hai soldi e sei ricco, se puoi permetterti un’assicurazione privata, salti tutta la coda, sei un privilegiato nella disperazione.
Intanto, i centri di assistenza psicologica e psichiatrica qui in Germania sono sovraffollati e sotto-equipaggiati a livello di personale professionale. Uno dei tanti esiti nefasti della privatizzazione dei servizi pubblici.
Vite segnate: la resistenza appassionata della fede a considerarle ideologia
Ma vorrei tornare al nodo centrale, quello che non abbiamo ancora compreso: l’etica della vita sono storie, esperienze, ferite, che hanno sempre un nome e un volto. Per questo non possono essere mai ideologie, anche quando gruppi di pressione, o i singoli stessi, le ostentano davanti a tutti. Almeno per la fede non lo possono essere mai, perché non lo sono per gli uomini e le donne che ci passano attraverso.
E allora dobbiamo trovare un modo di imbastire un dibattito pubblico sui grandi temi dell’etica della vita che sappia rendere onore, ossia non fare violenza a nemmeno uno dei nostri fratelli e sorelle segnati dalla vita stessa. Anche perché tutti noi lo siamo, racchiusi nella grande fraternità dell’umana vulnerabilità.
L’ontologia antropologica dell’ultimo documento della Congregazione per l’educazione cattolica sulla questione del gender non lascia trasparire una goccia di umana vulnerabilità, di vita segnata, da parte della parola della Chiesa. Per questo anche quando dice di interessarsi di questi esseri umani, che non riesce nemmeno a nominare e descrivere in termini personali, di unicità delle esperienze di vita, fa loro violenza.
È questo il limite che mi preoccupa di più, ancora di più di quello di un’antropologia dell’essenza che non ha più il vocabolario per dirsi in maniera sensata agli uomini e donne del nostro tempo. Perché quel limite accende il dovere di impedire l’uso di una parola della Chiesa che, molto probabilmente, era anche ben intenzionata. Lo accende perché quella parola finisce col segnare violentemente vite già segnate dalla vita.
Davvero grazie per queste parole. Non sono di conforto.. se penso a quale Parola la riflessione magisteriale potrebbe attingere, anche nel campo dell’etica, per non fare violenza all’uomo. Mi rimane la serenità di aver compreso, anche grazie a lei, quale è la posta in gioco nel compito educativo.